Idoneità e univocità degli atti nel delitto tentato
La tesi affronta il tema del delitto tentato nel codice penale italiano, con particolare riferimento all'elemento oggettivo del delitto de quo.
“Cogitare, agere sed non perficere” è con questa espressione che i giureconsulti italiani tracciarono nel medioevo l’essenza di una particolare figura criminosa: il delitto tentato .
Per il diritto romano , infatti, non vi era fatto punibile senza una manifestazione attuosa di volontà. Il solo animus, anche se rivelatosi con espressione di propositi o con la confessione dell’intenzione, non era sufficiente a concretare un delitto e a richiamare una pena; la dove non vi era stata la lesione del diritto, si riteneva che non potesse sorgere la figura del reato per deficienza dell’elemento obiettivo.
Nelle Costituziones, invero, si riscontrano spesso i termini temptare e conari ma tali forme di tentativo erano punite come reato perfetto.
Mancava nel diritto romano classico, quindi, una distinzione corrispondente a quella moderna tra consumazione e tentativo.
Per quest’ultimo i Romani non coniarono né un termine tecnico, né una nozione specifica; era nota invece alle fonti romane la forma di “attentatio” con la quale si faceva riferimento ad attività che non avevano raggiunto il momento consumativo. La punibilità di tali atti, per altro, era riservata solo ai delitti contro lo Stato e, eccezionalmente, ai più gravi delitti comuni, e le pene erano comunque uguali a quelle del rispettivo delitto consumato.
Sembra controversa l’ipotesi che, un primo esempio di tentativo, lo si possa riscontrare nel diritto Longobardo; se si osserva l’Editto di Rotari, si può, infatti, notare la scomposizione dell’ iter criminis in più figure criminose sanzionate autonomamente dal legislatore.
Parte della dottrina , riteneva che tali manifestazioni antigiuridiche fossero previste come genere autonomo di delitto, cui rispondeva una particolare denominazione, tanto che nell’Editto di Rotari tali fattispecie venivano denominate culpae minores, in senso opposto, invece, il Tamassia sostenne che il legislatore barbarico, influenzato da alcuni passi dei “ Libri penitenziali ”, avrebbe sviluppato il concetto di tentativo.
In realtà ai giuristi medievali sembrava illogico il principio di irrogare una sanzione quando effectus non secutus, nè di più facile soluzione era la possibilità di sindacare una volontà colpevole; si avviò, allora, un attento studio sull’iter criminis, e in particolare sulla sequenza atto remoto – atto prossimo .
L’atto esterno iniziava ad essere studiato allo scopo di valutarne gli effetti non solo in rapporto al bene giuridicco aggredito, ma anche all’intenzione del reo.
Vi era una netta distinzione tra actus proximus e actus remotus; e il secondo, infatti, quasi mai era ritenuto punibile, salvo i casi di “ grave pericolo sociale “.
Nel primo si doveva evidenziare l’idoneità dell’atto a produrre l’effetto desiderato e, l’atto doveva essere diretto all’evento ( ordinatus ad principalem intentum ), mentre nel secondo, pur essendo evidente la presenza della volontà a delinquere, mancava la specifica e concreta determinazione del reato a cui riferirsi.
È nel periodo illuministico, invece, che sorgono nuove e più moderne teorie sul concetto di tentativo.
Anzitutto mutò la la concezione dello Stato nei confronti della pena da infliggere, si passò dalla “ logica della vendetta “ alla “ logica della prevenzione “; e secondo una logica proporzionalistica, la pena prevista per il conato doveva essere, nettamente inferiore a quella prevista per il delitto consumato.
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Informazioni tesi
Autore: | Silvia Leto |
Tipo: | Tesi di Laurea |
Anno: | 2007-08 |
Università: | Università degli Studi di Roma La Sapienza |
Facoltà: | Giurisprudenza |
Corso: | Giurisprudenza |
Relatore: | Antonino Battiati |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 177 |
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