Dai distretti industriali ai distretti tecnologici e possibili metodologie di identificazione
Nel lavoro è stato trattato il tema dei distretti tecnologici (DT), tema di grande attualità soprattutto all’interno del nostro Paese in cui è presente una ormai nota tradizione relativa ai distretti industriali (DI) che spesso, tuttavia, genera confusione e spinge a relegare i due concetti a fenomeni economici pressoché simili.
E’ chiaro che per poter parlare di distretto tecnologico non si è potuti prescindere dal fare una descrizione della nozione di distretto industriale, soprattutto alla luce del fatto che molti studiosi considerano oggi i DI aree all’interno delle quali può decollare la prima vera spinta propulsiva per l’innovazione.
Innovazione molto cara alla Comunità Europea che a partire dalla Strategia di Lisbona ha voluto promuovere la nascita dei distretti tecnologici all’interno di ogni paese della Comunità Europea al fine di collegare quelli con la stessa vocazione tecnologica e creare delle vere e proprie Piattaforme Tecnologiche Europee (PTE). Costituite quindi sulla base dei distretti industriali e come loro ideale prolungamento, esse mettono insieme l’esperienza di tale forma organizzativa con l’idea della promozione di ricerca industriale proveniente anche “da altro” che i distretti industriali non erano mai stati in grado di fornire.
Il punto di svolta risiede pertanto nella ricerca industriale “proveniente da altro”. Essa, che deve trovare il suo input nella spinta e nella direzione che le dà il Governo di un singolo paese, deve quindi essere fatta propria dai centri di ricerca e dalle università e tramite questi essere recepita dalle imprese che devono produrre output innovativo.
L’innovazione quindi, oltrepassando i confini ristretti dell’impresa, spingendosi nell’arena politica e diventando uno strumento a disposizione dei Governi che, con essa, possono manovrare e monitorare il sistema industriale, è diventata fondamentale nello scenario globale ed in particolare nel contesto europeo. Diventa pertanto indispensabile riuscire a misurare l’impatto che essa produce su un sistema economico. A fronte però di una copiosa letteratura che analizza il fenomeno dell’innovazione e della sua importanza all’interno dello sviluppo di un sistema, risultano scarsi i tentativi di predisposizione di metodologie attraverso cui riuscire ad misurarla. Dopo aver descritto gli indicatori stabiliti dalla Comunità Europea l’European Innovation Scoreboards (EIS) e l’Innovation Union Scoreboards (IUS), l’attenzione si è focalizzata sulla normativa italiana e sugli interventi promossi in favore delle Piattaforme Tecnologiche Europee a livello nazionale.
Ricostruendo la logica che ha portato all’individuazione dei distretti tecnologici sulla penisola, intesi, questi ultimi, come massima espressione della capacità delle singole regioni di incentivare la Ricerca e lo Sviluppo nell’ottica delle Strategia di Lisbona, è emersa come positiva la scelta di delocalizzare le strategie di intervento presso soggetti istituzionali in possesso di una maggiore conoscenza della filiera produttiva e delle relative specificità territoriali, ma assolutamente negativa la mancanza di omogeneizzazione dei criteri per l’identificazione dei distretti stessi (così come avvenne con il Decreto Guarino per i DI). Il contenuto effettivo che risiede sotto l’appellativo di DT, pertanto, spesso dipende dal significato che gli attori promotori hanno scelto di dargli ed è per questo che spesso ci si trova di fronte a distretti auto-dichiarati che nel complesso corrispondono a realtà molto differenti l’una dall’altra.
Ciò che bisogna fare è in primo luogo valutare le potenzialità hi-tech dei singoli contesti locali e quindi le potenzialità innovative degli stessi. Appurato che gli indicatori delle metodologie predisposte dalla Comunità Europea per la misura dell’innovazione (EIS e IUS, e quindi il RIS - Regional Innovation Scoreboards - che elimina alcuni indicatori presenti nell’EIS per meglio adattarli ai contesti locali) mal si applicano al contesto italiano, sono state esposte due metodologie, Miceli (2010) e Lazzeroni (2004), elaborate ad hoc per il sistema italiano.
Entrambe cercano di misurare attraverso alcuni indicatori la capacità di ogni regione italiana di costituirsi come un come sistema caratterizzato dalla presenza di una serie di attori (università, centri di ricerca) che interagendo tra loro sono in grado di finanziare l’innovazione.
La differenza tra le due metodologie, risiede nel fatto che mentre la metodologia Miceli analizza i distretti tecnologici creati in seguito alla normativa favorevole all’interno delle regioni, la metodologia Lazzeroni si propone di analizzare effettivamente il tessuto economico delle regioni per ricercare la specializzazione high-tech più rilevante e per farlo utilizza come unità elementare il SLL, ovvero la più piccola unità rilevante ai fini dell’analisi.
Entrambe le metodologie sono state applicate quindi al contesto Lucano.
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Informazioni tesi
Autore: | Donatella Dores |
Tipo: | Laurea II ciclo (magistrale o specialistica) |
Anno: | 2009-10 |
Università: | Università degli studi di Napoli "Parthenope" |
Facoltà: | Economia |
Corso: | Scienze economico-aziendali |
Relatore: | Tiziana Laureti |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 229 |
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