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É possibile esportare la democrazia? Un dibattito filosofico-politico contemporaneo

Il XX secolo ha visto un rapido affermarsi della democrazia sia come forma di governo che come paradigma culturale su cui si è concentrata la riflessione filosofica, politica ma anche economica. Nei primi anni novanta la dissoluzione dell’Unione Sovietica e la sconfitta del socialismo come antagonista della democrazia hanno fatto sorgere alcune “ottimistiche” teorie che legavano lo sviluppo della democrazia alla stabilità dell’ordine mondiale e che iniziavano a proporne quindi l’esportazione. Con l’11 settembre, da pura elaborazione teorica, l’esportazione della democrazia diventa una strategia politica reale, si pensi alle parole del presidente Bush che ha esplicitamente affermato di voler portare libertà e democrazia in Afghanistan e Iraq.* Da tali semplici constatazioni storico-fattuali ha preso il via il lavoro di studio che ha portato a questo elaborato nel quale ci si è proposti di capire di capire se l’esportazione della democrazia possa essere filosoficamente giustificata.
La prima questione affrontata è stata quella di tracciare una definizione filosofico-politica di democrazia**: dopo una breve analisi storico-genealogica ci si è concentrati sulla democrazia oggi confrontandosi con il pensiero di tre autori in particolare: Kelsen, Bobbio e Zagrebelsky. Il primo propone una definizione procedurale di democrazia, cioè un insieme di tecniche politiche per la creazione di un ordine sociale democratico. Bobbio riprende questo filone parlandoci di quelle che lui chiama le regole del gioco: in primis regolari, frequenti e libere elezioni e la tutela delle libertà di parola, opinione, etc.. Zagrebelsky , riprendendo quella che Kelsen chiamava la tensione tra ideologia e democrazia reale/formale, ci dice che non c’è democrazia senza ethos democratico. È sintetizzando il loro pensiero che si ottiene, secondo quanto dimostrato nel lavoro, la miglior definizione filosofico-politica: ovvero la democrazia deve essere qualcosa che vada al di là delle semplici procedure politiche, deve anzi comprendere un ethos che ne informi e istruisca i giocatori: perché un gioco funzioni le regolo sono necessarie ma non sufficienti; esse vanno condivise, usate e anche apprezzate dai giocatori. Come diceva Rousseau, una democrazia può funzionare se si sa essere cittadini e non semplici sudditi.
Forte di questa definizione è stato affrontato il pensiero di Fukuyama e Sharansky, che ritengono possibile l’esportazione della democrazia. Il primo la giustifica affermando che la democrazia è figlia di un razionale e intrinsecamente necessario sviluppo umano verso cui la storia e l’umanità tende ed è quindi indifferente come essa sorga in uno stato, poiché comunque il fine si auto-dispiegherà.
Il secondo giustifica l’esportazione a partire da quella che si può considerare una vera e proprio teologia della libertà: se tutti gli uomini desiderano la libertà e se la democrazia è il regno della libertà basterà imporre militarmente il rispetto dei diritti umani e promovere delle elezioni che si metterà in moto una democratizzazione rapida e autonoma, in virtù appunto, di ciò che Sharansky chiama il potere della libertà.
Appare subito chiaro che ciò che nel pensiero di questi due autori legittima l’esportazione della democrazia è la differente definizione che della democrazia danno rispetta a quella proposta nell'elaborato. Ne propongono una definizione, infatti, esclusivamente formale tralasciando la questione culturale: non si da democrazia senza pensiero ed ethos democratico, perché essa è l’esito contingente di un processo culturale non necessario che deve passare attraverso una serie di conquiste*** .
Ma c’è forse un’altra e più diretta obiezione alla possibilità dell’esportazione: infatti se la democrazia è per definizione un metodo di creazione condivisa attraverso regole e procedure **** di un nomos, di un ordine sociale, sarebbe una contraddizione in termini la sua imposizione dall’esterno. La democrazia va liberamente scelta e perseguita dai cittadini, non imposta.
In tal senso appare esemplare il caso dell’Iraq in cui solo la democrazia formale è stata esportata, ma che difficilmente si può considerare uno stato democratico.
Se le regole del gioco sono condizione necessaria il vero problema è quello di riuscire ad insegnare, non tanto la democrazia, ma ad essere democratici: cioè a possedere un ethos e un pensiero che permetta lo stabile e consapevole funzionamento di una democrazia. E questo non è possibile in maniera forzata e immediata, ma necessita, come tutti i processi culturali, che venga dato tempo al tempo.
Nella conclusione dell'elaborato viene quindi riassunto il percorso svolto dando finalmente una una risposta teoretica, ma anche pratica, alla domanda del titolo.

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Parte prima CHE COS’ È LA DEMOCRAZIA? I .1. Un primo approccio al significato La parola ‘democrazia’ deriva dal greco (demos =popolo, kratein =governo) significa letteralmente ‘governo del popolo’. Tale significato è anche il più immediato e più comune, quello che per primo viene in mente a un qualsiasi abitante del mondo occidentale, dotato di un minimo di istruzione. Aprendo dei dizionari, leggiamo che la democrazia è una «dottrina politico- sociale» 1 e una «forma di governo in cui la sovranità risiede nel popolo» 2 . Pur essendo ancora nel campo dei significati ampiamente diffusi nel senso comune, già ci si accorge che si è prodotto un leggero spostamento semantico e un aumento della complessità a partire dalla prima traduzione letterale: la democrazia è qualcosa che appartiene all’ordine del politico e del sociale e si configura come dottrina; ovvero un insieme di teorie organicamente organizzate. Secondo Hans Kelsen (1881-1973), uno dei massimi teorici novecenteschi della democrazia: Il termine sta a designare un governo a cui il popolo partecipa direttamente o indirettamente, vale a dire un governo esercitato 1 Voce Democrazia nel Dizionario della lingua italiana compatto, a cura di T. De Mauro, Paravia, Milano 2004, p. 327. 2 Voce Democrazia nel Vocabolario della lingua italiana , a cura di N. Zingarelli Zanichelli, Bologna 1983, p. 523.

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