La Programmazione Territoriale: il caso del Cilento
Il presente lavoro si articola in due capitoli. Il primo capitolo “Gli interventi territoriali” riguarda l’indagine sui vecchi e nuovi strumenti amministrativi dell’intervento pubblico. Il periodo successivo alla guerra vede il nascere di una serie di iniziative pubbliche tese ad affrontare il problema del divario economico-sociale tra il Nord e il Sud del Paese. Infatti, venne istituita la Cassa per il Mezzogiorno, ente pubblico straordinario cui è affidato il compito di porre in essere gli interventi infrastrutturali e solo successivamente interventi volti ad industrializzare il meridione. Si realizza in questo periodo il più massiccio trasferimento di risorse economiche nel Mezzogiorno di tutti i tempi.
La programmazione degli anni cinquanta è strettamente connaturata al modello keynesiano di sviluppo incentrato sulla grande impresa e sul ruolo centrale dello Stato. Questo è il modello di sviluppo economico “top-down”, il modello dalla programmazione centralizzata, cosiddetta “programmazione razionale-sinottica”, modello che prevede uno schema a “cascata”: un Ente centrale individua gli obiettivi di carattere generale (perché si pensava che questo Ente programmatore potesse avere una conoscenza completa, appunto sinottica, del problema che la programmazione intendeva risolvere e, pertanto, prendeva decisioni in base a obiettivi definiti in modo razionale) e gli enti periferici-locali specificano gli obiettivi programmati dall’ente centrale e li eseguono.
Il tentativo di una programmazione statale centrale ed autoritativa fallisce per l’avvio del Mercato unico europeo, per l’avvio delle istituzioni regionali, ma soprattutto per il consolidarsi delle istituzioni del libero mercato nel nostro Paese.
Infatti, l’attivazione dell’istituzione Regionale nel 1970 che prevede ambiti di intervento che si sovrappongono a quelli affidati alla Cassa per il Mezzogiorno. Si iniziano a reclamare poteri e spazi di manovra più incisivi in materia di sviluppo economico da parte dell’ente regionale e dei ceti produttivi che entrano inevitabilmente in conflitto con quelli statali.
La scelta di strutture amministrative straordinarie e centralizzate, coma nel caso della Cassa per il Mezzogiorno, e di massicci trasferimenti di capitali pubblici sottoforma di incentivi sembra non aver favorito lo sviluppo di quel senso di partecipazione di organizzazione e di progettualità, indispensabile per qualsiasi tipo di politica di sviluppo economico.
Si tenta di porre rimedio a questa disfunzione limitando la programmazione agli ambiti settoriali, allargandone l’ambito di decisione alla organizzazioni degli interessi, si tenta di coinvolgere nella progettazione degli interventi le esigenze del territorio come espresse dagli enti locali.
Il tentativo di ribaltare la logica della programmazione, che non scende più dall’alto ma si costituisce a partire dagli enti locali, mette in evidenza il drammatico stato della pubblica amministrazione, incapace di raccogliere i bisogni del territorio e di trasferirli in progetti di sviluppo.
Questo modello entra in crisi grazie alle nuove politiche strutturali intraprese dalla Comunità europea a seguito dell’Atto Unico europeo del 1986 e del Trattato di Maastricht del 1992, in quanto l’esigenza di creare un mercato unico europeo concorrenziale; l’esigenza di far fronte alla globalizzazione rilanciando la competitività delle imprese di piccola e media dimensioni; l’esigenza si evitare che questa politica possa avvantaggiare le sole zone d’Europa già sviluppate, allungando così il divario con quelle ancora sottosviluppate, portano l’UE a porre in essere un’apposita politica di riequilibrio territoriale tra le diverse aree europee. Da subito è forte la consapevolezza che l’efficacia dei risultati di questa politica è legata ad una “nuova programmazione” che vede partecipare allo sviluppo economico tutte le articolazioni istituzionali, ciascuno con propri compiti, ma localizzando prevalentemente a livello più basso della catena la responsabilità di elaborazione degli interventi.
Si tratta di un modello di sviluppo dal basso, cosiddetto “bottom-up”, incentrato soprattutto sulle piccole e medie imprese, sulla cooperazione pubblico-privato (attraverso una scelta degli interventi non più unilaterale e autoritativa ma consensuale, la cosiddetta programmazione negoziata), sulla concentrazione degli interventi intorno a poche strategie di sviluppo attraverso strumenti innovativi come i Patti territoriali o i PIT, ma soprattutto una forte capacità d’azione degli enti locali, che vanno messi in condizione di poter “leggere” le esigenze di sviluppo del territorio e di poterle concretizzare con progetti, risorse e strumenti propri. Questa nuova strategia di sviluppo dal basso, ha portato ad uno sconvolgimento dell’assetto dei poteri amministrativi che sono stati reimpostati sulla base del principio di sussidiarietà, ma anche delle modalità di attuazione degli interventi.
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Informazioni tesi
Autore: | Annamaria Pizza |
Tipo: | Tesi di Laurea |
Anno: | 2006-07 |
Università: | Università degli Studi di Salerno |
Facoltà: | Economia |
Corso: | Economia e Commercio |
Relatore: | Gianluigi Coppola |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 160 |
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FAQ
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