7
I IN NT TR RO OD DU UZ ZI IO ON NE E
«Noi non siamo isolazionisti,
se non nella misura in cui
cerchiamo di isolarci
completamente dalla guerra.
Ma dobbiamo ricordare che,
finché la guerra esiste sulla
terra, ci sarà il rischio che
anche la nazione che più
ardentemente desidera la pace
possa essere trascinata in
guerra»
Franklin Delano Roosevelt,
1936
Nel corso della loro storia gli Stati Uniti hanno avuto una politica estera a
metà tra isolazionismo e interventismo, tra realismo e idealismo e tra hard
power e soft power.
Queste caratteristiche sono emerse anche durante la guerra in Bosnia-
Erzegovina e sono state la causa del tardivo intervento Usa, avvenuto quattro
anni dopo lo scoppio della guerra nei Balcani. Difatti, sia Bush che Clinton
non volevano agire in Bosnia sia perché erano convinti che della questione
dovesse occuparsi l‟Europa, sia perché, finita la Guerra Fredda, non erano più
interessati a fare i “gendarmi del mondo” dopo che per quasi mezzo secolo gli
americani avevano seguito una politica estera decisamente attiva.
«In fin dei conti» disse il segretario di Stato Baker «Gli Stati Uniti avevano
combattuto durante questo secolo tre guerre in Europa, due calde e una
fredda. E questo bastava sicuramente, soprattutto perché si era appena
8
combattuta un‟altra guerra importante, quella del Golfo»
1
. Di conseguenza,
nei primissimi anni dopo il crollo del Muro di Berlino e la dissoluzione
dell‟Urss gli americani decisero di seguire una politica estera prettamente
isolazionista. Washington non aveva particolari interessi in Bosnia-
Erzegovina e considerava le vicende jugoslave come una “palude” in cui non
aveva alcuna voglia di impantanarsi, mantenendo così in vita quella tradizione
risalente a Woodrow Wilson secondo cui era meglio tenersi alla larga
dall‟aggressività e dall‟ambiguità balcanica.
Dall‟altro lato l‟Europa colse la palla al balzo e vide il conflitto jugoslavo
come l‟occasione per dimostrare di saper portare avanti una politica estera
autonoma senza avere alle spalle la presenza ingombrante degli Stati Uniti.
La svolta interventista avvenne principalmente per quattro motivi. In primo
luogo, il problema balcanico stava diventando un tema elettorale e Clinton fu
obbligato a scendere in prima linea per sopravvivere politicamente, per via
delle pesanti critiche giunte alla sua amministrazione e per via di
un‟opposizione repubblicana guidata dal senatore Bob Dole che si faceva
sempre più consistente. In secondo luogo, divenne palese l‟inettitudine del
vecchio continente nel risolvere la situazione e furono gli stessi leader europei
a prendere atto della necessità di farsi da parte per far agire gli Stati Uniti. In
terzo luogo, in uno scenario imprevedibile come quello del mondo post
Guerra Fredda, diventava quanto mai necessario avere un‟Europa pacifica per
mettere ordine ed equilibrio in quelle relazioni internazionali che dovevano,
per forze di causa maggiore, essere ridefinite. Infine, come dimostrò il
discorso che il presidente fece ai suoi cittadini il 27 novembre del 1995 in cui
chiese l‟appoggio della nazione per inviare le truppe in Bosnia, l‟intervento
Usa nei Balcani derivò anche da quel senso di responsabilità e di dovere che il
1
James A. Baker III, The politics of diplomacy: revolution, war & peace 1989-1992, G.P. Putnam‟s sons,
New York, 1995, p. 636
9
“Manifest Destiny” ha da sempre affidato agli americani, scelti dalla divina
provvidenza come unici garanti della democrazia.
Un‟altra importante dicotomia che emerge dal comportamento statunitense
durante il conflitto balcanico è quella che contrappone il realismo con
l‟idealismo. Se prendiamo in considerazione il caso bosniaco notiamo che,
nella prima fase della guerra, la Casa Bianca mise in atto una politica
prevalentemente realista.
