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Come ridurre i costi della disinflazione. L'operato di Paul Volcker e l'importanza delle aspettative

“L’inflazione è quella forma di tassazione che può essere imposta senza legislazione”. Questo aforisma, il cui autore è il massimo pensatore monetarista, Milton Friedman, fotografa efficacemente una delle patologie dell’economia di mercato. Oggigiorno un tasso minimo d’inflazione è universalmente accettato e presenta anche dei risvolti positivi; tuttavia, nel caso di tassi più elevati e vicini alle due cifre, l’incertezza e la volatilità derivanti possono avere effetti dannosi sull’economia. Questo elaborato analizzerà un caso di questo tipo: l’ascesa del fenomeno inflattivo e le sue cause fino alla disinflazione operata dalla Federal Reserve e dal presidente Paul Volcker a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta. Di pari passo con l’osservazione degli avvenimenti, verranno proposte le considerazioni teoriche che hanno accompagnato storicamente questi sviluppi. L’analisi del contesto di riferimento terrà necessariamente conto dell’ascesa dell’inflazione, degli effetti causati dagli shock petroliferi degli anni Settanta e degli strumenti a disposizione dell’autorità monetaria per affrontare questi fenomeni. Successivamente verranno studiate le prime risposte fornite dall’amministrazione Carter, rientranti anch’esse nelle formulazioni originarie per quel che concerne l’esistenza della curva di Phillips e l’efficacia delle politiche fiscali e dei redditi.
Con l’avvento di Paul Volcker alla guida della Fed, le procedure di lotta all’inflazione cambiano, soffermandosi maggiormente sulla necessità di rigore nel combattere il fenomeno, sfruttando modalità fino ad allora considerate marginali in economia: l’informazione e la psicologia degli agenti. In questo modo entrano a far parte della teoria le innovazioni introdotte dalla scuola della Nuova Macroeconomia Classica per quanto riguarda le aspettative razionali e l’importanza della credibilità della Banca Centrale. Questi due elementi combinati sono alla base della possibilità di effettuare una disinflazione a costi ridotti rispetto al tradizionale percorso basato sul trade off tra inflazione e disoccupazione, espresso dalla curva di Phillips. All’interno di questi due argomenti, verrà analizzato il dibattito tra le principali correnti di pensiero sulla curva di Phillips (keynesiani e monetaristi), focalizzando quindi l’attenzione sul ruolo della credibilità del policy maker.
L’ultima parte dell’elaborato si soffermerà sull’analisi dell’andamento della curva di Phillips alla luce dei risultati emersi nei capitoli precedenti e infine sui costi della disinflazione per quanto riguarda calo della produzione, la redistribuzione del reddito tra i vari settori della società, il differente impatto su piccole e grandi imprese, le differenze di disoccupazione secondo un criterio etnico. Quindi, nelle conclusioni, verrà valutata l’effettiva efficacia della politica volckeriana a più di vent’anni di distanza dalla sua applicazione.

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10 Il legame tra inflazione e disoccupazione: il dibattito accademico sulla curva di Phillips A.W. Phillips pubblicò nel 1958 un lavoro empirico attinente alle interrelazioni tra crescita salariale e tasso di disoccupazione, con riferimento al caso del Regno Unito. Il risultato di quest’analisi empirica fu l’evidenziazione esplicita di una relazione inversa non lineare, bensì approssimata ad un’iperbole, tra crescita dei salari monetari e tasso di disoccupazione. La spiegazione era legata alla risposta dei salari al disequilibrio esistente nel mercato del lavoro. La relazione negativa tra inflazione e disoccupazione, come ipotizzata prima da Phillips e quindi da Samuelson e Solow, si spiega dunque in maniera semplice: dati i prezzi attesi, una disoccupazione inferiore comporta salari nominali più elevati. A loro volta, salari nominali più elevati si riflettono in prezzi maggiori. Per quanto concerne l’inflazione, nel periodo a cui si rifà il caso storico, il dibattito macroeconomico fu monopolizzato da due scuole di pensiero: keynesiani e monetaristi. L’analisi keynesiana tradizionale distingueva tra due tipi principali di inflazione: quella “da domanda”, rappresentata da uno spostamento lungo una data curva di Phillips; e quella “da costi”, definibile con uno spostamento dell’intera curva, essendosi verificato uno shock d’offerta. L’inflazione è invece, per i monetaristi, essenzialmente “da domanda”, ma causata da fattori monetari: Friedman sostenne a proposito che l’inflazione si poneva sempre e dovunque come fenomeno monetario. Sempre secondo la scuola monetarista, in relazione all’inflazione da costi, le loro variazioni possono determinare modifiche transitorie nei salari e nei prezzi, ma non un’inflazione permanente. La regolarità empirica della curva di Phillips apparve fondata e plausibile, in particolare negli anni Sessanta: negli Stati Uniti, ad esempio, tra il 1961 ed il 1969 il tasso di disoccupazione diminuì dal 6,7% al 3,5% con un corrispondente aumento dell’inflazione dall’1% al 5,4%. Dal 1970 in poi, però, questa relazione è venuta meno. Alla base di questo cambiamento ci sono due ragioni di fondo principali. Nel corso degli anni Settanta, anche gli Stati Uniti, come il resto dei paesi occidentali, furono colpiti per due volte da un forte aumento del prezzo del petrolio, in seguito alla costituzione del cartello dell’Opec. Questo aumento dei costi di produzione costrinse le imprese ad aumentare i loro prezzi rispetto ai salari. La motivazione principale venne tuttavia da una modifica nel modo con cui imprese e lavoratori formavano le proprie aspettative.

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