4Mezzogiorno. Si iniziano a reclamare poteri e spazi di manovra più incisivi
in materia di sviluppo economico da parte dell’ente regionale e dei ceti
produttivi che entrano inevitabilmente in conflitto con quelli statali.
La scelta di strutture amministrative straordinarie e centralizzate, coma nel
caso della Cassa per il Mezzogiorno, e di massicci trasferimenti di capitali
pubblici sottoforma di incentivi sembra non aver favorito lo sviluppo di quel
senso di partecipazione di organizzazione e di progettualità, indispensabile
per qualsiasi tipo di politica di sviluppo economico.
Si tenta di porre rimedio a questa disfunzione limitando la programmazione
agli ambiti settoriali, allargandone l’ambito di decisione alla organizzazioni
degli interessi, si tenta di coinvolgere nella progettazione degli interventi le
esigenze del territorio come espresse dagli enti locali.
Il tentativo di ribaltare la logica della programmazione, che non scende più
dall’alto ma si costituisce a partire dagli enti locali, mette in evidenza il
drammatico stato della pubblica amministrazione, incapace di raccogliere i
bisogni del territorio e di trasferirli in progetti di sviluppo.
Questo modello entra in crisi grazie alle nuove politiche strutturali
intraprese dalla Comunità europea a seguito dell’Atto Unico europeo del
1986 e del Trattato di Maastricht del 1992, in quanto l’esigenza di creare
un mercato unico europeo concorrenziale; l’esigenza di far fronte alla
globalizzazione rilanciando la competitività delle imprese di piccola e media
dimensioni; l’esigenza si evitare che questa politica possa avvantaggiare le
sole zone d’Europa già sviluppate, allungando così il divario con quelle
ancora sottosviluppate, portano l’UE a porre in essere un’apposita politica
di riequilibrio territoriale tra le diverse aree europee. Da subito è forte la
consapevolezza che l’efficacia dei risultati di questa politica è legata ad
una “nuova programmazione” che vede partecipare allo sviluppo
economico tutte le articolazioni istituzionali, ciascuno con propri compiti,
5ma localizzando prevalentemente a livello più basso della catena la
responsabilità di elaborazione degli interventi.
Si tratta di un modello di sviluppo dal basso, cosiddetto “bottom-up”,
incentrato soprattutto sulle piccole e medie imprese, sulla cooperazione
pubblico-privato (attraverso una scelta degli interventi non più unilaterale e
autoritativa ma consensuale, la cosiddetta programmazione negoziata),
sulla concentrazione degli interventi intorno a poche strategie di sviluppo
attraverso strumenti innovativi come i Patti territoriali o i PIT, ma soprattutto
una forte capacità d’azione degli enti locali, che vanno messi in condizione
di poter “leggere” le esigenze di sviluppo del territorio e di poterle
concretizzare con progetti, risorse e strumenti propri. Questa nuova
strategia di sviluppo dal basso, ha portato ad uno sconvolgimento
dell’assetto dei poteri amministrativi che sono stati reimpostati sulla base
del principio di sussidiarietà, ma anche delle modalità di attuazione degli
interventi.
Un’efficiente politica di sviluppo locale richiede un ruolo più attivo degli enti
locali, a cui vanno necessariamente affidate le funzioni in tema di sviluppo
del territorio, ma soprattutto nuove modalità operative che prevedono
strumenti di programmazione per obiettivi.
In effetti il nuovo orientamento verso lo sviluppo locale, sia a livello
comunitario che nazionale, è stato probabilmente la molla scatenante della
profonda trasformazione della Pubblica Amministrazione in Italia negli anni
Novanta.
Infine, in questo periodo il territorio diventa il “soggetto promotore” delle
politiche di programmazione economica dello sviluppo.
Il secondo capitolo “I PIT del Cilento” riguarda l’analisi di tre esperienze di
Progetti Integrati Territoriali nella zona del Cilento. Il PIT in termini generali
viene definito come un complesso di azioni intersettoriali, strettamente
6coerenti e collegate tra di loro, che convergono verso un comune obiettivo
di sviluppo del territorio e giustifichino un approccio attuativo unitario.
Il primo PIT analizzato è il Progetto integrato territoriale Parco Nazionale
del Cilento e Vallo di Diano, la cui idea forza è incentrata sul Programma di
Rete Ecologica che intende interconnettere ed interrelazionare ambito
territoriali dotati di maggiore livello di naturalità e di maggiore integrazione
delle comunità locali con il sistema ambientale al fine di realizzare un
modello di sviluppo locale sostenibile. Questo PIT, attraverso l’assunzione
del tema di Rete Ecologica come contenuto essenziale dell’idea forza, mira
principalmente a migliorare e valorizzare il patrimonio naturalistico e
culturale dell’area, riducendo il degrado/abbandono e accrescendo
l’integrazione con le comunità locali in un’ottica di tutela, sviluppo
sostenibile, migliore fruizione e sviluppo di attività connesse, come fattore
di mobilitazione e stimolo allo sviluppo locale. Inoltre punta anche a
regolare gli usi delle risorse e ad accrescere l’offerta di beni e sevizi
finalizzati alla qualità ambientale e alla corretta fruizione delle risorse, in
un’ottica di promozione dello sviluppo locale.