Ciò che accadeva a Sarajevo non risultava di primaria importanza per gli
interessi americani e qualche critico sostenne che questa indifferenza
derivasse dal fatto che in Bosnia non c‟è il petrolio del Kuwait
2
. Il conflitto
nei Balcani non rappresentava una reale e diretta minaccia per gli Usa, né
politicamente, né tantomeno economicamente e veniva visto solo come una
guerra civile da mettere in quarantena.
L‟invasione irachena del Kuwait era invece un potenziale pericolo ben
maggiore per gli interessi americani in una regione, il Medio Oriente,
geopoliticamente strategica. Inoltre in Bosnia-Erzegovina, diversamente dal
Kuwait, non era facile identificare un unico aggressore con il quale
confrontarsi: «Nel Golfo c‟era un chiaro caso di aggressione» disse il
segretario alla Difesa Dick Cheney «In Jugoslavia chi è il nemico? Come
dovremmo identificare la nostra missione militare? Chi dovremmo
combattere? I bosniaci? I serbi? Non lo sappiamo»
3
. La Casa Bianca temeva
di rimanere “incastrata” in una situazione troppo complessa, non
fondamentale per gli interessi Usa e che poteva mettere in serio pericolo le
vite dei soldati americani. Inoltre aleggiava ancora lo spettro del Vietnam e
più passavano i mesi più sembrava che Sarajevo si stesse trasformando in una
nuova Saigon.
2
Filippo Andreatta, The Bosnian war and the new world order : failure and success of international
intervention, Western European Union. Institute for Security Studies, Paris, 1997, p. 8
3
Joţe Pirjvec, Le guerre jugoslave, Einaudi, Torino, 2002, p. 189
10
A partire dal 1994, in seguito alla strage di piazza Markale del 5 febbraio, gli
Stati Uniti intrapresero una politica prevalentemente idealista e sentirono il
dovere di intervenire in Bosnia-Erzegovina per portare la pace tra quei popoli
che da quattro anni si stavano uccidendo l‟uno con l‟altro. Essi cercarono
pertanto di riappacificare i musulmani e i croati, unificarono e addestrarono il
loro esercito, permisero che si armassero, diedero avvio ai raid aerei della
Nato contro le postazioni serbo bosniache e condussero i colloqui di pace di
Dayton.
A ben guardare, durante il conflitto balcanico, non ci fu una così netta
separazione tra idealismo e realismo, perché, se è pur vero che gli Stati Uniti
divennero i portabandiera della pace, è anche vero che essi lo fecero,
inconsciamente o no, per affermare il proprio dominio nello scenario post
Guerra Fredda. Dopo aver messo fine alle ostilità sia politiche che militari,
divenne palese che gli Stati Uniti erano l‟unica potenza mondiale in grado di
agire efficacemente dopo che sia l‟Europa sia la Russia non si dimostrarono in
grado di risolvere la situazione. Si trattò sostanzialmente di un avvertimento
lanciato al mondo in cui si specificava, in caso non fosse già chiaro in seguito
alla Guerra del Golfo, che l‟America si apprestava a calcare la scena delle
relazioni internazionali assumendo un ruolo da unica protagonista. Gli Stati
Uniti agirono quindi sia secondo una linea idealista che tutelava la pace e i
diritti umani, sia secondo una linea realista che li portava a perseguire
internazionalmente i propri interessi nazionali.
Infine, l‟ultima dualità emersa durante la guerra in Bosnia-Erzegovina è
quella tra l‟hard power e il soft power. Nell‟ultimo decennio del XX secolo il
governo di Washington esitò per qualche tempo prima di esprimere una
politica internazionale univoca. Difatti all‟inizio gli Stati Uniti seguirono una
linea prevalentemente soft power, lasciando maggiore spazio alla persuasione
e alla diplomazia. Un esempio lampante di questa politica è rappresentato
dalla mediazione effettuata dall‟ex presidente Jimmy Carter che nel dicembre
11
del 1994 trattò direttamente con Karadţić riuscendo a ottenere una tregua di
quattro mesi. Dopo l‟eccidio di Srebrenica, invece, gli americani seguirono
una linea più hard power e preferirono optare per le maniere forti.
Elaborarono pertanto il così detto piano “endgame” e bombardando
pesantemente i punti strategici dell‟esercito serbo bosniaco. «Abbiamo
esaurito ogni alternativa»
4
commentò Clinton quando approvò il progetto
presentatogli dal consigliere della Sicurezza nazionale, Anthony Lake.
