Introduzione A più di dieci anni dalla crisi finanziaria in Asia ('97-'98) e ancora
alle prese con i risvolti sempre più drammatici dell'ultimo shock economico,
il dibattito sulla necessità -o meno- di regolazione dell'economia mondiale
nelle sue componenti nazionali e sovranazionali dimostra, sostanzialmente,
un ritardo sorprendente. L'impressione che si riceve, soprattutto
nell'ascoltare il discorso pubblico portato avanti dai mezzi di informazione di
massa e dal dibattito politico, è quella di una profonda difficoltà nel superare
lo steccato ideologico che più di trent'anni di politiche neoliberiste hanno
innalzato non soltanto nella sfera del policy making ma più profondamente
nel senso comune che trasversalmente attraversa classi, ceti sociali e
formazioni identitarie (religiose, culturali, nazionali o sub-nazionali che
siano) differenti. Tutto questo, ironicamente -ma non troppo-, in un'epoca in
cui molti osservatori registrano, e celebrano, l'inesorabile tramonto delle
ideologie.
La realtà sociale diventa, sotto il profilo della sua rappresentazione
scientifica così come della pratica di governo (a tutti i livelli), sempre più
teatro di dinamiche dove la mano del legislatore, quasi come persuasa della
propria invisibilità, non solo rinuncia ma ormai si scopre incapace di agire.
Il Sud del mondo, ovvero quella entità in parte metageografica che
raggruppa tutti i Paesi cosiddetti in Via di Sviluppo (PVS), è l'arena dove questa tendenza si mostra in tutta la sua crudezza. Costretti, attraverso il
ricatto o una più premurosa opera di persuasione, a cavallo tra gli anni
settanta e ottanta ad abbracciare i dogmi di quello che oggi è comunemente
4
denominato Washington Consensus , nella forma dei famigerati Piani di
Aggiustamento Strutturale (P.A.S.), i Paesi dell'allora Terzo Mondo hanno
progressivamente rinunciato a tutti quegli strumenti che hanno caratterizzato
le precedenti esperienze storiche di industrializzazione, nella promessa che le 'naturali' forze di mercato avrebbero fatto meglio di quanto in precedenza
la mano visibile dei governi aveva potuto. La convergenza del tenore di vita
di questi Paesi verso i livelli di quelli più ricchi sarebbe avvenuta
automaticamente grazie agli effetti di leggi economiche intese come
immanenti e immutabili. Poco importa se sul piano empirico questi modelli
denunciassero un eccessivo riduzionismo ed una scarsa aderenza alla realtà.
D'altronde, se è vero che – come recita il famoso motto di Von
Clausewitz - non esistono teorie che non siano per qualcosa o per qualcuno,
il fallimento dell'applicazione di tali precetti e l'insistenza con la quale
vengono costantemente riproposti, introduce il sospetto che i veri beneficiari non siano gli effettivi destinatari di questi pacchetti di misure ma piuttosto
qualche altro soggetto interessato. Che tali affermazioni possano risultare
eccessivamente dietrologiche o meno, in ogni caso è convinzione di chi
scrive che il dibattito scientifico, almeno nel campo delle scienze sociali (e
sarebbe banale rammentare che l'economia è una scienza sociale), necessiti
quantomeno di una maggiore umiltà nelle sue pretese euristiche, accettando
l'inestricabilità del suo radicamento nella cornice storica – con i suoi
antagonismi ed interessi contrapposti - nel quale si dipana, l'irriducibile
riduzionismo proprio di ogni formulazione teorica, ed abbracci un approccio
maggiormente costruttivista, in accordo con la natura processuale dei fenomeni, in un contesto di crescente complessità di un mondo che tenta di
descrivere e, dettaglio non trascurabile, di trasformare.
Alla luce di queste premesse, la scelta di trattare delle difficili
opzioni difronte alle quali oggi si trova il Vietnam non è casuale. La positiva
performance di questo grande Paese del Sudest Asiatico negli ultimi
5
trent'anni e gli importanti obiettivi che la sua classe dirigente si pone lo
rendono un laboratorio di politica industriale molto interessante se si
considera la particolare congiuntura storica in cui gli eventi si svolgono.
