Interessanti sono le valutazioni fatte da Alfredo Reichlin in merito alla situazione del
Mezzogiorno nel rapporto presentato al Comitato centrale del PCI del 19 ottobre
1970.
Reichlin parla di fallimento politico della saldatura tra la battaglia della classe operaia
del nord e la lotta delle classi lavoratrici del Sud.
Tale saldatura si è manifestata ed ha avuto successo nelle lotte contro le gabbie
salariali, ma essa doveva portare ad un risultato di maggior spessore politico: “la
formazione di un nuovo schieramento di sinistra e democratico”.
3
Ecco le ragioni del fallimento che Reichlin denuncia autocriticamente:
“Prima di tutto il fatto che, nell’autunno, la lotta contrattuale è apparsa troppo come una lotta che riguardava
solo gli occupati. Poi, mentre il Mezzogiorno povero veniva colpito duramente dal caro-vita e della crisi delle deboli
strutture produttive tradizionali (in qualche modo il 1964 si è ripetuto nel Mezzogiorno), anche la lotta per le riforme è
apparsa come ristretta a un “pacchetto” (casa, sanità) da trattare col governo, il cui contenuto sembrava solo diretto a
consolidare le conquiste dei lavoratori occupati, specie al nord. Né si è visto bene il valore che quelle questioni avevano
anche per il Mezzogiorno. In sostanza ci sembra che il movimento operaio abbia tardato a dare il giusto rilievo al
problema dell’occupazione nel Mezzogiorno, non come voce d’aggiungere al “pacchetto”, ma come punto centrale di
una linea generale di riforma capace di modificare lo sviluppo di tutto il paese.
4
Tale valutazione è ricca di spunti validi anche per il seguito della politica del PCI nel
Mezzogiorno, nel senso che poco verrà fatto per evitare il ripetersi degli errori qui
denunciati.
E’ dall’esame di quanto scritto da Reichlin che cade sul PCI un’altra pesante critica
proveniente questa volta dalla sinistra sindacale.
Le critiche vengono da Vittorio Foa che esamina i “fatti di Reggio Calabria”.
Foa ammette la sconfitta subita dalla sinistra in quell’occasione dalla sinistra
“tradizionale”.
Il sindacalista parla di una grave crisi delle organizzazioni di sinistra “che hanno
lasciato nelle mani di una destra clientelare e fascista gli strumenti essenziali della
protesta e delle lotte popolari”.
5
Partendo da tali considerazioni, Foa valuta negativamente la risposta che il PCI dà a
tali situazioni
“La debolezza della politica di sinistra si manifesta non solo nello spazio lasciato all’iniziativa della destra, ma
anche nel suo contributo oggettivo e involontario a ricomporre la tradizionale autorità di classe, autorità storicamente
nemica e oppressiva”.
6
E’ concentrandosi su quest’ultimo punto che l’analisi di Foa diventa caustica nei
confronti del PCI.
Foa rileva che “sul piano nazionale è in pieno svolgimento un’operazione riformistica
di lungo respiro da parte della borghesia industriale e finanziaria”.
7
3
Alfredo REICHLIN, Non interventi dall’alto ma riforme della struttura sociale e politica, 19-20 ottobre 1970, dal
rapporto presentato al Comitato Centrale del PCI, in Dieci anni di politica meridionale, op.cit.,p.186.
4
Ibid., pp.186-187.
5
Vittorio FOA, Dopo Reggio di Calabria, in “Giovane critica”, n.24, 1970, anche in Il Mezzogiorno negli anni della
repubblica, a cura di Giampiero Mughini, “Nuova serie dei quaderni di Mondo Operaio”, 1977, p.413.
6
Ibid., p.414.
Foa ritiene che il governo Colombo in carica è simile a quello Fanfani precedente la
nascita del primo governo di centro-sinistra, in cui il PCI occupa il ruolo che fu del
PSI, vista l’attenzione di cui è oggetto da parte della maggioranza governativa.
L’apertura “controllatissima” verso il PCI è funzionale alla ristrutturazione
industriale che il capitalismo italiano avverte come urgente di fronte alle
sollecitazioni internazionali.