Tuttavia parallelamente ai raid aerei venne portata avanti anche la diplomazia.
Il difficile compito di negoziare con le parti in causa venne affidato a Richard
Holbrooke, l‟abile diplomatico che, nonostante le molte difficoltà, riuscì a
mettere fine a una situazione che sembrava senza via d‟uscita. Mentre erano
in corso sia i bombardamenti della Nato, sia i colloqui tenuti da Holbrooke, la
dicotomia hard power/soft power si poté riscontrare in uno specifico
momento. Holbrooke infatti si era prefissato di non trattare né con Karadţić,
né con Mladić perché accusati di crimini di guerra. Il diplomatico Usa aveva
però intimato Izetbegović di fermare l‟avanzata dell‟esercito croato-
musulmano, ormai giunto alle porte di Banja Luka, promettendogli in cambio
che sarebbe riuscito quanto prima a togliere l‟assedio di Sarajevo. Salvare
Sarajevo significava però trattare con i leader serbo bosniaci e Holbrooke
riuscì ad ottenere, dopo un turbolento vertice con Karadţić e Mladić, il ritiro
dell‟esercito serbo bosniaco dalle alture attorno alla capitale. Fu un trionfo
diplomatico avvenuto utilizzando sia l‟hard power (bombardare le postazioni
dell‟armata di Pale) sia il soft power (trattare direttamente con i leader politici
e militari serbo bosniaci). Più in generale possiamo affermare che gli accordi
di Dayton sono stati possibili grazie all‟utilizzo di entrambe le dottrine.
Utilizzare cioè pesanti raid aerei, (hard power), per costringere gli avversari a
negoziare (soft power).
4
David Mitchell, Making foreign policy: presidential management of the decision-making process, Ashgate,
Burlington, 2005, p. 158, p. 166
12
Questa tesi approfondisce il ruolo determinante assunto dagli Stati Uniti
durante la guerra in Bosnia-Erzegovina, il conflitto più sanguinoso avvenuto
in Europa dai tempi della Seconda guerra mondiale.
La prima parte della tesi ripercorre le tappe più importanti che hanno portato
una piccola colonia oltre l‟Atlantico a diventare nel XX secolo una potenza
mondiale. In particolare si offre una chiave di lettura per capire le tre
principali dicotomie che hanno caratterizzato la storia della politica estera
americana e che sono emerse, in maniera determinante, anche durante il
conflitto balcanico.
La seconda parte della tesi affronta il delicato tema della storia balcanica e
degli intrecci etnici che hanno caratterizzato questa regione. Dalle numerose
invasioni e dominazioni, alla creazione di uno stato unitario; dalle due guerre
mondiali alla nascita della Jugoslavia di Tito. In questa seconda parte si
affrontano inoltre i motivi che hanno portato il paese al tracollo e l‟espandersi
della guerra civile in Bosnia-Erzegovina.
Nella terza e ultima parte si analizza la posizione della presidenza Clinton
davanti al problema bosniaco e i tentativi diplomatici messi in atto per
risolvere la situazione. Come gli Stati Uniti hanno preso la decisione di
intervenire con la forza, come si sono svolte le operazioni militari e i colloqui
di Dayton.
In conclusione, si pone la domanda se, vista l‟instabilità che ancora oggi
domina la Bosnia-Erzegovina, non sia il caso di elaborare un “Dayton 2” per
correggere e migliorare quegli errori e quei problemi che i negoziati del 1995
hanno tralasciato o non affrontato in maniera adeguata.
13
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14
C CA AP PI IT TO OL LO O I I: : G GL LI I S ST TA AT TI I U UN NI IT TI I I IN N P PO OL LI IT TI IC CA A E ES ST TE ER RA A
«Siamo destinati a diventare la
barriera contro il ritorno
dell‟ignoranza e della barbarie.
La vecchia Europa dovrà
sorreggersi sulle nostre spalle e
trascinarsi al nostro fianco,
nonostante gli impacci e le
resistenze dei re e dei preti»
John Adams, 1916
1.1. Il Farewell Address
Nel decennio che seguì all‟indipendenza americana il governo di Washington
era per lo più impegnato a costruire un apparato statale efficace. Tuttavia gli
Stati Uniti si trovarono, loro malgrado, coinvolti nelle vicissitudini estere.