Sebbene, infatti, il Vietnam abbia beneficiato del dinamismo del sistema
regionale nel quale a partire dagli anni ottanta si è gradualmente integrato,
attingendo in buona parte dalle esperienze di maggior successo dell'area, non
disporrà degli stessi strumenti utilizzati dagli altri Paesi dell'area di
precedente industrializzazione.
Le nuove regole dell'economia globale, nel quale il Vietnam si
accinge ad entrare in virtù della domanda di ammissione al WTO presentata
nel 1995 e definitivamente accolta nel 2007, escludono il ricorso alle
pratiche aggressive e protezionistiche che hanno fatto la fortuna dei Paesi del
Nordest Asiatico e, più generalmente, di pressoché tutti i Paesi di
industrializzazione tardiva del XIX e XX secolo. Che le mutate condizioni dell'economia globale costituiscano anche un challenge e n o n s o l o u n
ostacolo alle ambizioni del Vietnam, come a quelle degli altri Paesi ancora
alla ricerca del Graal dello Sviluppo, è una questione aperta, ed è anche la
questione centrale di questa tesi. La storia ci dirà, insomma, se le nuove
regole (o meglio, se si vuole, la loro latitanza) saranno il quadro entro cui gli
obiettivi dei latecomers del XXI secolo potranno realizzarsi o, per usare una
celebre locuzione dell'economista tedesco Friederich List, ripresa con
successo dall'autore coreano Hà-Joon Chang, l'ennesimo “calcio alla scala”
dato da chi è arrivato prima alla vetta e vuole difendere i propri privilegi a
tutti i costi.
Il primo capitolo presenterà una ricostruzione del cosiddetto
'miracolo' asiatico, mirata ad una comprensione integrata e critica di un
processo storico spesso eccessivamente esaltato nella sua presunta unitarietà.
Ciò avverrà essenzialmente attraverso l'analisi di quelle che in letteratura
sono spesso indicate, insieme o separatamente, le sue cause: divisione
6
regionale del lavoro, Stato Sviluppista e determinanti storiche. La tesi è che
ciascuno di questi aspetti abbia un valore esplicativo determinante in
relazione al fenomeno dell'industrializzazione in est Asia nella seconda metà
del XX secolo.
Il secondo capitolo tratterà il tema della middle-income trap mediante
un'osservazione empirica delle traiettorie di sviluppo dei Paesi appartenenti
alla terza ondata di industrializzazione, Malesia e Thailandia su tutti, ed una
disamina teorica riguardo la diffusione tecnologica. Alla versione
neoliberale, la quale sottintendendo un'idea di tecnologia a 'scatola nera', non
ne problematizza eccessivamente i meccanismi di trasferimento, si
contrappongono i contributi della scuola del capacity development approach
che, al contrario, considera la diffusione di tecnologia e conoscenze un
processo attivo di apprendimento da parte di latecomers in possesso di un
vantaggio connaturato alla propria condizione di arretratezza (il Gerschenkroniano latecomer effect ), rovesciando la tradizionale direzionalità
sviluppato-sottosviluppato e rivalutando pertanto il potenziale apporto di una
politica industriale e, più in generale, della componente istituzionale a
sostegno del processo di apprendimento.
Il terzo capitolo si interrogherà circa la possibilità che il Vietnam
riesca ad evitare lo stesso cammino che sembrano aver condotto gli altri
Paesi ASEAN (eccetto Singapore) nella trappola di medio livello,
affrontando il case study del settore dell'industria automobilistica vietnamita.
