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Le aziende italiane e la bassa propensione all’ingresso nel mercato azionario: un’indagine sulle motivazioni

Lo studio analizza, attraverso un’indagine sia “desk” sia “field”, il grado di propensione delle principali imprese italiane alla quotazione, cercando di individuare le motivazioni di fondo che inducono molte delle aziende potenzialmente quotabili a non ricorrere al mercato azionario per i propri programmi di sviluppo.
Il lavoro segue gli studi condotti in questi anni da numerosi ricercatori e istituzioni finanziarie, ed in particolare le analisi condotte da Banca d’Italia e da Borsa Italiana sulle aziende quotabili. Rispetto a queste due importanti ricerche, la prima di tipo empirica, la seconda di tipo campionaria, il presente studio, cerca di analizzare il tema dalla parte dei protagonisti. Si è cercato, in questo senso, di rispondere alla domanda del perché le aziende italiane potenzialmente quotabili non fanno ricorso al mercato azionario, ponendo il focus dell’analisi sulle variabili che influenzano le decisioni rispetto alla quotazione in borsa da parte delle strutture di comando delle migliori imprese italiane.
Ciò che è emerso dalla ricerca è che le motivazioni alla base di questo atteggiamento diffuso delle aziende italiane non sono legate unicamente a fattori relativi alle singole aziende (redditività, propensione degli azionisti di controllo) o alle conseguenze di un ingresso sul mercato azionario (onerosità della quotazione, diluizione del controllo), ma anche a fattori strutturali relativi ai settori di appartenenza e ai rapporti con il sistema finanziario.

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I. Introduzione e nota metodologica Negli anni novanta, le privatizzazioni delle grandi imprese pubbliche hanno dato forse uno dei contributi più importanti allo sviluppo del mercato azionario italiano. Si è affermata una cultura finanziaria più orientata alla trasparenza e si è dato un peso importante, da parte degli operatori, alle decisioni imprenditoriali. Sono aumentati i possessori di azioni e si è diffusa la “cultura dell'investimento azionario” fra le famiglie e gli investitori non professionali. Le privatizzazioni hanno poi contribuito ad aumentare notevolmente il flottante e il volume degli scambi, portando allo sviluppo di un mercato più liquido. Il peso del debito obbligazionario per i grandi gruppi quotati ha ormai raggiunto in Italia dimensioni considerevoli, i debiti a breve sui debiti totali sono diminuiti dal 50 al 30% negli ultimi cinque anni. (Cardia, 2005). Le imprese hanno, contemporaneamente, accresciuto il grado di sofisticazione nella gestione dei rischi di variazione dei tassi di interesse e di cambio. Esiste però, ancora, un forte divario tra la finanza dei grandi gruppi quotati e quella delle altre grandi e medie imprese non quotate. Per quest’ultimo gruppo di imprese, l'autofinanziamento e, in seconda battuta, il debito bancario sono le forme quasi esclusive di finanziamento degli investimenti. Il peso delle obbligazioni rimane marginale e gran parte dei debiti finanziari sono a breve termine. Inoltre uno dei temi affrontati dallo studio è che il ricorso al mercato azionario è visto da queste aziende come una leva finanziaria piuttosto che come una leva strategica finalizzata alla crescita e allo sviluppo. Il lavoro riporta, infatti, i risultati di una ricerca, sia desk sia field, che analizza il grado di propensione delle principali aziende italiane al passaggio da una struttura di comando privata ad assetti tipici di public company. Obiettivo della ricerca è stato anche quello di indagare le ragioni di una certa avversione delle imprese italiane per il mercato mobiliare e, mediante la loro evidenziazione, offrire, se possibile, spunti di riflessione per proporre soluzioni operative capaci di ridurre il divario tra le esigenze di finanziamento degli 3

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