“Questa operazione riformistica non ha evidentemente nulla a che vedere con una politica di riforme”.
8
Essa si configura con un programma che si sviluppa attorno a due punti principali: 1)
razionalizzazione della spesa, esigenza avvertita dalle masse (soprattutto per quanto
riguarda la spesa edilizia e quella sanitaria) ma anche dai gruppi capitalistici più
avanzati, che contrappongono la razionalità dell’impresa e irrazionalità
dell’amministrazione pubblica e che sanno che il costo dei disservizi sociali finisce
col ricadere sulla produzione (come compressione dei salari e conseguenti tensioni
sociali); 2) il secondo elemento è quello della “stabilità dell’esercizio produttivo”,
cioè il rispetto nelle imprese di una normalità che significa assenza di messa in
discussione del livello padronale. Ciò è conseguibile con il mantenimento del livello
delle lotte entro un dato limite. Le lotte operaie così limitate sono “gradite” al
padronato, in quanto sfogo delle tensione operaia, si ha una “collaborazione
conflittuale”.
“Così nella struttura come nella soprastruttura, cioè nei rapporti dello schieramento politico, la caratteristica
principale del nuovo riformismo è proprio l’organizzazione del dissenso. [...] oggi si collabora concordando il modo di
fare l’opposizione. Questo spiega perché è declinata la prospettiva “conciliare” tanto cara alla sinistra DC, cioè
l’accordo diretto fra democristiani e comunisti, e si è invece sempre più affermato il Partito socialista italiano la cui
mediazione è necessaria proprio nella misura in cui è necessaria un’opposizione che sappia collegare il governo del
paese ai movimenti delle masse. Non più dunque la prospettiva di una nuova maggioranza enorme, che comprenda tutto
l’arco che va dalla destra democristiana ai comunisti, ma un nuovo rapporto fra maggioranza e opposizione che
determini e rispetti le regole del gioco, cioè non metta in pericolo l’equilibrio generale promosso, come oggi si dice,
“dal programmatore pubblico democratico”, che vuol dire dai grandi gruppi insieme con un governo che abbia la
fiducia della maggioranza parlamentare. I socialisti sono oggi i garanti di questo nuovo rapporto. Qualcuno può ancora
sognare un governo “conciliare”, altri possono sognare una spaccatura della Democrazia cristiana che dia vita a uno
schieramento bipartitico, laburista e conservatore (tesi di questo genere hanno corso nel PSI e nel PSIUP sotto il nome
di “area socialista”). L’ipotesi più probabile, se non altro perché già in atto, è quella di una onesta regola del gioco in
cui sono fissati i limiti dell’opposizione e il governo deve tener conto delle esigenze proposte dall’opposizione”.
9
In questo quadro è chiaro ciò che l’opposizione deve dare alla maggioranza, non è
chiaro invece cosa la maggioranza “può dare” all’opposizione.
La maggioranza si limita a concedere spazio per la protesta, consentire la
partecipazione dei sindacati nelle sedi dove “apparentemente” si prendono decisioni.
Ciò che di sicuro la maggioranza non può dare è cambiare la “logica del meccanismo
di sviluppo”, nel quale il sottosviluppo del Sud è funzionale allo sviluppo del profitto.
L’errore che Foa attribuisce alla politica comunista è quello di avere teorizzato nel
processo rivoluzionario due fasi distinte: la rivoluzione democratica borghese e la
7
Ibid., 415.
8
Ibid., 415.
9
Ibid., p.416, (Il corsivo è mio).
conseguente rivoluzione socialista. Secondo Foa tale distinzione avrebbe portato i
partiti di sinistra a limitare le proprie possibilità propositive, da qui deriverebbe
l’insistenza con cui essi sostengono l’industria di Stato. In questo modo non si è
affrontato direttamente il capitalismo, le sue distorsioni.
L’intervento di Foa è chiaramente rivolto contro la strategia riformista proposta dal
PCI. Ponendo su piani antitetici le riforme democratiche e la via al socialismo, si
azzerano palesemente le possibilità di arrivare alla società socialista attraverso la
politica di riforme suggerita dal PCI.
