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Il problema meridionale e i comunisti italiani (1955-1975)

Affrontando la grande messe di pubblicazioni storiografiche che hanno trattato della storia del PCI e dei suoi rapporti con il Mezzogiorno, è emersa la mancanza di un’opera complessiva che riunisse in modo stretto la parabola storica del comunismo italiano con le annose vicende della “Questione meridionale”. La tesi si prefigge dunque l’obiettivo di fornire un contributo, pur anche modesto, nel colmare questa lacuna.
E’ stato interessante notare come il rifiuto dell’idea di un Mezzogiorno isolato dal contesto generale dello sviluppo italiano, come le tendenze liberiste avevano in parte imposto, l’idea di programmazione, la necessità dell’istituzione delle regioni a statuto ordinario, l’idea di industrializzazione del Mezzogiorno, furono tutti temi che si giovarono del supporto comunista per imporsi.
Di particolare interesse è risultato lo studio degli anni che videro nascere e realizzarsi l’esperienza del Centro-sinistra. Un periodo estremamente ricco di fermento, di speranze e di paure, in cui si intrecciavano in maniera intricata i temi della politica nazionale con quelli della politica internazionale.
Il primo centro-sinistra, quello che vide Antonio Giolitti ministro del Bilancio e dunque responsabile della programmazione economica, è quello che segna in maniera particolare l’atteggiamento politico del Pci, evidenziando l’enorme peso che l’appartenenza alla sfera di influenza sovietica e dunque l’affermazione del proprio essere comunisti, ossia antiriformisti in senso socialdemocratico, aveva negli atteggiamenti del PCI. Quel primo governo retto da Moro, povero sul piano realizzativo delle riforme promesse (non certo solo per colpe proprie: vedi il Piano Solo e il mancato appoggio comunista), presentava delle idee innovative di riforme che ben si sposavano con le decennali proposte comuniste. L’opposizione intransigente del PCI fu dettata da ragionamenti del tutto politici: paura di isolamento a sinistra, sfiducia di Togliatti nella possibilità che le classi borghesi italiane acconsentissero al riformismo.
L’insuccesso del centro-sinistra determinò il rafforzarsi del ruolo di opposizione di sinistra del PCI.
La politica meridionalistica negli anni che vanno dalla morte di Togliatti (1964) ai primi anni settanta si disperde nel mare magnum della programmazione economica, l’affermarsi della posizione, che fu anche comunista, di aggregare in una unica politica programmata l’economia del Mezzogiorno e quella delle parti più dinamiche del paese, fece perdere di specificità il problema dell’effettiva arretratezza del Sud Italia. Di questo neanche il PCI si rese conto, finendo così col sottovalutare le trasformazioni e i fermenti provenienti dal Mezzogiorno. I “Fatti di Reggio Calabria” sono una dimostrazione di quanto detto, il PCI si mostrò del tutto impreparato, anche e soprattutto culturalmente, davanti alla lotta popolare che infiammò la città dello Stretto. I dirigenti nazionali comunisti non riuscirono a vedere oltre la strumentalizzazione fascista dell’evento, non seppero cogliere il dato sociale, l’espressione di disagio di un’intera provincia, il senso di abbandono, anche da parte dell’opposizione.

Il partito era in realtà prigioniero di se stesso, della propria crescente forza elettorale, grande anche in virtù del moderatismo di cui aveva dato prova con pervicace continuità da Togliatti sino a Berlinguer, e del proprio essere un partito marxista-leninista.
Il PCI finiva con l’essere impegnato in una costante e perpetua lotta volta a giustificare la propria esistenza, che lo impegnava sia sul fronte nazionale e sia su quello internazionale.
Questa estenuante tensione lo distoglieva dalle elaborazioni strategiche per la situazione italiana, elaborazioni che sarebbero state comunque implicitamente irrealizzabili.
Il primato della politica sull’economia è dunque una costante dell’attività del PCI.
Il Mezzogiorno finiva col fare le spese di tale situazione vedendo in sede di elaborazione strategica adattata la propria condizione alle esigenze politiche del momento ed in sede tattica un PCI che passivamente accettava le linee generali dell’intervento governativo, anche se mai mancò di denunciarne le distorsioni.
E’ emblematico che quanto detto si trovi in maniera amplificata reso ancora più evidente proprio quando il PCI giunge vicino alla soglia del governo.
La povertà propositiva, la mancanza di conoscenza della reale situazione economica e sociale del Mezzogiorno, sono lampanti con la prima metà degli anni ‘70, quando il PCI assume le dimensioni elettorali degne di un partito legittimamente aspirante ad un’alternativa di governo.
In tali anni la politica comunista si riduce essenzialmente alla ricerca di un accordo verticista con la DC.
Tutto questo è la manifestazione di una grande impotenza totalmente contrastante, in apparenza, con quel 34,4 % ottenuto alle elezioni del 20 giugno 1976.

