2
alterne vicende di questa separazione di apparati, attraverso il rapido succedersi
di normative, espressione delle vicende politiche interne. La stessa Costituzione
sembra aver concluso questo percorso storico, realizzando una compiuta
distinzione di funzioni e di organi; il problema attuale è di radicare tali valori di
libertà proprio nello svolgersi delle attività giudiziarie, come riflesso della
coscienza sociale e delle forme politiche.
La necessità di provvedere ad una riforma radicale dell’ordinamento giudiziario,
così come si era andato stratificando nel tempo a seguito delle numerose
modifiche apportate al regio decreto n° 12 del 1941, è stata avvertita dal
governo di centro destra, con l’allora ministro Castelli, il cui fine era quello di
“modernizzare la magistratura”. Dopo varie discussioni le Camere hanno
approvato un testo di legge delega, non sottoscritto e rinviato al Legislativo dal
Presidente della Repubblica, il quale ha fatto uso di un potere rarissime volte
utilizzato dall’inizio della storia repubblicana. Il Capo dello Stato sottolineava
diversi punti di incostituzionalità, di cui uno relativo all’intelaiatura generale del
testo che indeboliva i poteri riconosciuti dalla Costituzione al Consiglio
Superiore della Magistratura, attribuendoli ad altri e diversi organismi. Il
Parlamento provvedendo a rimediare alle osservazioni di cui sopra ha
approvato la legge delega n° 150 del 2005. L’attuazione della riforma
necessitava, tuttavia, dell’emanazione di decreti legislativi per regolamentare
singoli settori, è il caso del d.lgs. n° 109 del 2006 (poi modificato in più punti
dall’articolo 1 della legge n° 269 del 2006) in ordine alla responsabilità
disciplinare dei magistrati. Il fulcro del nuovo sistema consiste nell’introduzio-
ne del principio di tipicità delle fattispecie incriminatorie, suddivise in tre
distinte categorie, quelle inerenti all’esercizio della funzione, quelle ad esso
estranee, ed infine le condotte illecite conseguenti al reato, e addebitate sulla
base di accertate violazioni dei cosiddetti sette doveri fondamentali (imparzialità,
3
correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo, equilibrio, rispetto della dignità della
persona) dei magistrati.
Nelle polemiche contro il governo autonomo dei magistrati ordinari è stata
ampiamente utilizzata l’accusa secondo cui la Sezione Disciplinare del
Consiglio Superiore gestirebbe una giustizia non soltanto "domestica", quanto
piuttosto "addomesticata", di scandalosa mitezza. L’accusa non sembra trovi
rispondenza nella realtà in quanto la sezione disciplinare del CSM dimostra una
discreta severità, almeno in paragone agli altri organi disciplinari del pubblico
impiego.
L’Associazione Nazionale dei Magistrati, infine, ritiene che la riforma del
sistema disciplinare mostri chiaramente l’intento di ridurre l’indipendenza dei
magistrati e aumentare il potere di condizionamento e interferenza del Ministro
nell’attività giudiziaria, contrariamente a quanto previsto dalla stessa
Costituzione.
4
CAPITOLO 1
LA RESPONSABILITA’ DISCIPLINARE DALLO STATUTO
ALLA COSTITUZIONE
1.1. Lo Statuto albertino e la legge Siccardi.
L’articolo 68 dello Statuto albertino stabiliva che “la giustizia emana dal Re
ed è amministrata in suo nome dai giudici che Egli istituisce”, cosicché
può dirsi che quella Costituzione si limitava a ripetere un principio allora
largamente recepito. Da una concezione di giustizia delegata appare evi-
dente come l’indipendenza della Magistratura non avesse alcuna possibilità
di essere né espressa né realizzata.
L’unica concessione che veniva fatta in questa direzione era quella della i-
namovibilità dei giudici dopo tre anni di esercizio professionale, ma anche
questa era ampiamente temperata dal fatto che il giudizio sulla opportunità
di spostare un giudice da una sede all’altra era affidato alla Corte di Cassa-
zione, i cui legami con il potere centrale erano evidenti. Nonostante la
modesta portata di tale innovazione, essa fu notevolmente ristretta
nell’applicazione pratica, posto che in sede parlamentare si stabilì che i tre
anni dovessero essere computati dalla data di entrata in vigore dello Statu-
to, con la conseguenza manifesta che la norma servì soprattutto per la ve-
rifica delle convinzioni politiche di ciascun giudice, per il controllo della
sua disponibilità ad essere in linea con le direttive del governo centrale.
