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L'intervento statunitense in Bosnia-Erzegovina (1992-1995)

La guerra in Bosnia-Erzegovina scoppiò in un momento molto particolare della storia delle relazioni internazionali. Se durante l’epoca della cortina di ferro (1946-1989) gli equilibri geopolitici erano relativamente semplici, dettati rigidamente dalla bipolarità del confronto Usa-Urss, con la caduta del muro di Berlino, questo schema si spezzò.
La Jugoslavia fu tra le prime vittime della rottura di questi equilibri e la sanguinosa guerra che ne seguì mise chiaramente in luce come gli Stati Uniti fossero rimasti l’unico paese in grado di svolgere il ruolo di potenza mondiale.
Sia Bush che Clinton non volevano agire in Bosnia perché erano convinti che della questione dovesse occuparsene l’Europa e perché, finita la Guerra Fredda, non erano più interessati a fare i “gendarmi del mondo” dopo che per quasi mezzo secolo gli americani avevano seguito una politica estera decisamente attiva.
Washington non aveva particolari interessi in Bosnia-Erzegovina e considerava le vicende jugoslave come una “palude” in cui non aveva alcuna voglia di impantanarsi, mantenendo così in vita la tradizione risalente a Wodroow Wilson secondo cui era meglio tenersi alla larga dall’aggressività e dall’ambiguità balcanica. Aleggiava inoltre lo spettro del Vietnam e più passavano i mesi più sembrava che Sarajevo stesse diventando persino peggio di Saigon.Un ulteriore disincentivo ad intervenire nei Balcani venne dalla disastrosa missione in Somalia dove i soldati Usa, messa da parte l’imparzialità della missione Onu, si trasformarono in una delle tante fazioni in lotta nella guerra civile. Dopo il fallimento della missione somala si cominciò a parlare di una “linea di Mogadiscio” che gli americani avevano sorpassato in Somalia e che non avrebbero dovuto superare in Bosnia-Erzegovina.
A partire dal 1994 Washington mostrò un maggiore interesse per il problema balcanico. I motivi di questa svolta furono principalmente quattro. In primo luogo, la questione stava diventando un tema elettorale e il presidente Bill Clinton fu obbligato a scendere in prima linea per sopravvivere politicamente, per via delle pesanti critiche giunte alla sua amministrazione (definita persino peggio di quella di Carter) e per via di un’opposizione repubblicana, guidata dal senatore Bob Dole, che si faceva sempre più consistente. In secondo luogo, divenne palese l’inettitudine del vecchio continente nel risolvere la situazione. In terzo luogo, in uno scenario imprevedibile come quello del mondo post Guerra Fredda, diventava quanto mai necessario avere un’Europa pacifica per mettere ordine ed equilibrio in quelle relazioni internazionali che dovevano, per forze di causa maggiore, essere ridefinite. Infine, come dimostrò il discorso che Clinton fece ai suoi cittadini il 27 novembre del 1995, in cui chiese l’appoggio della nazione per inviare le truppe in Bosnia, l’intervento Usa nei Balcani derivò anche da quel senso di responsabilità e di dovere che il “Manifest Destiny” ha da sempre affidato agli americani, scelti dalla divina provvidenza come garanti della democrazia.
In seguito al massacro di Srebrenica gli eventi si susseguirono a una velocità che, in quattro anni di guerra, non si era mai vista. Dopo che il consigliere per la Sicurezza nazionale, Anthony Lake, elaborò il piano “Endgame”, ci furono sforzi diplomatici ad agosto; pesanti bombardamenti Nato a settembre; il cessate il fuoco ad ottobre; Dayton a novembre e il dispiegamento di 20 mila soldati americani a dicembre.
Tuttavia, per quanto risolutivi al momento della loro stipulazione, gli accordi di Dayton non hanno risolto il problema alla radice. Questa tesi pone pertanto il dubbio se sia il caso di far intervenire nuovamente la diplomazia americana per rivedere e correggere quelle mancanze che, nella fretta di concludere l’accordo di pace, vennero considerate non impellenti, ma la cui risoluzione, oggi più che mai, sembra necessaria per arrivare a una pace duratura e stabile.

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7 I IN NT TR RO OD DU UZ ZI IO ON NE E «Noi non siamo isolazionisti, se non nella misura in cui cerchiamo di isolarci completamente dalla guerra. Ma dobbiamo ricordare che, finché la guerra esiste sulla terra, ci sarà il rischio che anche la nazione che più ardentemente desidera la pace possa essere trascinata in guerra» Franklin Delano Roosevelt, 1936 Nel corso della loro storia gli Stati Uniti hanno avuto una politica estera a metà tra isolazionismo e interventismo, tra realismo e idealismo e tra hard power e soft power. Queste caratteristiche sono emerse anche durante la guerra in Bosnia- Erzegovina e sono state la causa del tardivo intervento Usa, avvenuto quattro anni dopo lo scoppio della guerra nei Balcani. Difatti, sia Bush che Clinton non volevano agire in Bosnia sia perché erano convinti che della questione dovesse occuparsi l‟Europa, sia perché, finita la Guerra Fredda, non erano più interessati a fare i “gendarmi del mondo” dopo che per quasi mezzo secolo gli americani avevano seguito una politica estera decisamente attiva. «In fin dei conti» disse il segretario di Stato Baker «Gli Stati Uniti avevano combattuto durante questo secolo tre guerre in Europa, due calde e una fredda. E questo bastava sicuramente, soprattutto perché si era appena

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Informazioni tesi

  Autore: Gabriella Rita Tesoro
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2009-10
  Università: Libera Univ. Internaz. di Studi Soc. G.Carli-(LUISS) di Roma
  Facoltà: Scienze Politiche
  Corso: Scienze Politiche
  Relatore: Gregory Alegi
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 224

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