Il codice di autodisciplina come strumento di corporate governance: il caso italiano alla luce dell'esperienza anglosassone
Negli anni ’90 in Italia, in concomitanza con analoghe esperienze internazionali, sia il legislatore sia gli operatori economici hanno mostrato vivo interesse nel tracciare un sistema di governo delle imprese più attento alle ragioni dell’efficienza.
L’internazionalizzazione e la globalizzazione del mercato dei capitali hanno fatto sorgere la consapevolezza che, per aumentarne la competitività, è necessario introdurre regole appropriate, in grado di accrescere la fiducia degli investitori senza tuttavia costituire elemento di rigidità.
Il Testo Unico della Finanza ha modificato in maniera rilevante il sistema delle fonti in materia di corporate governance e concesso ampio spazio, accanto agli strumenti di produzione legislativa, all’intervento di autorità indipendenti e all’autonomia dei privati, favorendo una ricerca “dal basso” dell’assetto normativo più adeguato al caso concreto.
La società di gestione del mercato azionario, Borsa Italiana S.p.A, ha dunque proposto alle società emittenti l’adozione di un “Codice di Autodisciplina”, elaborato da un Comitato composto da imprenditori, amministratori di grandi società ed esperti.
Le regole, mutuate dai Codici di autodisciplina anglosassoni, incidono principalmente sulla composizione e sul funzionamento del consiglio di amministrazione, sui meccanismi di controllo interno, sulla completezza dei flussi informativi endo ed eterosocietari, sulla creazione di un proficuo rapporto con gli investitori istituzionali e gli altri soci.
L’efficacia di questo strumento, che grazie alla sua natura “privata” presenta una flessibilità sconosciuta ad altri tipi di interventi normativi, è legata alla funzione allocativa e insieme sanzionatoria del mercato e al grado di condivisione nelle società quotate di valori e principi quali trasparenza e responsabilità, e quindi alla reputazione degli operatori stessi.
Infatti, in determinati contesti la perdita della cd. market credibility rappresenta una sanzione più pesante di quella che potrebbe irrogare un’autorità amministrativa.
Il presente lavoro contiene un’analisi delle relazioni redatte dalle società quotate in merito al loro sistema di corporate governance. Dai dati raccolti emerge che, a fronte di un’adesione entusiastica pressoché totalitaria ma formale, mediamente il quaranta percento delle emittenti ha implementato cambiamenti nella direzione indicata dal Codice.
Ma le regole dettate sono in grado di incidere effettivamente sulle procedure che determinano il sistema di governo societario, oppure è significativo il rischio che la best practice trovi applicazione solamente “programmatica” e non sostanziale? E’ inoltre possibile applicare con successo alla realtà italiana, caratterizzata dalla presenza di imprese a proprietà concentrata, una testo normativo dichiaratamente ispirato alle public companies anglosassoni?
Le risposte a questi interrogativi si accompagnano a forti dubbi, che tuttavia non offuscano il principale merito che il Codice acquista, ossia quello di aver iniziato un mutamento di ambiente e di cultura verso un sistema attento ai problemi della governance, in cui la presenza di regole serie e il loro rispetto da parte degli operatori consente al mercato di funzionare meglio, di essere strumento più efficiente di allocazione delle risorse e di creazione di valore.
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Informazioni tesi
Autore: | Filippo Galluccio |
Tipo: | Tesi di Laurea |
Anno: | 2001-02 |
Università: | Università Carlo Cattaneo - LIUC |
Facoltà: | Giurisprudenza |
Corso: | Giurisprudenza |
Relatore: | Alessandra Stabilini |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 133 |
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