Come vedremo, spesso saranno le lotte intestine europee a trascinare gli
americani nelle questioni internazionali e il primo problema che gli
statunitensi dovettero affrontare fu causato dagli scontri nati nel vecchio
continente in seguito della rivoluzione francese.
All‟inizio, la ribellione d‟Oltralpe venne ben accolta dall‟opinione pubblica
americana, ma dopo la decapitazione del re Luigi XVI e l‟avvento del terrore,
i federalisti, capeggiati da Alexander Hamilton, all‟epoca ministro del Tesoro,
cominciarono a guardare le vicissitudini parigine con sospetto.
La rivoluzione francese fece sorgere dubbi sulla validità del trattato, siglato
nel 1778, che obbligava gli Stati Uniti a difendere le Antille francesi in caso
di guerra. Difatti Hamilton, consapevole dell‟importanza delle importazioni
inglesi per l‟economia statunitense, sosteneva che a causa del rovesciamento
15
della monarchia parigina, il patto non fosse più valido. Il presidente George
Washington appoggiò le tesi del suo ministro e diramò un proclama
presidenziale di neutralità.
Ben presto la Francia aprì ai neutrali i propri commerci sulle Antille, ma la
faccenda indispettì gli inglesi in quanto si trattava di un palese tentativo di
violazione del loro blocco. Londra decise quindi di emanare un Order in
Council con il quale si dichiarava valida la “regola del 1756” secondo cui il
commercio illegale in tempo di pace restava illegale in tempo di guerra
5
.
Dopo il sequestro di 250 navi americane e l‟imprigionamento degli equipaggi,
un irritato Washington inviò in Inghilterra il presidente della Corte Suprema,
John Jay, per negoziare un accordo ed evitare una guerra con l‟ex
madrepatria. Tuttavia il patto concesse ben poco agli americani: gli inglesi
promisero di sgomberare i posti di frontiera del nordovest, rispettando così il
trattato di pace siglato nel 1783; di sottoporre ad arbitrato l‟indennizzo per le
navi sequestrate e di permettere un accesso limitato alle Antille britanniche.
La contropartita era ben più pesante: sottoporre a commissioni miste i confini
del nordest e la questione dei debiti precedenti all‟indipendenza che gli
americani avevano nei confronti del re; inoltre gli statunitensi dovevano
accettare la posizione inglese sui diritti neutrali marittimi. Nessun accordo
commerciale tra i due paesi e nessun compenso per gli schiavi che gli inglesi
si erano portati via nel 1783.
Dopo violente polemiche, due mesi dopo, il presidente Washington dovette, a
malincuore, proporre al Senato di rettificare l‟accordo
6
. Stanco di vestire i
panni del presidente (al momento di assumere tale carica disse che si sentiva
come un condannato al patibolo
7
), Washington non si ripresentò per un terzo
mandato. Il primo e uno dei più grandi presidenti americani lasciò il proprio
5
Maldwyn A. Jones, Storia degli Stati Uniti d’America. Dalle prime colonie inglesi ai giorni nostri,
Bompiani, Milano, 2005, p.79
6
Luca Stroppiana, Stati Uniti. Si governano così, Il Mulino, Bologna, 2006, p.84
7
Maldwyn A. Jones, Storia degli Stati Uniti d’America. Dalle prime colonie inglesi ai giorni nostri,
Bompiani, Milano, 2005, p.73
16
incarico con il famoso “Farewell Address”, il discorso che tanto avrebbe
influenzato il corso della storia. Il documento, che non fu mai pronunciato,
bensì pubblicato sulla stampa, ebbe una complessa gestazione e Washington
lo scrisse varie volte. La stesura finale è di Hamilton, il quale preparò due
versioni, di cui il presidente scelse la prima e vi apportò le ultime correzioni.