Non solo, ma la legge Siccardi del 19 maggio 1851, n°1186 stabiliva anche
che la decisione della Cassazione in tema di inamovibilità dovesse poi es-
sere rimessa al Ministro guardasigilli per la emanazione del decreto reale, il
5
quale rappresentava, quindi, l’ultima e definitiva parola in materia
1
. Il qua-
dro era completato dalla norma secondo la quale l’amministrazione poteva
trasferire d’ufficio il giudice che senza sua colpa si fosse posto in condi-
zioni di non poter più convenientemente amministrare giustizia nel luogo di sua re-
sidenza e rifiuti di essere traslocato.
Si trattava di forme di controllo indiretto sull’attività dei magistrati, affidate
peraltro al potere esecutivo, che finivano con il rendere del tutto seconda-
rio l’intervento disciplinare. Per quest’ultimo, peraltro, erano dettate delle
regole di scarsa autonomia, posto che le deliberazioni in materia dovevano
essere rimesse al Ministro della giustizia, cui era conferito il decisivo potere
di procedere o meno alla esecuzione del provvedimento sanzionatorio.
Nonostante quasi nulle fossero le aperture verso l’indipendenza, una suc-
cessiva proposta di legge Rattazzi del 1853, che doveva poi trasfondersi
nel decreto legge 13 novembre 1859, e per buona parte quindi
nell’ordinamento giudiziario del 1865, era accompagnata da una relazione
nella quale si affermava, tra l’altro, che la legge Siccardi “recava fino
all’esagerazione il principio dell’indipendenza del potere giudiziario, privan-
do il Ministro di qualsiasi ingerenza nei relativi provvedimenti”, pervenen-
do al programmato che dal “dal Ministro della giustizia deve cominciare e
in esso deve compiersi il giro dell’azione disciplinare affinché rimanga ben
stabilito che l’ordine giudiziario nei suoi interni rapporti deve pur sempre
riconoscere come moderatore supremo il potere esecutivo”. Si spiegava
perciò come dovesse essere conferito al Guardasigilli il potere di chiamare
a sé qualsiasi magistrato per chiedergli spiegazioni del suo operato e, nel
1
Per precise informazioni sui dati storici riportati si veda l’ampio studio di Giuliani
e Picardi, La responsabilità del giudice dallo Stato liberale allo Stato fascista, in
Foro italiano, 1978, IV, pp. 223 ss. Altre accurate informazioni sono rinvenibili nel
volume La responsabilità disciplinare dei magistrati, I, pubblicato dal Consiglio
Superiore della Magistratura nel 1972, pp. 25-71.
6
caso che risultassero non soddisfacenti, di irrogargli direttamente, se lo a-
vesse ritenuto opportuno, addirittura la sanzione della censura.
1.2. L’ordinamento giudiziario del 1865.
Le minacciose previsioni del progetto Rattazzi furono pressoché comple-
tamente realizzate nell’ordinamento giudiziario del 1865, emanato con
R.D. n. 2629 del 6 dicembre, nel quale la norma base della responsabilità
disciplinare, l’articolo 213, stabiliva che “il giudice che non osserva il segre-
to delle deliberazioni o compromette in qualunque modo la sua dignità o la
considerazione dell’ordine a cui appartiene ovvero altrimenti contravviene
ai doveri del suo ufficio è soggetto a provvedimenti disciplinari”. Quale
dovesse essere la portata effettiva della norma, appariva chiaro da altre di-
sposizioni contenute nello stesso ordinamento. L’articolo 205 prevedeva,
ad esempio, che potesse essere destituito un magistrato che si fosse rifiuta-
to di adempiere un dovere imposto non solo da una legge, ma anche sol-
tanto da un regolamento perché – chiariva la Relazione – “non era pensa-
bile che un giudice potesse contendere, sotto il profilo della competenza,
al Ministro la facoltà di emanare disposizioni regolamentari giacché questo
significava porre in questione gli atti del potere esecutivo, la loro autorità e
portata”
2
.