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5.4. La rivolta di Reggio Calabria I “fatti di Reggio Calabria” rappresentarono un terreno di prova arduo per la sinistra intera. La sorpresa e gravità del movimento di protesta fu grande e differenti posizioni caratterizzarono l’ormai variegato mondo della sinistra. Netto è il giudizio del PCI che fa un netto distinguo tra la natura della lotta reggina da quelle di Avola e di Battipaglia. Così si esprime a tale proposito Reichlin: Reggio [...] è stato un moto eversivo di destra, diretto e organizzato consapevolmente da un blocco di forze reazionarie impaurite a morte dall’avanzata difficile, faticosa, ma certa, di una situazione politica nuova anche in Calabria”. 1 Reichlin giudica positivamente l’operato del PCI reggino, che decise di condannare il moto, invitando il prefetto al ristabilimento dell’ordine pubblico. Su posizioni critiche rispetto l’operato del PCI a Reggio Calabria si pone il gruppo de “il Manifesto”. In un ampio articolo, Tre mesi di rivolta urbana, Valentino Parlato fa una analisi di ciò che avvenne a Reggio. Parlato non condivide il giudizio del PCI sulla natura della protesta e ne evidenzia la natura popolare. “Non credo che ci voglia molto sforzo, né ricerca di precedenti storici, per sostenere che a Reggio vi è stata soprattutto, una esplosione di collera popolare. Nell’assenza, o nell’estremo logoramento di qualsiasi organizzazione di classe, questa esplosione è stata irretita in quel complesso di complicità parassitaria e reazionaria che domina la cosiddetta “società civile” della città meridionali, ed ha avuto una gestione di destra. [...] Reggio può rientrare nella cosiddetta strategia della tensione [...], ma credere che per tre mesi migliaia di persone si siano mosse a Reggio solo per un complotto di destra è contro ogni logica”. 2 Estremamente critica col PCI è questa analisi di Parlato, sia sul piano dell’azione politica, giudicata insufficiente, che sul piano dell’analisi che vedeva in Reggio solo l’espressione dell’azione di gruppi di destra. Ma un’accusa ancora più grave che Parlato muove verso gli ex-compagni comunisti, riguarda il piano della strategia politica del PCI nei confronti del PSI. Secondo tale interpretazione dei fatti, il PCI per favorire il dialogo con il partito socialista, in Calabria rappresentato dal ministro Mancini, avrebbe “sacrificato” il proprio impegno a Reggio, appiattendosi su posizioni filo-governative, invocando il ripristino dell’ordine pubblico. Il giudizio sull’assenza che Parlato denuncia di un’organizzazione di classe, è così appesantita da un’accusa di opportunismo politico. 1 Alfredo REICHLIN, I fatti di Reggio Calabria, in “Rinascita”, n.33, 21 luglio 1970, anche in Dieci anni di politica meridionale, Editori Riuniti, Roma, 1974, p.172. 2 Valentino PARLATO, Tre mesi di rivolta urbana, in “il Manifesto”, anno II, n.10-11, 1970, (il corsivo è mio).

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Parole chiave

cassa del mezzogiorno
compromesso storico
comunismo
industrializzazione
partito comunista italiano
pci
programmazione economica
questione meridionale
riforma agraria
urss
storia d'italia
centrosinistra
palmiro togliatti
storia contemporanea
enrico berlinguer
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