Il “Farewell Address” era soprattutto un appello all‟unità del paese, dava
consigli per evitare debiti pubblici e si soffermava sul rapporto tra religione e
pubblica morale. Solo verso la fine si parlava di politica estera e i riferimenti
ai dibattiti e alle polemiche di quegli anni erano evidenti. Infatti Washington
mise in guardia contro i «tranelli» dell‟influenza straniera e consigliava di
«estendere quanto possibile le relazioni commerciali e di diminuire al
massimo i legami politici»
8
. Tuttavia il passaggio più famoso del discorso
rimane quello in cui il presidente discute sui rapporti tra gli Stati Uniti e
l‟Europa: «L‟Europa ha una serie di interessi essenziali che con noi non hanno
nessuna o comunque solo assai remota relazione. […] Ne consegue che
sarebbe prova di grande mancanza di saggezza da parte nostra il lasciarsi
invischiare mediante legami artificiali nelle vicissitudini della sua politica o
nelle continue combinazioni e collisioni dei suoi nemici e amici»
9
. Infine
Washington riconosceva quanto la posizione geograficamente isolata degli
Stati Uniti potesse risultare un vantaggio. Solo quando il paese fosse stato
abbastanza forte da potersi difendere da un attacco esterno e le stesse nazioni
belligeranti avessero smesso di fare provocazioni, gli Stati Uniti avrebbero
avuto la libertà di scegliere tra la guerra e la pace per difendere i propri
interessi. Tuttavia, fino ad allora, «dovrà essere nostra politica costante il
tenerci lontano da alleanze permanenti con una parte qualsiasi del mondo
straniero» ma «avendo sempre cura di conservare, grazie alle misure più
appropriate, una forte posizione difensiva, noi potremo comunque stipulare
8
Washington’s Farewell Address 1796, The Avalon Project – Documents in Law, History and Diplomacy,
Lillian Goldman Law Library, Yale Law School, www.avalon.law.yale.edu/18th_century/washing.asp
9
Ivi.
17
senza timore alleanze temporanee nel caso in cui si presentassero circostanze
eccezionali»
10
.
Nonostante il “Farewell Address” sia passato alla storia come il manifesto
dell‟isolazionismo americano, era, piuttosto, un documento pragmatico che
rifletteva le convinzioni di Washington e si trovava ben inserito nel contesto
della situazione politica del tempo permeato dallo scontro tra filo-francesi e
filo-britannici. Il “Farewell Address” è quindi una dichiarazione di neutralità
americana nei confronti della conflittualità europea, nata dalla consapevolezza
della debolezza del giovane Stato e dalla necessità di un non- schieramento a
favore di una o dell‟altra potenza.
Tuttavia, non si dovette attendere molto per far risorgere malumori con l‟ex
madrepatria. Francia e Gran Bretagna cercavano di compromettere gli scambi
commerciali dell‟avversario e gli Stati Uniti, quale principale paese
commerciale neutrale, non potevano evitare di essere coinvolti. Si venne così
a creare una paradossale situazione tra blocchi e contro blocchi che minavano
pesantemente le esportazioni americane. Tra il 1803 e il 1812 Francia e Gran
Bretagna sequestrarono entrambe centinaia di mercantili statunitensi, ma il
comportamento degli inglesi era considerato molto più inaccettabile di quello
francese. Difatti, se la Francia confiscava le navi solo nei porti europei, i
britannici confiscavano anche in mare aperto e persino a ridosso delle coste
statunitensi e, cronicamente a corto di uomini, arruolavano forzatamente i
marinai sospettati di avere origini inglesi. Dopo l‟attacco alla nave da guerra
americana “Chesapeake”, che provocò 21 vittime tra morti e feriti, il
Congresso approvò una legge di embargo generale che imponeva la
sospensione dei commerci con il resto del mondo. Tuttavia anche se la legge
danneggiò la Gran Bretagna, negli Stati Uniti provocò una profonda crisi
economica. Nel 1809 l‟embargo venne sostituito con il Nonintercourse Act,
10
Washington’s Farewell Address 1796, The Avalon Project – Documents in Law, History and Diplomacy,
Lillian Goldman Law Library, Yale Law School, www.avalon.law.yale.edu/18th_century/washing.asp
18
legge che chiudeva i commerci americani solo con la Francia e la Gran
Bretagna e autorizzava il presidente a riaprire i mercati con la nazione
belligerante che avesse rispettato il diritto di neutralità degli americani. La
legge si rivelò di difficile applicazione e l‟anno successivo venne sostituita
con il Macon‟s Bill No.2 che riaprì i commerci con Francia e Gran Bretagna,
ma se una delle due avesse rinunciato alle restrizioni del traffico marittimo
americano, il Nonintercourse Act sarebbe stato applicato all‟altra.