I provvedimenti disciplinari venivano inoltre distinti dalle pene disciplinari
vere e proprie.
I primi, che consistevano nelle ammonizioni, venivano irrogati direttamen-
te dal Ministro, che conservava il diritto di veniat (cioè di convocazione del
magistrato), o dai superiori gerarchici, senza per questo dar luogo a proce-
2
PIOLA CASELLI, La magistratura, 1907, p. 342.
7
dimenti di nessun genere, posto che le uniche formalità si esaurivano nelle
modalità di esecuzione dell’ammonizione, che poteva essere inflitta senza
neppure ascoltare le eventuali giustificazioni del magistrato. Era peraltro
significativamente dettato che “nel segreto dei loro Gabinetti”, i capi degli
uffici dovessero non solo raccogliere le notizie ed infliggere le ammoni-
zioni, ma aggiornare anche le note caratteristiche per segnalare annualmen-
te la capacità, la dottrina, l’operosità e la condotta dei magistrati loro sot-
toposti gerarchicamente.
Le pene disciplinari venivano inflitte invece mediante un processo, che tut-
tavia non varcava le soglie dei rispettivi uffici di competenza, posto che la
giurisdizione spettava alla Corte di Cassazione, alla Corte d’Appello ed al
Tribunale, rispettivamente per i magistrati della Cassazione, della Corte
d’Appello e del Tribunale o delle Preture del circondario. I capi degli uffici
erano invece giudicati dalle Corti immediatamente superiori agli uffici da
loro diretti, alle quali era anche assegnata la giurisdizione sui giudici infe-
riori per le ipotesi in cui la giurisdizione di competenza fosse stata ricusata,
omessa o impossibilitata ad essere esercitata. Le sanzioni previste erano la
riprensione, la censura, la sospensione dall’ufficio e/o dallo stipendio, la
rimozione e la destituzione.
Va peraltro segnalato che, anche per i fatti per i quali poteva essere inflitta
l’ammonizione diretta, il superiore gerarchico poteva chiedere lo svolgi-
mento di un procedimento disciplinare, ma è evidente che, di fronte alla
più sbrigativa irrogazione diretta, che peraltro non ammetteva alcuna for-
ma di contestazione del merito dell’accusa e quindi dell’autorità del capo
dell’ufficio, al giudizio disciplinare facoltativo non si perveniva quasi mai.
La forte presenza del diritto di sorveglianza da parte dei superiori nel si-
stema rende anche comprensibile come l’azione venisse promossa dai
8
P.M. dei rispettivi livelli di giurisdizione, ma sempre ad iniziativa degli stes-
si capi d’ufficio e si concretasse nella richiesta rivolta agli stessi dal Pubbli-
co Ministero, di citazione dell’incolpato a comparire dinanzi all’assemblea
generale dell’ufficio giudiziario di appartenenza per rendere le sue difese.
In un procedimento, dunque, nel quale è dato riscontrare come solo for-
malmente fosse rispettato il principio ne procedat iudex ex officio, e dipenden-
do gli stessi componenti l’assemblea dal capo dell’ufficio, cui, come si è vi-
sto, erano conferiti poteri determinanti sulla carriera di ciascuno dei giudici
dipendenti, non è arbitrario pensare che la serenità del giudizio di costoro
potesse essere condizionata.
D’altra parte lo stesso processo non offriva garanzie obiettive per
l’incolpato, perché, non essendo previste né un’istruttoria preventiva, né
regole processuali da osservare, né l’intervento di difensori, neppure magi-
strati, il tutto si riduceva alla esposizione delle ragioni dell’accusa e alla di-
fesa materiale dell’incolpato, dal cui confronto dialettico doveva scaturire il
giudizio dell’assemblea delle Corti. E’ il caso di aggiungere che il giudizio si
svolgeva a porte chiuse. Da tale impostazione non si discosteranno le mo-
difiche del procedimento disciplinare intervenute con le leggi successive e
in vigore fino alla riforma che ha portato al sistema attuale.