Tale intervento è smaccatamente contrario alla politica del PCI. La cosa sarà rilevata
da Reichlin che ribadirà in risposta, la funzionalità degli “obiettivi democratici” alla
lotta contro i monopoli.
Le lotte per la riforma agraria, le regioni, l’autogoverno, non sono il socialismo,
sostiene Reichlin, ma incidono sul sistema e portano ad un suo cambiamento.
Argomentazioni scontate, che sicuramente Foa conosceva benissimo, ma che ciò
nonostante negava. Questo, mi pare, sia un chiaro segno di sfiducia nella politica
riformista del PCI.
Quanto sostenuto da Foa ha notevoli conseguenze politiche. Viene minata alla base la
possibilità di un dialogo con forze democratiche, non socialiste.
Tutto ciò ricorda molto da vicino quanto visto nello scontro tra sinistra interna del
PCI e dirigenza, fin dal tempo del Convegno dell’Istituto Gramsci del 1962.
5.5. La legge n.853 del 6 ottobre 1971
Nel 1971 si ripete il consueto periodico rito meridionalista di finanziamento della
Cassa per il Mezzogiorno.
Le forze politiche si presentano compatte nell’affermare la centralità della questione
meridionale rispetto allo sviluppo economico e sociale del paese.
Come aveva sostenuto Compagna nel corso del dibattito sulle mozioni
meridionalistiche del 1969, tale affermazione da alcuni era fatta in modo formale una
consuetudine retorica usata all’inizio di ogni discorso riguardante l’economia italiana.
A questa consuetudine non si sottraggono neanche coloro i quali propongono misure
che come risultante danno una politica antimeridionalistica.
Il dibattito sulla legge di finanziamento della Cassa e lo spirito di tale provvedimento
sono volti a dare un significato reale a tale centralità.
La situazione generale dell’economia e della società italiana è mutata rispetto alla
precedente legge. Il Mezzogiorno è tornato a farsi sentire con toni drammatici, come
abbiamo visto, per ricordare la manifestazione del disagio meridionale e della
complessità della situazione del Sud, basta fare un breve cenno alla toponomastica
meridionale: Avola, Battipaglia e Reggio Calabria.
Altro importante fattore nuovo di questo periodo è l’istituzione delle Regioni a
statuto ordinario con la legge n.281 del 16 maggio 1970.
Dopo anni di battaglie regionalistiche, che videro il PCI in prima linea, venne
raggiunto questo obiettivo tanto atteso.
La norma in questione nasce da un progetto di legge presentato al Senato il 4 febbraio
1971 che venne esaminato dalla V Commissione permanente del Senato (Finanze e
tesoro), dove subì alcune modifiche.
Essa presenta alcune novità significative.
Innanzitutto viene soppresso il Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno le cui
attribuzioni sono trasferite al CIPE; vengono soppressi anche i piani di
coordinamento previsti dalla legge del 1965.
In questo modo si voleva realizzare un’effettiva cogestione dell’intervento
straordinario e della politica di programmazione. Il CIPE può così coordinare
l’intervento al Sud nel quadro del programma economico nazionale.
Altra novità di rilievo è costituita dai progetti speciali. Essi rappresentano un tipo di
intervento sostanzialmente nuovo, la loro natura li fa essere, per ampiezza e
complessità, differenti dai tradizionali interventi infrastrutturali.
I progetti speciali, oltre a promuovere l’industrializzazione in collegamento con la
politica degli incentivi, possono essere indirizzati a promuovere lo sviluppo
economico-sociale in senso lato (salvaguardia dell’ambiente, valorizzare delle
risorse, promozione delle condizioni sociali, ecc.). Sono articolati su base regionale,
interregionale e intersettoriale.
L’iter per la nascita e l’operatività dei progetti speciali era alquanto complesso. Essi
venivano formulati dal Ministero per gli interventi straordinari del Mezzogiorno che
li sottoponeva al parere del CIPE il quale deliberava su di questi in conformità al
programma.
Il CIPE a questo punto consultava il Comitato rappresentativo delle Regioni
Meridionali, nuovo organismo introdotto dalla legge, composto dai presidenti delle
Regioni meridionali avente esclusivamente il potere di formulare pareri o proposte al
CIPE. A questo punto il CIPE fissava i criteri per la loro elaborazione tecnica da
parte della Cassa.