Il rischio è che il modello di divisione regionale del lavoro, ove sia
abbandonato alle mere dinamiche legate ai vantaggi comparati attraverso l'applicazione indiscriminata delle misure di liberalizzazione suggerite dagli
Stati Uniti e dalle Organizzazioni internazionali ad essi connesse, conduca,
piuttosto che ad un processo di industrializzazione diffuso e scandito
temporalmente dalle fasi del ciclo di vita del prodotto (come vorrebbero gli
osservatori di scuola neoclassica che si rifanno alle originali tesi di
7
Akamatsu), verso una rigida gerarchia centro-semiperiferia-periferia nella
quale i Paesi di ultima industrializzazione rivelano una dipendenza
tecnologica strutturale nei confronti di quelli di precedente sviluppo. La
presenza, tuttavia, di effetti di spillover tecnologico in determinati settori ed
ove le imprese locali si colleghino a valle di catene del valore globali apre
alla possibilità che un ridefinito Stato Sviluppista, in una difficile armonia
con il dettato di accordi bilaterali, regionali e multilaterali sempre più
market-friendly , possa riacquistare un ruolo centrale nello sviluppo
industriale del XXI secolo.
Il quarto capitolo, infine, entra nel merito delle opzioni possibili per
una politica industriale sostenibile e consistente alle restrizioni imposte dalle
nuove normative del commercio internazionale cui il Vietnam si è
sottoposto. Piuttosto che una serie di prescrizioni dettagliata questo capitolo
vuole essere una discussione sulla nuova e fluida congiuntura entro la quale il Vietnam è chiamato ad elaborare ed implementare le proprie strategie di
sviluppo, mettendo in luce le priorità che una – a dire il vero ristretta –
letteratura sul tema riporta.
Il lavoro si conclude con osservazioni metodologiche e con riflessioni
intorno all'applicabilità dei risultati della presente ricerca ad altri contesti
(segnatamente, all'Africa Sub-sahariana).
8
Capitolo I
Il Miracolo Asiatico
1.1 Il dibattito
Lo spettacolare fenomeno di crescita economica e di
industrializzazione avvenuto in Est Asia negli ultimi decenni ha attirato
l'attenzione di numerosi osservatori dal mondo accademico, politico,
professionale e massmediatico. A partire dagli anni '60, infatti, Corea del
Sud, Taiwan, Singapore e Hong Kong, spesso denominati 'quattro tigri',
imboccarono un sentiero caratterizzato da alti tassi di crescita e
continuo avanzamento tecnologico, seguiti a loro volta da Malesia,
Thailandia e Indonesia (Figura 1.1).
9
1965
1975
1985
1995
2005
2007
0
5000
10000
15000
20000
25000
30000
35000
40000
45000
50000
55000
PIL pro capite 1965-2007
Fonte: Penn World Table
Giappone
Corea del Sud
Taiwan
Hong Kong
Singapore
Malesia
Thailandia
Indonesia
Anno
PIL pro capite (PPP) a prezzi correnti
Figura 1.1
Punta di diamante dell'intera area è il Giappone, colosso
dell'economia mondiale e fonte di innovazione tecnologica e di capitali
su scala regionale e mondiale. A completare i quadro, si aggiunge la
Repubblica Popolare Cinese, Paese dalle dimensioni continentali e
dall'immenso mercato interno, attualmente alle prese con una
trasformazione spettacolare, ultima solo in ordine di tempo rispetto alle
precedenti ondate, che perdura ormai da più di trent'anni, a partire cioè
da quando le riforme di Deng Xiaoping trassero fuori il Paese da uno
stato di profonda povertà incanalandolo su un sentiero di crescita a due
cifre. Ad oggi, la Cina è la seconda economia mondiale in termini assoluti,
sebbene il reddito pro capite registri livelli ancora al di sotto degli
standard dei Paesi di maggior successo dell'area.
Se indubbia è l'eccezionalità di tale trend regionale, soprattutto
se confrontato alla performance del resto della grande famiglia dei Paesi
in Via di Sviluppo, più complessa è la questione circa le sue determinanti
e, di conseguenza, la sua eventuale valenza paradigmatica in chiave
comparata. La stessa scelta di parlare di 'miracolo' in Asia Orientale è
problematica: cosa ha di miracoloso la performance di questi Paesi? E'
corretto ricondurre esperienze nazionali a volte divergenti, collocate in
un arco temporale necessariamente lungo, in una regione tutt'altro che
omogenea dal punto di vista economico, sociale e culturale, in un unico
fenomeno storico-geografico? Dal momento che lo scopo di questo
capitolo è far luce su queste questioni, continueremo ad usare
l'espressione 'miracolo' a puro scopo discorsivo, ben consci della sua
ambiguità di fondo.