Da questa forma particolare di processo erano esclusi i magistrati del Pub-
blico Ministero, nei cui confronti le sanzioni erano direttamente irrogate
dal Ministro o dai superiori gerarchici, ciò in quanto rappresentanti del po-
tere esecutivo. Ne conseguiva una perdita di quelle sia pur modeste forme
di garanzia che assistevano la Magistratura giudicante, se non altro nei li-
miti della contestazione dell’accusa e dell’apprestamento di una qualche di-
fesa, ma il potere esecutivo otteneva anche l’altra conseguenza, non se-
condaria, che non potendo i magistrati del P.M. essere sottoposti ad alcun
9
giudizio da parte delle Corti presso le quali esercitavano le loro funzioni,
essi potevano meglio svolgere quell’attività di controllo dei giudici, che sa-
rà una costante del nostro sistema fino alla legge sulle guarentigie e alla di-
sposizione che trasferì ai Presidenti di Tribunali la vigilanza sui Pretori del
circondario, prima affidata appunto ai Procuratori della Repubblica.
L’ordinamento del 1865 realizzava, dunque, per vie diverse la completa di-
pendenza del potere giudiziario dall’esecutivo, del quale si avvertiva la pre-
senza non solo nella materia più strettamente disciplinare, posto che que-
sto costituisce il momento estremo di vigilanza sui magistrati, ma anche
sull’esercizio concreto della giurisdizione.
1.3. La sinistra al potere e le leggi Orlando del 1907 e 1908.
L’avvento della sinistra al potere non determinò alcun mutamento della le-
gislazione disciplinare preesistente, pur avendo il Ministro Zanardelli mo-
strato di conoscere l’entità del problema ammettendo che “il potere giudizia-
rio non è che una finzione se la giustizia non è indipendente dal potere esecutivo”.
L’ordinamento giudiziario del 1865 rimase in vita per oltre quarant’anni,
nella sua interezza. Zanardelli, in realtà, che fu Ministro della giustizia per
ben tre volte, fece approvare, sullo status dei magistrati, soltanto la legge n.
6878 dell’ 8 giugno 1890
3
, che modificava il sistema di ammissione e di
promozioni in Magistratura, anche se tale discorso riformistico si concluse
con la legge Orlando del 1908. Ad opera del Ministro della giustizia Man-
cini si provvide solo alla unificazione delle magistrature degli Stati preuni-
tari, in uno spirito di pacificazione e di concordia nazionali.
3
La legge n. 6878 non va tuttavia sottovalutata se si tiene conto del fatto che nume-
rose erano state le nomine politiche dei giudici, qualcuna delle quali prive anche dei
requisiti minimi previsti dalla legge del 1859 che ne aveva introdotto la possibilità.
10
Fu soltanto con gli inizi del nuovo secolo che si pose mano a considerevoli
riforme in materia di status e di disciplina dei magistrati. Già con la legge 14
luglio 1907, n. 511, che dal nome del Ministro proponente, viene ricordata
come la prima legge Orlando, fu istituito il Consiglio superiore della Magi-
stratura, composto dal Primo Presidente della Corte di cassazione di Ro-
ma, che lo presiedeva, da sei Consiglieri e tre Procuratori generali eletti tra
i componenti le 5 Corti di Cassazione del Regno, da nove magistrati di
grado non inferiore a Primo Presidente di Corte d’Appello, nominati con
decreto reale su proposta del Ministro e previa delibera del Consiglio dei
Ministri.
In materia di trasferimenti di ufficio aveva poteri consultivi, mentre per
quanto riguardava le promozioni essa godeva di assoluta discrezionalità,
con l’aggiunta dell’ulteriore possibilità di esprimere pareri su tutto ciò che
riguardava lo status dei magistrati.
L’ampiezza dei poteri riconosciuti all’attuale Consiglio potrebbe far riflet-
tere rispetto alle modeste competenze del primo, ma, se si riguarda al
periodo storico d’origine, connotato da una rigida burocratizzazione della
Magistratura, rigorosamente sottoposta all’esecutivo, non si può che ap-
prezzare questo sia pur timido tentativo di indipendenza esterna; tanto più
che fu ammesso contro le delibere la possibilità del ricorso al Consiglio di
Stato, eventualità che esprimeva per la prima volta il riconoscimento di
una qualche garanzia per la carriera del magistrato.
