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Alla ricerca dell’identità perduta. Analisi dei processi di branding e dei sistemi di identità visiva nel Terzo settore.

Il Terzo settore in Italia sta vivendo un momento di passaggio. Questo comparto, da sempre stretto fra Stato e mercato, fin dal nome, denuncia la sua residualità, ma l’attuale crisi economica e l’ormai trentennale disfacimento del welfare state, offre un’occasione unica agli enti non profit. Questo settore della società italiana è animato da una pluralità di enti di varia natura spesse volte caratterizzati da un alto tasso di autoreferenzialità che impedisce loro di realizzare durature ed efficaci esperienze di rete. Accade così che, se da una parte alcune organizzazioni, soprattutto nel mondo della cooperazione e dell’impresa sociale, adottino sempre più spesso tecniche proprie del mondo profit, dall’altra si può constatare come soprattutto nel volontariato stiano nascendo una miriade di microrealtà, incapaci di pianificazioni e strategie di lungo periodo. Questa situazione determina degli evidenti problemi identitari sia del Terzo settore considerato nel suo complesso, sia dei singoli enti.
Per esaminare queste realtà, capirne limiti e potenzialità, si è scelto un punto di osservazione originale, decidendo di analizzare un aspetto ancora poco indagato, le politiche di branding e le identità visive realizzate nel Terzo settore. Questo infatti è stato l’obiettivo della ricerca Logo Non Profit, promossa da Terza.Com - Osservatorio sulla comunicazione sociale e l’editoria del Terzo settore. La ricerca, condotta tramite l’analisi dei siti web delle principali realtà del non profit nazionale, ha rivelato una diffusa presenza degli elementi base che compongono un’identità visiva: il marchio, i colori sociali, i caratteri tipografici istituzionali. Si è però constato come questi elementi difficilmente si combinino in maniera armonica in modo tale da realizzare delle vere e proprie immagini coordinate. Queste disomogeneità sembrano determinarsi fra gli organi centrali e le sedi periferiche di questi enti, dotate di un alto grado di autonomia. Questo dato, d’altronde , sembra essere confermato anche dai colloqui che ho effettuato con i responsabili di due importanti organizzazioni non profit, Auser e Cittadinanzattiva. Queste associazioni, seppur diverse per storia, profilo organizzativo e mission, hanno rivelato una spiccata propensione verso un corretto uso dell’identità visiva, pur essendo pienamente consapevoli delle difficoltà presenti nelle proprie compagini.
Esiste poi un limite culturale allo sviluppo della comunicazione nel Terzo settore, dovuto ad una certa diffidenza nei confronti del mondo dei media, che, unito all’esiguità delle risorse economiche ed alla scarsità di specifiche figure professionali, relega il non profit in una nicchia dell’infosfera, impedendogli di affermarsi come voce autorevole, nonostante la fiducia di cui gode nella società. Tutto ciò accade proprio quando il tema della responsabilità sociale entra a far parte dell’universo profit, che, messo sotto attacco in un periodo crisi, adotta sempre di più un approccio relazionale al discorso di marca. È d’altronde ormai da tempo che la marca si è allontanata dalla narrazione delle qualità del prodotto per concentrarsi su una comunicazione pienamente valoriale. E questo è sicuramente un campo congeniale al Terzo settore, che, anche grazie all’ausilio delle nuove tecnologie, nei prossimi anni avrà la possibilità di esprimere tutto il suo potenziale comunicativo fatto di relazioni e capitale sociale.

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7 Introduzione Lo spunto per questo lavoro parte dalla constatazione che il Terzo settore italiano è in un momento di passaggio. Una naturale evoluzione infatti potrebbe condurre questa importante parte della società italiana ad emanciparsi dalla condizione di subalternità in cui giace, stretta com’è fra Stato e mercato. Il carattere ibrido, che costringe questo settore a definirsi, fin dalla denominazione, in maniera residuale, può infatti, in un periodo di crisi economica come quello attuale, caratterizzarlo in maniera positiva. Il non profit di fatto nasce e trova il suo status proprio per offrire risposte innovative a problemi nuovi. Riesce perciò ad inserirsi negli spazi lasciati vuoti da uno Stato, in progressivo allontanamento dall’intervento diretto nella realizzazione delle politiche sociali. Spazi che, d’altronde, non possono essere colmati dalle aziende private che raramente hanno quale obiettivo primario il soddisfacimento di una domanda di servizi sociali, spesso espressione di settori ai margini della società. Lo sviluppo del Terzo settore sembra per altro confermato dai dati che vedono un costante incremento delle sue dimensioni sia dal punto di vista numerico che da quello economico, anche se appare sintomatico che le ricerche in merito siano alquanto datate. Se poi si pensa che la maggior parte delle principali indagini sul non profit tendano a coglierne i soli aspetti economici, si può comprendere il complesso di inferiorità che tuttora affligge questo settore. Ciononostante una retorica legata alla responsabilità sociale si sta, ormai da almeno vent’anni, diffondendo anche nell’universo profit. Questa maggiore attenzione verso alcune delle principali tematiche sociali, prima fra tutte quella ambientale, non sembra però determinata, se non in piccola parte, da una mutata sensibilità da parte della dirigenza delle più grandi aziende. Il vero cambiamento avvenuto è quello

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