Nella vasta e variegata schiera di studi prodotta sullo sviluppo in
Asia dell'est è possibile identificare due filoni principali: un mainstream
ricalcante le tesi dell'ortodossia neoliberale, riflesso dell'establishment
10
degli ambienti governativi USA e delle organizzazioni finanziarie
internazionali da essi controllate (FMI e BM), osteggiato da un non
troppo ampio ma influente gruppo di economisti struttural-
istituzionalisti, altrimenti denominati “eterodossi” (Johnson 1982, Wade
1990, Amsden 1989 e 2001).
Mentre i primi attribuiscono al rispetto dei dettami del cosiddetto
Washington Consensus 1
la chiave del successo, i secondi sostengono al
contrario l'importanza delle politiche attive in materia economica che i
governi dell'area hanno adottato, sottolineando la specificità di un
modello di capitalismo asiatico, alternativo a quelli europeo e
americano.
Relativamente ai casi di Taiwan e Corea del Sud, infatti, gli
economisti di orientamento neoliberista (Tsiang 1984, Krueger 1985,
Little 1994) tendono a porre l'accento sul percorso di riforme intrapreso
durante gli anni '60 ed in particolare si riferiscono alle misure di
promozione delle esportazioni, al regime di alti tassi di interesse ed alla
progressiva liberalizzazione delle importazioni. Contrari ad ogni
intervento dello Stato che vada oltre alle misure di stabilizzazione
macroeconomica e di controllo, gli afferenti a questa tradizione
ritengono che debbano essere i meccanismi di mercato a determinare i
prezzi, senza alcuna distorsione da parte dell'intervento pubblico.
Critici rispetto alla neoclassica fede incondizionata nelle virtù
della mano invisibile , autori come Chalmers Johnson (1982) e Robert
Wade (1990) hanno al contrario sottolineato come il successo
economico di Giappone prima, e di Corea del Sud e Taiwan poi, siano
avvenuti in concomitanza e -verosimilmente, aggiungono- in
1
Tale locuzione, coniata da J. Williamson, è comunemente utilizzata per indicare i dettami
delle organizzazioni nate dagli accordi di Bretton Woods nei confronti dei PVS tese
all'equilibrio e la stabilità macroeconomica, la riduzione del ruolo dello Stato in materia di
regolazione ed iniziativa economica.
11
conseguenza al massiccio intervento dello Stato nell'economia, sia nella
funzione di coordinamento e supporto che di diretta iniziativa
economica. Questi studiosi vedono nel modello del developmental state
(o Stato Sviluppista) il filo rosso che lega tra loro le esperienze di
sviluppo industriale dell'area, accomunate dalla presenza di uno Stato
fortemente impegnato ed addentrato nel processo di sviluppo
economico.
Recettivo solo in parte delle critiche dal fronte eterodosso è il
celeberrimo Report della Banca Mondiale “ The East Asian Miracle:
Economic Growth and Public Policy” (1993), il quale, pur ammettendo in
parte l'importanza dell'azione governativa nell'avverarsi del 'miracolo',
non sposta l'asse della propria analisi dalla celebrazione dei meccanismi
di mercato, salutando con entusiasmo la maggiore apertura ai mercati
internazionali manifestata dai Paesi appartenenti alla 'terza ondata',
ovvero Malesia, Thailandia e Indonesia, individuati come modello
virtuoso di sviluppo industriale in un contesto di crescente integrazione
internazionale. In definitiva, non muta l'idea che l'industrializzazione dei
NICs (Newly industrializing countries) asiatici sarebbe in ogni caso stata
alimentata da un meccanismo di crescita trainato dalle esportazioni
(export-led growth ).
