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Guiding Vietnam beyond the glass ceiling: opzioni di politica industriale nell'era dell'integrazione internazionale.

Nei primi anni ottanta, il Vietnam avviava, allo slogan Doi Moi, un percorso di riforme economiche che nell'arco di un trentennio hanno accompagnato uno dei Paesi più poveri al mondo a presentarsi come la nuova "tigre" asiatica. L'ottima performance di crescita economica, nonostante la crisi finanziaria del biennio '97-'98 e quella più recente del 2008, hanno generato un clima di grande euforia nei confronti di un'economia sempre più capace di attrarre investimenti diretti esteri (IDE), anche in seguito al suo accesso quale 150esimo membro del WTO, perfezionato nel 2007. Il fenomeno di Middle-Income Trap, cosi come descritto da Keinichi Ohno in riferimento alle difficoltà incontrate dagli altri membri dell'ASEAN nel raggiungere i livelli di reddito e le capacità tecnologiche dei Paesi di maggiore successo dell'area, ha aperto intorno al Vietnam un acceso dibattito circa la sostenibilità e la desiderabilità di una strategia di sviluppo industriale fortemente basata sui capitali stranieri e pertanto vulnerabile agli shock finanziari esterni, oltre che vincolata alle strategie industriali e tecnologiche degli investitori esteri. Gli accordi commerciali stipulati a livello internazionale e regionale hanno senz'altro consentito al Vietnam di beneficiare del generale dinamismo regionale e di una sempre maggiore integrazione nell'economia internazionale, in cambio della messa al bando di quegli strumenti di politica industriale che hanno fatto la fortuna dei Paesi di precedente industrializzazione dell'area. Lo studio, ispirandosi ad un approccio IPE (International Political Economy), ripercorre le quattro fasi del cosiddetto "miracolo asiatico" attraverso le lenti storico-istituzionale, economico-geografica e geopolitica, per poi operare un'analisi della traiettoria di sviluppo industriale e tecnologica sulla quale il Vietnam sembra essere attualmente posizionato, prendendo come l'industria automotive come caso di studio. In conclusione, vengono alcuni discussi alcuni spunti circa le opzioni per una possibile politica industriale che tenga conto dei vincoli e delle opportunità offerte dalla congiuntura corrente.

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Introduzione A più di dieci anni dalla crisi finanziaria in Asia ('97-'98) e ancora alle prese con i risvolti sempre più drammatici dell'ultimo shock economico, il dibattito sulla necessità -o meno- di regolazione dell'economia mondiale nelle sue componenti nazionali e sovranazionali dimostra, sostanzialmente, un ritardo sorprendente. L'impressione che si riceve, soprattutto nell'ascoltare il discorso pubblico portato avanti dai mezzi di informazione di massa e dal dibattito politico, è quella di una profonda difficoltà nel superare lo steccato ideologico che più di trent'anni di politiche neoliberiste hanno innalzato non soltanto nella sfera del policy making ma più profondamente nel senso comune che trasversalmente attraversa classi, ceti sociali e formazioni identitarie (religiose, culturali, nazionali o sub-nazionali che siano) differenti. Tutto questo, ironicamente -ma non troppo-, in un'epoca in cui molti osservatori registrano, e celebrano, l'inesorabile tramonto delle ideologie. La realtà sociale diventa, sotto il profilo della sua rappresentazione scientifica così come della pratica di governo (a tutti i livelli), sempre più teatro di dinamiche dove la mano del legislatore, quasi come persuasa della propria invisibilità, non solo rinuncia ma ormai si scopre incapace di agire. Il Sud del mondo, ovvero quella entità in parte metageografica che raggruppa tutti i Paesi cosiddetti in Via di Sviluppo (PVS), è l'arena dove questa tendenza si mostra in tutta la sua crudezza. Costretti, attraverso il ricatto o una più premurosa opera di persuasione, a cavallo tra gli anni settanta e ottanta ad abbracciare i dogmi di quello che oggi è comunemente 4

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