La realizzazione dei Progetti Speciali era affidata dunque alla Cassa per il
Mezzogiorno.
Altra rilevante novità, legata ad anni di tentativi per introdurla specialmente ad opera
di Antonio Giolitti, è l’autorizzazione che, in determinate condizioni, le imprese
devono chiedere per la creazione di nuovi impianti nel Sud.
Sottoposte a questo vincolo erano società il cui capitale non fosse inferiore ai 5
miliardi di lire, o imprese di qualsiasi dimensione che volessero realizzare progetti di
investimento superiori ai 7 miliardi. La società dovevano comunicare al Ministero del
Bilancio e della programmazione economica i propri programmi di investimento, il
CIPE avrebbe valutato la rispondenza di tali piani agli indirizzi della
programmazione economica.
In caso di mancata comunicazione al Ministero o nonostante il parere negativo del
CIPE, le imprese che effettuavano investimenti dovevano obbligatoriamente versare
all’erario il 25% dell’ammontare degli investimenti realizzati.
Il CIPE, come possiamo notare ha un potere vincolante molto relativo, le imprese
hanno così possibilità di agire con elevati margini di libertà.
In questo modo si volle formalizzare la contrattazione programmata, anche se la
debolezza del tessuto imprenditoriale e l’allontanarsi dell’ipotesi di uno sviluppo
autopropulsivo del Mezzogiorno, finì con dare sempre maggior peso ai grandi gruppi
industriali. La debolezza degli strumenti scelti dallo Stato: manovra dei contributi e
degli incentivi finanziari, rendeva impossibile una politica di reale programmazione.
Una nota critica è mossa da Alfredo Del Monte e Adriano Giannola alla modalità di
coinvolgimento delle Regioni meridionali nella politica per il Mezzogiorno.
Con il Comitato dei presidenti delle regioni meridionali, per la prima volta viene
riconosciuto un ruolo alle amministrazioni locali. Ma il ruolo, visti gli scarsi poteri
del Comitato, è quasi nullo.
La concezione verticistica della gestione dell’intervento straordinario è rafforzata
dall’imperfetto passaggio di competenze dalla Cassa alle Regioni.
Vi sono delle norme transitorie nella legge 853 che demandano alla Cassa il
completamento dei “programmi già approvati”, questo contribuì a ritardare il
passaggio delle competenze.
Il ruolo della Cassa, in definitiva, esce rafforzato dalla legge e dalla sua pratica
applicazione.
5.5.1. IL DIBATTITO
Nella V Commissione il relatore della maggioranza fu il senatore Michele Cifarelli;
per la minoranza comunista il senatore Gerardo Chiaromonte e il senatore Francesco
Soliano.
Cifarelli riconosce l’incoerenza esistente nei provvedimenti legislativi che da un lato
operano a favore del Mezzogiorno, cercando di creare la convenienza economica in
grado d’attrarre in quelle regioni gli investimenti, e dall’altro favoriscono le zone più
sviluppate e meno bisognose, annullando così gli effetti della politica
meridionalistica.
Occorre, sostiene il relatore della maggioranza, che leggi meridionalistiche si
adeguino alle trasformazioni avvenute in ambito politico, sociale ed economico in
Italia e all’estero.
Per indicare quale nuovo assetto dovrebbero avere i provvedimenti per il
Mezzogiorno, Cifarelli rivolge lo sguardo alle istituzioni della CEE.
Egli sostiene che:
“La concezione unitaria del Mezzogiorno come “macroregione” deve essere salvaguardata perché soltanto essa
consente di imporre alla politica economica nazionale ed a quella europea delle scelte, che non potrebbero essere certo
fatte in relazione alle singole Regioni di cui il Mezzogiorno si compone”.
10
Tenere costantemente fermo il concetto del Mezzogiorno come macroregione è
indispensabile per evidenziare il peso e il significato che esso ha nell’economia
italiana. Il Mezzogiorno non è un’enclave che pesa relativamente sull’economia, è
invece una zona la cui arretratezza determina profondamente l’essere dell’economia
italiana nel suo complesso.