Sembrano ingenerose, se non ingiustificate, le critiche mosse contro la se-
conda legge Orlando del 24 luglio 1908, n. 438, che innovava profonda-
mente in tema di disciplina dei magistrati. Si afferma infatti che il principio
basilare “Garanzie assolute e disciplina di ferro”, enunciato dallo stesso
Orlando come cardine delle innovazioni, non sia stato poi realizzato,
11
perché le garanzie furono poche e molti invece i procedimenti disciplinari,
a riprova forse di una disciplina scarsamente funzionante
4
.
Dire ciò in realtà, significa anche dimenticare che la legge riconosceva per
la prima volta nella storia della Magistratura, il diritto ad un regolare pro-
cesso, con l’applicazione delle regole di quello penale, la possibilità di espe-
rire una valida difesa e, almeno per i magistrati più giovani e pertanto più
esposti, di impugnare la sentenza di primo grado e ottenerne il riesame.
Non deve neppure attribuirsi un significato negativo al cospicuo numero
dei procedimenti disciplinari, posto che, come abbiamo visto, per il passa-
to il modesto numero era indicativo della preferenza accordata per proce-
dimenti paradisciplinari, non sottoposti cioè ad alcun controllo di regolari-
tà e ad alcuna verifica di merito. La riprova che la legge Orlando segnò un
passo importante in tema di garanzia avvenne quarant’anni dopo, quando
successivamente alla caduta del fascismo in Italia, ponendosi mano ad una
riforma anche della materia disciplinare, la legge delle guarentigie della
Magistratura doveva riprodurre quasi completamente i principi e talune
singole normative della legge in argomento. Nella relazione alla legge, lo
stesso Ministro Orlando dichiarava che “nessun funzionario dello Stato
deve essere più indipendente del giudice e nessuno più disciplinato, perché
in coloro ai quali noi confidiamo il diritto di sindacare anche la vita dei cit-
tadini, di disporre dei loro beni, della loro libertà, del loro onore, noi dob-
biamo pretendere un molto elevato e rigido sentimento di moralità”, per
cui “abbiamo il diritto di indagare tutta intera la loro condotta pubblica e
privata per vedere se essi siano veramente degni di esercitare il loro alto e
insindacabile potere”. La legge Orlando, perché il magistrato non si tro-
vasse esposto ad indebite contestazioni, elencava una serie di doveri e di
4
Vedi GIULIANI-PICARDI, op. cit., p. 228.
12
divieti, la cui inosservanza avrebbe dato luogo a procedimento disciplinare,
realizzando così, per la prima volta nella nostra legislazione, una qualche
tipizzazione degli illeciti disciplinari, sia pure conclusa con una norma di
chiusura concernente comportamenti tali che rendessero il magistrato im-
meritevole della “fiducia e considerazione di cui deve godere, o che com-
promettano il prestigio dell’ordine giudiziario”. Le ipotesi d’illecito disci-
plinare previste nella legge erano: assunzione d’incarichi al di fuori delle
leggi e dei regolamenti (articolo 5); assunzione da parte dei Capi di ufficio
d’incarichi fuori della loro residenza, al di là di quelli dovuti per leggi o re-
golamenti (articolo 6); violazione del segreto sugli affari trattati e delle de-
liberazioni (articolo 7); assunzione d’informazioni private su procedimenti
in corso, e ricorso ad estranei per la compilazione di provvedimenti giuri-
sdizionali; ingerenza in affari giudiziari altrui; prestazione di opere retribui-
te; sollecitazioni o raccomandazioni ad altri magistrati (articolo 8); assun-
zione di debiti con persone interessate in affari che rientrano nella propria
competenza (articolo 9); ricorso a raccomandazioni per la propria carriera
presso membri del Governo o persone da essi dipendenti o esercenti atti-
vità forensi (articolo 10).
Quanto al procedimento disciplinare, la legge prevedeva per la prima volta,
dei collegi giudicanti, vale a dire il Consiglio disciplinare e la Suprema Cor-
te disciplinare. Il primo, istituito presso ogni Corte d’Appello, era compo-
sto dal Primo Presidente che lo presiedeva, dal Presidente di sezione e dal
Consigliere più anziani e da due consiglieri eletti dai magistrati della Corte
ed aveva giurisdizione su tutti i magistrati del distretto di grado non supe-
riore a giudice. Avverso le decisioni dei Consigli disciplinari era ammesso
l’appello alla Suprema Corte disciplinare, la quale aveva anche funzioni di
primo ed unico grado per tutti i magistrati di livello superiore a giudice.