Il secondo PIT analizzato è il Progetto integrato Piana del Sele, PIT
promosso dalla Provincia di Salerno, la cui idea forza è la riqualificazione
ambientale e valorizzazione turistica della fascia costiera litoranea a Sud di
Salerno finalizzata a favorire uno sviluppo delle attività turistiche e dei
servizi complementari compatibili con le qualità ambientali presenti,
puntando sulla creazione di un Polo del Turismo e del Benessere, dello
Sport e del tempo libero.
Il terzo PIT analizzato è il Progetto integrato Paestum Velia, la cui idea
forza è quella di conferire ai centri di Ascea e di Capaccio una funzione
Turistico-culturale nella provincia di Salerno. Questo Progetto integrato
intende realizzare la risorsa culturale quale motore di uno sviluppo che
7vede il territorio come vero e proprio bene produttivo, in un processo di
crescita culturale, scientifica ed economica.
Tutti e tre i PIT hanno in comune un obiettivo che è quello di innescare un
processo di sviluppo sostenibile del territorio ed autopropulsivo.
8CAPITOLO 1
GLI INTERVENTI TERRITORIALI
1.1 Dalla Cassa per il Mezzogiorno ai nuovi interventi per il
sostegno e lo sviluppo
L’intervento straordinario nel Mezzogiorno si inserisce in una più generale
programmazione centralizzata: lo Stato centrale, oltre a determinare l’entità
delle risorse da destinare all’intervento pubblico, ne definisce scelte,
finalità, modalità, caratteristiche, entità e dislocazioni sul territorio.
Nell’immediato dopoguerra il divario Nord-Sud era notevolmente
aumentato.
Fu concepita da autorevoli studiosi un intervento straordinario al fine di
promuovere lo sviluppo dell’economia del meridione.1
La legge n. 646 del 10 agosto 1950 istituì la Cassa per opere straordinarie
di pubblico interesse nell’Italia meridionale ed insulare, comunemente
chiamata Cassa per il Mezzogiorno.
La Cassa rappresenta il principale strumento attraverso il quale lo Stato ha
inteso colmare il differenziale di sviluppo esistenti tra le regioni del
Mezzogiorno ed il resto del Paese.2
I tratti caratterizzanti questo intervento straordinario furono:
• L’unitarietà dell’azione sotto il profilo della responsabilità,
dell’esecuzione e amministrazione degli interventi;
• La loro intersettorialità, il loro coordinamento con gli interventi rimasti
nelle competenze delle amministrazioni ordinarie;
1 Studiosi come Domenico Menichella e Pasquale Saraceno.
2
In termini di consumi, PIL, dotazione infrastrutturale.
9• La loro concentrazione nei territori nei quali sarebbero stati in grado
di creare le condizioni per lo sviluppo delle attività competitive;
• Il finanziamento degli interventi su base pluriennale gestite con
bilancio autonomo dell’Ente;3
• Infine l’utilizzo da parte della Cassa di risorse aggiuntive finalizzate,
in via straordinaria, al superamento del divario Nord-Sud, avrebbe
consentito di colmare quelle lacune che l’intervento ordinario dello
Stato4 non era riuscito ad eliminare.
Nel primo decennio dell’attività dell’Ente l’azione della Cassa fu volta
essenzialmente all’agricoltura e ad opere di infrastrutturazione del territorio
nel contesto di un piano generale5, il quale includeva interventi inerenti a:
1. complessi organici di opere inerenti alla sistemazione di bacini
montani e dei relativi corsi d’acqua;
2. bonifica, irrigazione, e trasformazione agraria, anche in
dipendenza dei programmi di riforma fondiaria;
3. viabilità fondiaria non statale;
4. acquedotti e fognature;
5. impianti per la valorizzazione di prodotti agricoli;
6. opere di interesse turistico.
Questi interventi vengono considerati “precondizioni dello sviluppo”, nel
senso che creano le condizioni perché il territorio meridionale, grazie
all’infrastrutturazione, alla disponibilità di forza lavoro e all’aumento dei
redditi, possa inserirsi nel mercato nazionale ed europeo attraendo
investimenti non solo dall’interno ma soprattutto dall’esterno.6
Una politica di creazione di infrastrutture, di cui il Mezzogiorno aveva un
indubbio bisogno, avveniva a scapito di un intervento diretto a favore
dell’industrializzazione diversamente da quello che avveniva nel resto del
3 L’Ente era strutturato come ente pubblico economico quindi dotato di una propria autonomia giuridica.
4 Che operava sulla base del principio di una indifferenziata ripartizione delle risorse su tutto il territorio nazionale.