Solo impostando il problema in questi termini sarà possibile ottenere dalla CEE una
“politica del territorio” adeguata ai problemi del Mezzogiorno.
Tale impostazione è fondamentale anche a livello nazionale. La “macroregione”
Mezzogiorno ha un peso notevole di fronte alle singole “aree depresse” delle altre
regioni. Il peso è il segno delle reali priorità del paese.
L’Italia, sostiene Cifarelli, è l’ottava potenza industriale del mondo, ma da tale
“potenza” è escluso il Mezzogiorno.
“Il processo di sviluppo del Mezzogiorno è stato fino ad oggi sostanzialmente un sottoprodotto di scelte
cosiddette “nazionali”, che rispondevano in realtà alla logica propria degli interessi settoriali e territoriali delle zone più
avanzate del paese”.
11
Le direttrici della futura politica economica del paese devono puntare dunque
all’integrazione del Mezzogiorno nell’Italia e nell’Europa.
I relatori minoranza Chiaromonte e Soliano nella loro relazione affrontano subito il
tema della crisi della società italiana.
10
M.CIFARELLI, Atti Parlamentari, Senato della Repubblica, V Legislatura, Documenti- Disegni di legge e Relazioni,
ora in P.BINI, Il Mezzogiorno nel Parlamento repubblicano, vol.II, op.cit., p.349.
11
Ibid., p.352.
Sostengono che una nuova politica per il Mezzogiorno potrà dare le prime risposte
all’emergenza in corso, potrà bloccare l’esodo delle popolazioni meridionali e
impostare una nuova politica economica contraria al processo di sviluppo finora
avutosi.
Contrariamente a quanto accaduto nel 1965, nella discussione della legge precedente,
il gruppo comunista spinge per l’approvazione a tempi stretti della nuova norma.
La situazione del 1971 ha un punto in comune con quella del 1965, non si conosce
ancora, perché non pronto, il documento di programmazione economica di cui la
legge meridionalistica dovrebbe essere un’articolazione. Il PCI nel ‘65 chiese, in
rispetto di una consequenzialità logica, la proroga temporanea della Cassa per il
Mezzogiorno in attesa di un testo definitivo del programma economico. Nel corso di
questa discussione, invece, si chiede subito una nuova legge e questo a causa
dell’emergenza in cui il Mezzogiorno si trova.
I due relatori per illustrare la tragicità del momento e la necessità dell’intervento
immediato, citano le parole “non sospette” di un’illustre meridionalista: Pasquale
Saraceno.
Così diceva il professor Saraceno alle “Giornate del Mezzogiorno”, tenutesi a Bari il
12 settembre 1970:
“Gli squilibri conseguenti ad una insufficienza politica meridionalistica possono manifestarsi di natura tale da
non poter essere corretti indipendentemente dal maggior costo che si è disposti a sopportare”.
12
Il Mezzogiorno si trova dunque davanti ad un “punto di non ritorno”.
L’empasse di fronte a cui il PCI si troverebbe rispetto alle posizioni del 1965 viene
superata affermando che:
“[...] siamo dell’avviso che il Parlamento debba lavorare, con questa legge, per anticipare, in modo preciso e
netto, questioni che possono essere utili, e che anzi possono determinare fin da questo momento il discorso generale
sulla programmazione economica. Noi crediamo, anzi, che la discussione su questa legge possa servire a fare uscire il
discorso sulla programmazione dalla astrattezza e dalla fumosità”.
13
I comunisti ribadiscono la richiesta di una programmazione democratica che deve
portare ad un nuovo modello di sviluppo. Questa deve produrre riforme che
gradualmente modifichino l’attuale meccanismo di accumulazione del capitale e che
limitino dunque “il potere delle grandi concentrazioni industriali e finanziarie, private
ma anche pubbliche”, per fare spazio a “ceti imprenditoriali e capitalistici non
monopolistici”, deve garantire “l’iniziativa privata e il suo dispiegarsi con l’unica
limitazione, stabilita dalla costituzione, dell’interesse pubblico”.
