Il procedimento disciplinare dei magistrati
La materia giudiziaria costituisce da tempo oggetto di vasto interesse, per il ruolo assunto dalla magistratura nel sistema istituzionale, infatti, le forme ed i modi con cui il prestigio della stessa riceve sostegno, e sanzione, in sede disciplinare, costituiscono uno dei temi caldi dell’odierno dibattito politico, uno dei punti di frizione fra mondo politico e ordine giudiziario. Obiettivo della presente trattazione sarà quello di inquadrare l’ordinamento giudiziario, tradizionalmente definito come l’insieme delle regole costitutive, che governano l’assetto ed il funzionamento dell’omonimo ordine, sotto il profilo della responsabilità disciplinare dei magistrati. La necessità di un corpo normativo separato risponde alla particolare esperienza del nostro sistema costituzionale. L’esigenza di assicurare al giudice uno status di indipendenza organizzata si impone con il sorgere e l’affermarsi del costituzionalismo liberale (fine sec. XVIII-XIX), nell’attuazione di quelle concezioni politiche poste alla base della formazione dello Stato moderno, secondo le formulazioni teoriche della separazione dei poteri e dello Stato di diritto. Ciò ha comportato la separazione dell’apparato giudiziario da quello amministrativo prima unificati anche nella concezione teorica, non solo in base all’erronea opinione di un’affinità di funzioni, in quanto entrambi opererebbero per attuare la volontà della legge, senza una sostanziale diversità di scopi, ma anche per l’identica configurazione burocratica dei due apparati, composti da funzionari di carriera gerarchicamente strutturati in una piramide di uffici. La legge sull’ordinamento giudiziario determina il grado di raccordo tra la condizione professionale dei magistrati, soggetti a quei provvedimenti di natura amministrativa, che ne determinano stato giuridico e organizzazione, e l’indipendenza della funzione, la quale impone una differenziazione complessiva, poiché storicamente è stata proprio la subordinazione dei giudici ai poteri dell’esecutivo a costituire vincolo ai diritti di libertà. La storia dell’ordinamento giudiziario consiste appunto nelle alterne vicende di questa separazione di apparati, attraverso il rapido succedersi di normative, espressione delle vicende politiche interne. La stessa Costituzione sembra aver concluso questo percorso storico, realizzando una compiuta distinzione di funzioni e di organi; il problema attuale è di radicare tali valori di libertà proprio nello svolgersi delle attività giudiziarie, come riflesso della coscienza sociale e delle forme politiche.
La necessità di provvedere ad una riforma radicale dell’ordinamento giudiziario, così come si era andato stratificando nel tempo a seguito delle numerose modifiche apportate al regio decreto n° 12 del 1941, è stata avvertita dal governo di centro destra, con l’allora ministro Castelli, il cui fine era quello di “modernizzare la magistratura”. Dopo varie discussioni le Camere hanno approvato un testo di legge delega, non sottoscritto e rinviato al Legislativo dal Presidente della Repubblica, il quale ha fatto uso di un potere rarissime volte utilizzato dall’inizio della storia repubblicana. Il Capo dello Stato sottolineava diversi punti di incostituzionalità, di cui uno relativo all’intelaiatura generale del testo che indeboliva i poteri riconosciuti dalla Costituzione al Consiglio Superiore della Magistratura, attribuendoli ad altri e diversi organismi. Il Parlamento provvedendo a rimediare alle osservazioni di cui sopra ha approvato la legge delega n° 150 del 2005. L’attuazione della riforma necessitava, tuttavia, dell’emanazione di decreti legislativi per regolamentare singoli settori, è il caso del d.lgs. n° 109 del 2006 (poi modificato in più punti dall’articolo 1 della legge n° 269 del 2006) in ordine alla responsabilità disciplinare dei magistrati. Il fulcro del nuovo sistema consiste nell’introduzio- ne del principio di tipicità delle fattispecie incriminatorie, suddivise in tre distinte categorie, quelle inerenti all’esercizio della funzione, quelle ad esso estranee, ed infine le condotte illecite conseguenti al reato, e addebitate sulla base di accertate violazioni dei cosiddetti sette doveri fondamentali (imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo, equilibrio, rispetto della dignità della persona) dei magistrati.
Nelle polemiche contro il governo autonomo dei magistrati ordinari è stata ampiamente utilizzata l’accusa secondo cui la Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore gestirebbe una giustizia non soltanto "domestica", quanto piuttosto "addomesticata", di scandalosa mitezza. L’accusa non sembra trovi rispondenza nella realtà in quanto la sezione disciplinare del CSM dimostra una discreta severità, almeno in paragone agli altri organi disciplinari del pubblico impiego.
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Informazioni tesi
Autore: | Daiana Landolfa |
Tipo: | Laurea II ciclo (magistrale o specialistica) |
Anno: | 2007-08 |
Università: | Università degli Studi Roma Tre |
Facoltà: | Giurisprudenza |
Corso: | Giurisprudenza |
Relatore: | Antonio Carratta |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 203 |
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