5 Art. 1 della Legge n. 646/50.
6 P. Bevilacqua, Breve storia del Mezzogiorno, Donzelli , 1993.
10
Paese. Fu avviata una politica di incentivi che consisteva in un insieme di
agevolazioni dirette a ridurre il costo d’impianto ed il costo d’esercizio.
Solo a partire dal 1957 l’industrializzazione divenne un obiettivo delle
Cassa. Ci fu una svolta con la legge 634/57 che ampliò i compito della
Cassa spostando l’attenzione dall’infrastrutturazione, che caratterizzò un
primo periodo, allo sviluppo vero e proprio, concentrando le risorse
finanziarie sull’incentivazione alle imprese7 e sulla creazione di strutture
per la formazione professionale.
Infatti, a partire dal 1957 venne autorizzata la costituzione di consorzi fra
enti locali per la creazione e la gestione di «aree di sviluppo industriale»,
oppure dove le opportunità locali apparivano più limitate, l’istituzione di
ristretti «nuclei di sviluppo». Si posero così le basi per i futuri «distretti
industriali».
Nonostante il nuovo compito che le venne affidata, la Cassa negli anni
sembrava perdere ormai efficacia.
Negli anni settanta ci furono cambiamenti di natura istituzionale che
appesantirono il governo della Cassa. Con la legge 2 maggio 1976 n. 183
entrarono nel processo decisionale del funzionamento della Cassa per il
Mezzogiorno: le Regioni. Sorge un problema di compatibilità tra le
competenze delle Regioni e quelle dell’ente Cassa, che finì per creare una
sovrapposizione di competenze tra questi due organi.
Negli anni ottanta si rafforzò la tendenza al decentramento amministrativo
perdendo l’unitarietà del centro decisionale e coinvolgendo un maggior
numero di soggetti nel processo decisionale.
Infatti, nel 1984 la Cassa per il Mezzogiorno venne soppressa.
Due anni dopo con la legge 64/86 fu riformata l’intera struttura e disciplina
dell’Intervento straordinario, nel tentativo di mantenere in piedi il vecchio
7 Ad esempio, venne stabilito che le amministrazione dello Stato dovesse riservare ad imprese meridionali il 30%
delle forniture loro occorrenti. Alle regioni meridionali doveva essere riservato il 40% degli investimenti eseguiti
dalle amministrazioni.
11
modello centralistico adeguandolo,però, al nuovo contesto economico e
istituzionale con l’introduzione di un nuovo modello di “programmazione a
cascata”, individuati gli obiettivi di carattere generale da parte dell’Ente
centrale8 ne scaturivano gli obiettivi specifici. Si tratta di un modello in cui
un Ente centrale programma e gli enti periferici-locali eseguono, cosiddetto
modello top-down.9
La legge 64/86 oltre ad istituire nuove disposizioni per l’intervento
Straordinario nel Mezzogiorno, istituì anche il Dipartimento per il
Mezzogiorno e l’Agenzia per la Promozione dello sviluppo nel
Mezzogiorno. «Il quadro generale all’interno del quale si muove la nuova
politica meridionalistica è rappresentato dal programma triennale per il
Mezzogiorno, dai suoi aggiornamenti e dai piani annuali di attuazione, che,
di volta in volta, tacciano le linee secondo cui operare nel medio periodo ed
assegnano i relativi stanziamenti».10
Infine, la legge 64/86 ha introdotto l’innovativo strumento della
contrattazione programmata, la quale ha alla base degli accordi tra grossi
gruppi industriali e la Pubblica Amministrazione per la realizzazione di
investimenti in aree del Mezzogiorno.
La contrattazione programmata rappresenta il primo esempio di
“programma di scopo” avente ad oggetto l’assetto del territorio consistente
nella necessità di ridurre gli squilibri territoriali tra le aree del meridione del
nostro Paese oltre che nella esigenza di creare nuovi posti di lavoro.11
Anche il sistema del nuovo intervento straordinario entrò in crisi. Una delle
cause di questa crisi era la mancanza di un efficace coordinamento
dell’intervento ordinario con quello straordinario; questo sarà sempre « un
pesante condizionamento dell’azione meridionalista degli ultimi anni di
intervento straordinario, in quanto lo straordinario finirà con l’essere non
8 Lo Stato o la Cassa.
9 M. Stipo, Programmazione statale e regionale, S. Cafiero, Storia dell’intervento straordinario.
10 E. Calamita, Il nuovo intervento straordinario e il Mezzogiorno.
11 S. Cafiero, Storia dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno.
12
aggiuntivo, come avrebbe dovuto, ma piuttosto sostitutivo di quello
ordinario»12.