Tali posizioni sono state oggetto delle critiche di Rodrik (1995) il
quale, oltre a non essere persuaso dall'evidenza del nesso empirico
causale tra esportazioni e crescita economica, vede piuttosto negli alti
livelli di investimenti nazionali il fattore principale della crescita
economica in entrambi i Paesi, con i governi a giocare un ruolo di primo
piano.
Trasversale alla querelle tra neoliberali e struttural-
istituzionalisti è la lettura che fa riferimento alla divisione regionale del
12
lavoro come modello esplicativo del complessivo dinamismo dell'area
est asiatica. Enunciato per la prima volta nella originaria e suggestiva
teoria delle “oche in volo” ( Flying geese ) dell'economista giapponese
Akamatsu negli anni '30, tale modello vede nella divisione regionale del
lavoro il meccanismo insieme propulsivo e diffusivo del processo di
industrializzazione dal Paese leader (il Giappone) ai Paesi inseguitori
(Corea, Taiwan). Il modello è stato oggetto di numerose e diverse
interpretazioni, nonché di critiche, che l'hanno integrato a quadri teorici
spesso molto diversi tra loro. Mentre per i sostenitori del libero mercato,
infatti, questa teoria confermerebbe una volta per tutte la superiorità di
un modello improntato all'apertura dei mercati verso l'estero, per alcuni
sostenitori dello Stato Sviluppista rappresenterebbe l'arena in cui lo
Stato aziona le sue leve per acquisire e sviluppare tecnologia (specie
attraverso sussidi e misure di sostituzione delle importazioni) e quindi
risalire la scala del valore aggiunto più velocemente.
Infine, occorre far riferimento ad un'ultima, fondamentale,
prospettiva: il contesto storico-politico. I soli postulati neoclassici, così
come la teoria dello Stato Sviluppista e della divisione del lavoro
internazionale, non possono cogliere a pieno la specificità del caso
asiatico. Il processo di industrializzazione, infatti, sia nella sua
dimensione nazionale che in quella regionale risultano essere radicati
nello specifico percorso storico dell'intera regione. Sarebbe oltremodo
semplicistico ignorare l'importanza dei lasciti del progetto imperialista
giapponese così come le conseguenze dell'impatto della Guerra Fredda
(soprattutto della Guerra di Corea) sulle strategie e sulle traiettorie di
sviluppo dei singoli Paesi come dell'intera regione. Come nota Bruce
Cumings (1984: 3):
13
“se c'è stato un miracolo in Est Asia, questo non è avvenuto solo dal
1960; sarebbe profondamente antistorico pensarlo. Inoltre è
fuorviante valutare il modello di industrializzazione in ogni singolo
Paese: un approccio siffatto mancherebbe, a causa di un difetto di
disaggregazione, la fondamentale unità e integrità dello sforzo
regionale in questo secolo”.
Il capitolo, pertanto, proseguirà con l'analisi dei maggiori
contributi teorici riguardo quelli che sono emersi fin qui come i capisaldi
principali del 'miracolo' asiatico, ovvero: la divisione regionale del
lavoro, lo Stato Sviluppista ed il contesto storico-politico, in una chiave
integrata, nella consapevolezza che la loro distinta trattazione risponde
più ad esigenze di chiarezza espositiva che metodologiche.
1.2 Il modello di sviluppo regionale
Elaborato per la prima volta dall'economista giapponese Kaname
Akamatsu negli anni '30, il paradigma delle 'oche in volo' nasce come
teoria esplicativa del processo di industrializzazione dei Paesi asiatici
(segnatamente, del Giappone) secondo un modello di divisione
internazionale del lavoro basato sul commercio estero.
Attraverso studi statistici sull'industria tessile in Asia, Akamatsu
(1962) sco prì che il processo di industrializzazione era avvenuto in
stretta relazione con il capitalismo europeo, scandito dall'alternarsi di
fasi di eterogenizzazione ed omogenizzazione fra le strutture produttive
delle due realtà, caratterizzate da un'iniziale asimmetria tecnologica.
Nelle fasi di eterogenizzazione le strutture produttive risultano essere
complementari e dunque la loro interazione può portare benefici ad
14