L‟imperatore Napoleone colse l‟occasione e dichiarò subito nulli i decreti
contro il commercio americano; dopo poco il presidente James Madison,
eletto proprio quell‟anno, ripristinò il Nonintercourse Act contro gli inglesi.
1.2 La dottrina Monroe
In quegli anni giovani nazionalisti del partito Repubblicano, nominatisi
“falchi della guerra”, sostenevano che gli Stati Uniti non potevano
considerarsi un paese indipendente per le continue interferenze dell‟ex
madrepatria. Anche grazie alle loro continue pressioni, il 18 giugno 1812 il
Congresso dichiarò guerra alla Gran Bretagna. L‟opinione pubblica si spaccò
a metà. Molti, sopratutti gli abitanti della Nuova Inghilterra erano nettamente
contrari a questa scelta perché sostenevano che la guerra avrebbe danneggiato
i loro commerci ancor più gravemente dell‟embargo e non accettavano il fatto
che gli Stati Uniti sarebbero stati, sia pur nominalmente, a fianco di
Napoleone.
Senza dar ascolto alle polemiche, gli americani puntarono alla facile
invasione del debole vicino: il Canada. Tuttavia quella che Jefferson aveva
definito «una passeggiata»
11
si rivelò tutt‟altro che semplice. Solo dopo
diversi falliti tentativi, gli statunitensi raggiunsero la capitale York, l‟attuale
11
Maldwyn A. Jones, Storia degli Stati Uniti d’America. Dalle prime colonie inglesi ai giorni nostri,
Bompiani, Milano, 2005, p.97
19
Toronto, diedero fuoco al Parlamento e a molti altri edifici pubblici e poi
tornarono al di là dell‟Ontario. La reazione inglese non si fece attendere. Una
volta liberatisi del “problema Napoleone” la flotta britannica approdò sulle
coste americane, raggiunse Washington e, ripagando le ex colonie della stessa
moneta, diede fuoco al Campidoglio, alla Casa Bianca e ad altre sedi
pubbliche. Dopo poco divenne evidente che nessuna delle due parti era in
grado di sconfiggere l‟avversario. La guerra terminò con la pace di Grand che
ristabilì lo status quo e la neutralizzazione dei Grandi Laghi
12
.
Nonostante avesse subito un‟invasione straniera, per gli Stati Uniti la guerra
del 1812 fu un avvenimento carico di significato. La neonata repubblica
dimostrò di saper difendere i propri interessi nazionali contro la più grande
potenza del mondo e poté così affermare il proprio predominio nel
Nordamerica. «La guerra ha rinnovato e consolidato i sentimenti nazionali
creati dalla rivoluzione. Oggi il popolo ha nuove ragioni di unità e di
coesione» scriveva Albert Gallatin, successore di Hamilton al Tesoro «È
diventato più americano, agisce più come una nazione»
13
. Nel 1815, con la
sconfitta di Napoleone e la restaurazione di Versailles, cominciò per l‟Europa
un lungo periodo di pace e gli Stati Uniti, non più preoccupati delle relazioni
estere, si isolarono diplomaticamente per dedicarsi alla politica interna.
Grazie a una nuova generazione di dirigenti di partito, prese piede un modello
di nazionalismo economico rigorosamente protezionistico, che alimentava il
bilancio federale e risanava la finanza pubblica
14
. Tale sistema, definito dal
suo principale esponente, il fondatore del partito Whig
15
Henry Clay, “sistema
americano”, mirava a liberare gli Stati Uniti dalla dipendenza dai commerci
esteri. Tuttavia il nazionalismo americano ebbe la sua massima espressione
12
Edoardo Del Vecchio e Marcella Del Vecchio, Atlante storico delle relazioni internazionali, Cedam,
Padova, 2004, p.55
13
Giuseppe Mammarella, L’eccezione americana. La politica estera statunitense dall’Indipendenza alla
guerra in Iraq, Carocci, Roma, 2005, p.58
14
Giovanni Aliberti e Francesco Malgeri, Da popolo a cittadini, Led, Milano, 2006, p. 58
15
Partito Whig: Partito nato nel 1934. I suoi punti chiave furono l‟opposizione al libero scambio e il
rafforzamento delle barriere protezionistiche.