13
Questa era costituita da sei senatori, che non svolgessero la professione
forense, e da sette magistrati, il Presidente della Corte di Cassazione di
Roma, che lo presiedeva, ed i sei magistrati più anziani del Consiglio supe-
riore appena istituito, che risultavano perciò eletti da magistrati. Al regime
misto di composizione della Corte, che si ritrovava naturalmente anche nel
collegio giudicante
5
, si pervenne perché la vita fisiologica dello Stato esi-
geva tra i suoi organi nessi di reciproca ingerenza e di controllo, affinché
nessuno di essi eccedesse a pregiudizio dell’altro. Se il vero scopo era quel-
lo di prevenire indulgenze ritenute inevitabili in un collegio costituito di
soli magistrati, come si diceva nella Relazione, non si può non rilevare che,
con la composizione mista, si istituiva un controllo parlamentare
sull’attività disciplinare e sull’esercizio dell’azione del Ministro. A
quest’ultimo era riconosciuto il potere di iniziativa, essendo stato abolito
quello dei Pubblici Ministeri, che agivano perciò, nell’istruzione e nel di-
battimento
6
. Al Ministro, si legge nella Relazione, “deve risalire la respon-
sabilità dell’azione disciplinare rifiutata o promossa”.
Il procedimento disciplinare era regolato dai principi del processo penale;
veniva enucleata una fase istruttoria affidata esclusivamente ad un giudice
del collegio con il concorso del P.M., e, esaurita questa, ove non ci fosse
stata richiesta di proscioglimento accolta dal collegio giudicante, si proce-
deva al dibattimento. L’incolpato aveva il diritto di farsi assistere da un di-
fensore, che poteva essere sia un magistrato che un avvocato
7
.
5
Era composto da quattro magistrati e da tre senatori.
6
I Pubblici Ministeri agivano solo come organi subordinati ai quali si volle togliere,
riforma non secondaria nel nostro sistema, il “diritto di vigilanza e di controllo sugli
atti della Magistratura Giudicante”.
7
Questa intromissione di un estraneo all’ordine giudiziario non sarà più ripetuta nel-
le successive riforme in materia fino ai giorni nostri.
14
Ad analoghe esigenze di apertura verso l’esterno si ispirava anche la pro-
posta, non accettata dal Parlamento, dello svolgimento pubblico
dell’udienza, dettata dall’intento di garantire la massima correttezza e tra-
sparenza, ma anche la possibilità di assoluzione dinanzi alla pubblica opi-
nione, “la quale non suole acquietarsi all’esito di procedure svoltesi clande-
stinamente”
8
. La proposta fu respinta, sembrando prevalere la necessità di
non intaccare pubblicamente la dignità del magistrato, il quale, nella mag-
gioranza dei casi, torna a fare il giudice dopo aver subito il procedimento e
in qualsiasi modo si sia concluso. Le aperture accennate risultavano tutta-
via seriamente frenate da altre disposizioni regolanti il procedimento. In-
nanzitutto la possibilità per i giudicanti di far valere il loro libero convin-
cimento senza essere tenuti ad alcun canone di apprezzamento della prova,
tanto da consentirsi addirittura la possibilità di una proposta al Ministro
della giustizia di dispensa dal servizio quando, per un qualsiasi motivo, pur
non essendosi raggiunta la prova della responsabilità del magistrato, risul-
tasse evidente la perdita della fiducia e della considerazione da parte dei
cittadini. Va segnalato che per i magistrati del Pubblico Ministero, non era
previsto alcun procedimento disciplinare, la scelta delle sanzioni era affida-
ta al Ministro Guardasigilli perché stante la posizione ordinamentale dei
P.M., se si fosse consentito un regolare procedimento, il valore assoluto
del giudizio avrebbe annullato il rapporto di subordinazione gerarchica tra
il funzionario ed il Ministro della giustizia. Rimaneva la sanzione
dell’ammonimento che poteva essere inflitta direttamente dal Ministro,
con una procedura che l’incolpato aveva la possibilità di evitare, mediante
la richiesta di instaurazione di un normale procedimento disciplinare, che
si svolgeva con le stesse modalità di quello disposto d’ufficio.
8
Espressione tratta dalla Relazione alla legge in questione.