14
Fa sempre un certo effetto trovare nelle affermazioni di esponenti comunisti la difesa
dell’iniziativa privata. Il rispetto della Costituzione resta basilare per il PCI che,
12
G.CHIAROMONTE, F.SOLIANO, Atti Parlamentari, Senato della Repubblica, V Legislatura, Documenti- Disegni di
legge e Relazioni, ora in P.BINI, Il Mezzogiorno nel Parlamento repubblicano, vol.II, op.cit., p.364.
13
Ibid., p.382.
14
Ibid., p.369.
evidentemente, non vede rispettata per quanto concerne la limitazione all’iniziativa
privata costituita dall’interesse pubblico, dai gruppi privati monopolistici.
Bisogna rimarcare che viene ribadito il carattere gradualista delle riforme, cosa
ancora più significativa in un periodo caratterizzato da un fiorire di posizioni
estremiste nella società e dunque dalla presenza di pressioni in tale senso sul PCI.
Chiaromonte e Soliano reiterano la richiesta, oramai da tempo fatta dal PCI, dello
“smantellamento e anche della mentalità dell’intervento straordinario”.
15
La richiesta di porre fine all’esperienza della Cassa per il Mezzogiorno, acquista un
nuovo significato con l’istituzione delle regioni a statuto ordinario.
Le competenze della Cassa, infatti, secondo i relatori comunisti, dovrebbero passare
interamente alle Regioni, come stabilito dalla Costituzione. Inoltre in questo modo le
Regioni ma anche le Province e i Comuni potrebbero essere chiamati a partecipare in
pieno all’elaborazione e all’esecuzione della politica di programmazione.
Lo smantellamento degli organi dell’intervento straordinario non porta
necessariamente alla perdita del patrimonio delle esperienze tecniche e
amministrative che la Cassa possiede. Il gruppo comunista propone l’istituzione
dell’ISVEM (Istituto per lo sviluppo economico del Mezzogiorno), un ente di diritto
pubblico con personalità giuridica, che opererebbe su richiesta di regioni ed Enti della
programmazione per progetti regionali o interregionali, per la progettazione ed
esecuzione di tali progetti. La differenza sostanziale con la Cassa per il Mezzogiorno
consisterebbe nel fatto che l’ISVEM non avrebbe il potere di programmazione.
Con il passaggio delle prerogative spettanti alle regioni diverrebbero pletorici anche i
Consorzi per le aree ed i nuclei industriali. Lo stesso si può dire del Ministero del
Mezzogiorno da quando al Ministero del Bilancio è stata attribuita la responsabilità
della programmazione economica.
Una nota critica emerge dalla relazione in merito alle prerogative assegnate alla
Commissione delle regioni per il Mezzogiorno. Il disegno di legge esaminato in
commissione, prevede che essa abbia solo il potere consultivo in merito alle proposte
sottoposte al CIPE.
La Commissione delle Regioni, dovrebbe avere, invece, potere di proposta e di
controllo. Dovrebbe conoscere le previsioni di spesa sia delle amministrazioni dello
Stato per le regioni meridionali e sia delle singole regioni del Mezzogiorno, per
poterle raccordare facendo in merito proposte sia al Parlamento che ai Consigli
regionali.
Chiaromonte e Soliano contestano chi crede nell’ineluttabilità dell’intervento
straordinario e criticano aspramente quelli che vedono solo in una fuga in avanti,
ricorrendo cioè al momento rivoluzionario, la possibilità di mutare la situazione.
Le possibilità di riforme in senso democratico esistono, ci sono fornite dai nuovi
fattoti presenti nella situazione italiana: le lotte operaie e l’istituzione delle Regioni a
statuto ordinario.
Viene riproposto il raccordo tra le lotte operaie, concentrate soprattutto nel Nord
industriale, e Mezzogiorno.
15
Ibid., p.362.
Le lotte operaie hanno rotto i vecchi equilibri, è cresciuta nelle masse lavoratrici del
Nord e del Sud la consapevolezza di inquadrare in una politica economica generale di
programmazione nazionale e meridionalistica le stessa battaglia per le riforme.