Ne seguì un periodo abbastanza lungo di incertezza che va dagli anni
ottanta fino agli inizi degli anni novanta. Nel 1992 con la legge del 19
dicembre n. 488 si pose fine a 40 anni di intervento straordinario; con il
decreto legislativo 96/93 si provvide a delineare la nuova disciplina di
interventi pubblici, non più per il Mezzogiorno ma per le «aree depresse del
territorio nazionale».
Per aree depresse la Comunità Europea individuò destinatarie della
propria politica regionale: le aree Obiettivo 1 che comprendono le aree del
Mezzogiorno quali aree in ritardo strutturale13, e numerose regioni del
Centro-Nord considerate aree di crisi industriale rientranti nell’Obiettivo 2 e
zone rurali in difficoltà Obiettivo 314 che erano localizzate anche esse
nell’Italia settentrionale.
Gli interventi rientrarono sotto la responsabilità di sei ministeri competenti
per settore (Bilancio, Tesoro, Industria, Lavori Pubblici, Ricerca, Funzione
Pubblica) e furono delineati in regime di cofinenziamento con i Fondi
Strutturali della Comunità Europea.
Con la legge 488/92 ed il D.lgs. 96/93 si iniziò ad affrontare quello che era
il vero nodo che l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno aveva evitato di
sciogliere, e cioè la riforma dell’Amministrazione ordinaria nel senso
dell’efficienza come “motore” istituzionale dello sviluppo economico, la
struttura e la risorsa finanziaria dell’amministrazione centrale presentavano
una mancanza di effettività operativa (inefficienza e inefficacia) oltre ad una
concezione ancora troppo centralistico dello sviluppo economico, tutto
questo in contrasto con quanto avveniva a livello europeo dove si era
predisposta una programmazione di interventi finanziabili con fondi europei
12 E. Calamita, Il nuovo intervento straordinario e il Mezzogiorno.
13 Ossia le regioni aventi un PIL pro capite inferiore al 75% della media dell’UE.
14
ex 5b.
13
che attribuivano un ruolo di primo piano agli enti regionali per la
predisposizione di progetti di sviluppo rientranti negli scopi dei suddetti
fondi, per la realizzazione degli investimenti e per la predisposizione di
sistemi di controllo ex ante ed ex post per motivare l’efficacia dei progetti,
lasciando solo un ruolo di assistenza allo Stato. I due cicli di
programmazione dei Fondi Strutturali europei 89-94 e 94/99 hanno
presentato risultati fallimentari,15 in quanto le regioni hanno manifestato
carenti capacità di elaborare progetti di sviluppo, poiché era la direzione
ministeriale a redigere il Programma Operativo e a trasferirlo
successivamente sul territorio.
Gli stessi regolamenti dei Fondi Strutturali avevano delineato, nel 1998, un
iter di questo tipo: gli Enti locali in stretta partnership con imprese e parti
sociali, ipotizzano «dal basso» gli interventi da realizzare sul territorio;
successivamente venivano raccolti dal Governo centrale che provvedeva a
definire una strategia unitaria ad avviare i negoziati con l’Unione; una volta
che tale fase si era conclusa con l’approvazione del Quadro Comunitario di
Sostegno16, l’attuazione delle diverse misure, ma anche le attività di
controllo e monitoraggio, venivano rimandate a livello locale, pur
rimanendo da parte dello Stato membro una responsabilità di carattere
generale su tutto l’insieme di azioni legate al programma.
A fronte di questo sistema fortemente basato sul principio di sussidiarietà, il
sistema italiano presentava forti contrasti con quello comunitario.
Inoltre, in quegli anni venne meno uno dei principi fondanti delle politiche
territoriali comunitarie, cioè l’addizionalità. I fondi europei finirono per
sostituire gli stanziamenti nazionali.
15 A. Predieri, Fondi strutturali e politica di coesione economica e sociale dell’Unione europea, Giuffrè, 1996; M.
Marino, Le Regioni del Mezzogiorno d’Italia e l’integrazione europea nella prospettiva dei nuovi regolamenti dei
fondi strutturali, RGM, 1993 n. 3; R. Sapienza, La politica comunitaria di coesione economica e sociale e il
principio di sussidiarietà, RGM, 1996 n. 2.
16
Il QCS è il documento approvato dalla Commissione europea, d’intesa con lo Stato membro interessato, sulla base
della valutazione del Piano presentato dallo stesso Stato; il quale contiene la fotografia della situazione di partenza,
la strategia, la priorità d’azione, gli obiettivi specifici, la ripartizione delle risorse finanziarie, la condizione di
attuazione.