“Dal movimento operaio viene oggi una spinta oggettiva ad affrontare i grandi problemi, le strozzature vere
dello sviluppo del sistema economico italiano. E’ una forza che spinge per la riforma agraria, per lo spostamento verso
il sud dell’arte di industrializzazione, per bloccare l’emigrazione dalle campagne e dal Mezzogiorno [...]. Dai successi e
dalla forza della classe operaia dipendono oggi, più di ieri, in misura decisiva, le possibilità di successo e di avanzata
del movimento meridionalistico”.
16
Il raccordo tra le lotte operaie e le condizioni del Mezzogiorno pare artificioso,
un’ipotesi ottimistica. Sembra quasi che la soluzione della questione meridionale
debba giungere dall’ “esterno”, dal nord verso il sud. Una visione, mi pare,
“vecchia”, legata all’equazione “nord industrializzato” uguale “progresso”.
Probabilmente i successi conseguiti dal movimento operaio spingevano all’ottimismo
il PCI, fornendo una insperata via per le riforme rinvigorendo il peso delle lotte di
massa. Questo, a mio avviso, non è sufficiente per mascherare l’assenza della
conoscenza e dello studio della reale situazione sociale ed economica del
Mezzogiorno da parte del PCI.
Chiaromonte e Soliano rilevano, giustamente, che il peso della Cassa viene
accresciuto dal disegno di legge. Scarse sono le competenze passate dalla Cassa alle
Regioni. Alla Cassa resta la “polpa” dell’intervento : “I cosiddetti progetti speciali di
intervento e la manovra degli incentivi per l’industrializzazione”.
17
I “progetti speciali” novità della legge, sono guardati con occhio critico dai relatori
comunisti per il modo in cui sono stati concepiti. Essi sarebbero stralci del
programma al di fuori del quadro generale e al di fuori di ogni decisione in sede
politica.
Essi per non essere lesivi delle prerogative delle Regioni e corpo estraneo alla
programmazione, devono essere collocati in una politica che presenti precise
indicazioni sulla programmazione per tutto il paese e per il Mezzogiorno, con stime
precise dei bisogni e delle possibilità di sviluppo del Mezzogiorno inteso come
“sottosistema” nell’ambito del sistema economico nazionale.
Le trasformazioni suggerite per l’economia meridionale non costituiscono una novità,
viene infatti ribadita la richiesta della riforma agraria.
Si chiede poi, un processo di industrializzazione che prevede la creazione nel
Mezzogiorno della diversificazione produttiva, cosa di cui il sistema industriale
italiano necessita.
Per realizzare quanto proposto, essenziale sarà il ruolo dell’industria pubblica ma
anche il controllo pubblico degli investimenti.
La relazione comunista chiede che vengano favorite soprattutto le piccole e medie
imprese, in modo da contrastare i monopoli e da creare maggiore occupazione.
16
Ibid., p.367.
17
Ibid., p.385.
Ala discussione, spostatasi alla Camera dei Deputati, interviene anche Alfredo
Reichlin, secondo il quale la legge riproporrebbe immutata la politica degli incentivi,
senza prevedere meccanismi selettivi, con modi incoerenti con una nuova linea di
sviluppo e di programmazione.
I progetti speciali ricevono una valutazione positiva.
“Adesso si fa un passo avanti, lo riconosciamo: si comincia a entrare nel merito, a indicare certi contenuti.
Questo è il vantaggio dei progetti speciali, che non sono più esercitazioni econometriche su grandezze astratte, ma
scelta di contenuti e quindi scelte politiche”.
18
Così. conclude Reichlin:
“[...] bisogna arrivare a correggere questa legge. Ecco il senso delle nostre proposte[...]. Pochi punti
fondamentali come già detto, nelle direzioni che ho indicato [...]”.
19
I punti indicati da Reichlin sono stati esposti ampiamente nella relazione di
Chiaromonte e Soliano, rimarchevole mi pare l’invito a realizzare modifiche alla
legge solo in pochi punti fondamentali. L’invito pare molto conciliante e frutto d’una
ricerca di dialogo. Che i toni siano molto lontani dall’asprezza polemica lo dimostra
anche la valutazione fatta dei progetti speciali.
Naturalmente il dibattito mostra ampiamente le differenze tra le posizioni comuniste
e quelle dei gruppi di governo, la soppressione degli organi dell’intervento
straordinario è contrastata in modo deciso.
Bisogna comunque rilevare che un atteggiamento critico nei confronti della politica
straordinaria è diffuso tra le file dei partiti governativi, tanto da poter trovare analogie
tra le posizioni di queste e quelle comuniste.
Per il gruppo socialista intervenne Manlio Rossi Doria. Egli difende l’istituzione
della Cassa per il Mezzogiorno, ma difende la logica delle sue diverse frasi, quella
“infrastrutturale” seguita da quella volta direttamente alla industrializzazione.
L’agricoltura meridionale, secondo Rossi Doria, ha raggiunto buoni risultati grazie
alla politica degli ultimi anni.
Non altrettanto positivo è il bilancio per quanto concerne l’industrializzazione.
Rossi Doria individua negli anni del miracolo economico il periodo in cui fu
commesso il “grosso errore”. Non si riuscì ad unificare industrialmente il paese, cosa
che era possibile fare in quegli anni.
In questo senso è vero ciò che si afferma da più parti: gli obiettivi delle politica
meridionalista saranno raggiunti solo cambiando il tipo di sviluppo economico del
Paese.
Ciò che occorre fare è rapportare il processo economico non più all’accumulazione
ma ad un “sistema di finalità di cui il Mezzogiorno rappresenterebbe una delle
specificazioni più rilevanti”.
20
18
A.REICHLIN, Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, Discussioni, pp.30.779-30.785, ora in P.BINI, Il Mezzogiorno
nel Parlamento repubblicano, vol.II, op.cit., p.434.
19
Ibid., p.439.
Pare che il mondo imprenditoriale si sia convinto “della convenienza economica e
della necessità sociale di avvicinare il capitale al lavoro e non viceversa”, sostiene
Rossi Doria citando un articolo del “Sole 24 Ore”.
Ma affinché ciò sia realizzato occorre che tale indirizzo sia consolidato, guidato,
finalizzato da una “inflessibile politica economica di piano”.
21
Anche in esponenti democristiani possiamo trovare affermazioni simili a quelle fatte
dagli esponenti comunisti.
Ad esempio nell’intervento del senatore Morlino è utile sottolineare questa
affermazione:
“E’ proprio il Mezzogiorno il volano mediante il quale si può uscire dalle crisi produttiva del nostro paese”.
22
Morlino esprime posizioni non differenti da quelle dei comunisti su questo punto.
Invita alla visione unitaria della politica economica nazionale e vede nei
provvedimenti per il Mezzogiorno il punto di partenza, lo stimolo per una ripresa
della politica nazionale.
Ripresa che egli vede legata ad una iniziativa politica incisiva.
Contesta quanti vedono l’alternativa tra riforme e congiuntura. L’emergenza
economica non può servire da alibi per allontanare la realizzazione delle riforme.
La politica riformatrice, dunque, trova molti sostenitori fuori e dentro il governo.
Vi è la consapevolezza della necessità di un intervento, cosa comune alle varie forze
politiche.
Si parla inoltre in modo diffuso di “nuovo modello di sviluppo”, senza che si
chiarisca a fondo cosa si intenda e come occorra agire per impostarlo.
Come abbiamo visto le differenze di fondo tra l’opposizione comunista e le posizioni
della maggioranza stanno soprattutto negli strumenti proposti per l’attuazione della
politica meridionalistica.
Il PCI propone la fine della Cassa per il Mezzogiorno e la fine dell’intervento
straordinario, le forze di governo ritengono invece valide per il futuro sia la Cassa che
la politica degli incentivi.
20
M.ROSSI DORIA, Atti Parlamentari, Senato della Repubblica, Discussioni, pp.25.713-25.721, ora in P.BINI, Il
Mezzogiorno nel Parlamento repubblicano, vol.II, op.cit., p.413.
21
Ibid., p.413.
22
T.MORLINO, Atti Parlamentari, Senato della Repubblica, Discussioni,pp.25.815-25.825, ora in P.BINI, Il
Mezzogiorno nel Parlamento repubblicano, vol.II, op.cit., p.423.