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Introduzione
Lo sviluppo locale rappresenta un tema di primo piano nelle agende
programmatiche dei governi al fine di rafforzare la competitività dei sistemi
territoriali. L‟efficacia delle politiche si fonda su obiettivi di lungo periodo e
sull‟integrazione di diverse iniziative a favore dello sviluppo economico,
dell‟inclusione sociale e della tutela ambientale. In questo quadro la definizione di
obiettivi e strategie integrate non può che fondarsi sulla sinergia tra le diverse
iniziative attuate sul territorio, dando vita a buone prassi di sviluppo locale
esportabili anche in contesti differenti e più ampi.
La statistica si pone alla base di ogni programmazione politica soprattutto in
un‟epoca in cui le società sono caratterizzate da un altissimo grado di
differenziazione: nell‟attuazione di programmi, nel momento in cui i Governi si
trovano a dover gestire tale complessità, non si può prescindere da una attenta
lettura dei contesti e delle situazioni di partenza in modo da poter più attentamente
definire le situazioni di arrivo, ovvero i traguardi attesi, in seguito all‟applicazione
delle politiche.
In Italia, il livello territoriale nel quale pur tra grandi diversità e difficoltà si
manifesta la capacità di promuovere politiche dell‟innovazione efficaci tali da
poter incidere significativamente a livello nazionale, è rappresentato dalle regioni.
In tal senso l‟obiettivo del seguente lavoro è da un lato quello di cercare di
misurare le condizioni di innovatività della Regione Basilicata in modo da far
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risaltare l‟eventuale incidenza che esse potrebbero avere per il futuro sviluppo
della regione e dall‟altro di verificare la coerenza delle politiche di sostegno
all‟innovazione avviate nella stessa Regione all‟indomani del Programma
Nazionale della Ricerca 2005-2007. Tale programma, sancendo il riconoscimento
dei distretti tecnologici nella nostra Penisola anche sulla spinta propulsiva
proveniente da parte della Comunità Europea, ha portato alla costituzione,
all‟interno della Regione, del distretto tecnologico TeRN.
Per ricostruire il quadro giuridico, politico ed economico che ha portato la
regione Basilicata a stipulare con il Ministero dell‟Istruzione, dell‟Università e
della Ricerca il Protocollo di intesa per la creazione di tale distretto, il lavoro si è
articolato in diverse fasi.
Dopo aver tratteggiato la nozione di distretto industriale e aver sintetizzato
l‟importanza che il concetto relativo alle agglomerazioni territoriali di imprese ha
assunto nel tempo, si è descritto il passaggio concettuale dal distretto industriale al
distretto tecnologico, sottolineando l‟importanza dei distretti industriali come
possibili sistemi locali dell‟innovazione.
La descrizione di tale processo ha messo in evidenza le caratteristiche salienti
di un distretto tecnologico e ha reso visibili le differenze che lo hanno
contraddistinto dal più datato concetto di distretto industriale.
L‟esame del modello relativo al distretto tecnologico ha portato alla
individuazione di diversi schemi concettuali necessari per interpretare
correttamente il modello stesso. Dopo aver analizzato la filiera dell‟innovazione e
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della conoscenza sono stati descritti il meta-modello della Tripla Elica e il
Quadrante Stokes: il primo che schematizza la complessa rete di soggetti che
opera all‟interno di un sistema innovativo – Governo, Università e Imprese - si
articola in tre sotto-modelli di sviluppo socio economico basato sulla ricerca
scientifica e sull‟innovazione tecnologica; il secondo è una tassonomia delle
diverse attività di ricerca.
Prendendo le mosse dagli orientamenti emersi in sede comunitaria con la
Strategia di Lisbona, si è descritto quindi il percorso innovativo che ha portato alla
nascita dei distretti tecnologici. Dopo aver affrontato il tema delle Piattaforme
Tecnologiche Europee e quello relativo all‟importanza della misurazione
dell‟innovazione tecnologica attraverso la descrizione degli indicatori stabiliti
dalla Comunità Europea, l‟European Innovation Scoreboards (EIS) e l‟Innovation
Union Scoreboards (IUS), l‟attenzione si è focalizzata sulla normativa italiana e
sugli interventi promossi a livello nazionale in favore delle Piattaforme
Tecnologiche Europee.
Si è cercato di ricostruire pertanto la logica che ha portato all‟individuazione
dei distretti tecnologici sulla penisola, intesi, questi ultimi, come espressione
massima della capacità delle regioni di incentivare la Ricerca e lo Sviluppo
nell‟ottica della Strategia di Lisbona.
Sono state quindi trattate le problematiche relative alla misurazione
dell‟innovazione a livello regionale e all‟inadeguatezza degli indicatori
predisposti dalla Comunità Europea che però sono stati presi come punto di
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riferimento per lo sviluppo di due metodologie : la metodologia Miceli (2010) e la
metodologia Lazzeroni (2004).
Attraverso esse e in conclusione della panoramica sul contesto italiano, si è
cercato di spiegare il carattere dell‟autoreferenzialità di cui spesso si sono avvalsi
i distretti tecnologici in mancanza di una ufficiale metodologia che ne sancisse
effettivamente l‟esistenza.
Infine, esse sono state applicate al contesto regionale Lucano al fine di:
- verificare attraverso la metodologia Miceli, se il distretto tecnologico TeRN è
coerente con la reale vocazione tecnologica della regione e se la stessa
possiede al suo interno i giusti strumenti perché esso possa sopravvivere;
- individuare attraverso la metodologia Lazzeroni l‟eventuale specializzazione
high-tech della Basilicata attraverso una procedura che considera diversi
livelli di unità elementare di analisi, Sistemi Locali del Lavoro, Province e
Regioni.
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CAPITOLO I
Definizione e contributi alla concettualizzazione
del distretto industriale
1.1 Dall’intuizione di Marshall alla rilettura di Becattini: i
punti di partenza nell’analisi distrettuale.
Nel XIX secolo l‟economista Alfred Marshall nel X capitolo del IV libro
intitolato “La concentrazione di industrie specializzate in località particolari” del
suo lavoro Principles of Economics, con riferimento alle zone tessili di Lancashire
e Sheffield, introduceva il concetto di distretto industriale descrivendolo come una
“entità socioeconomica costituita da un insieme di imprese, facenti generalmente
parte di uno stesso settore produttivo, localizzato in un‟area circoscritta, tra le
quali vi è collaborazione ma anche concorrenza”(Marshall, 1890).
Il termine distretto in realtà era inizialmente utilizzato con accezione
puramente descrittiva, infatti nell‟Inghilterra del XIX secolo come pure in altri
paesi anglofoni, Stati Uniti e Canada, il termine era entrato nel gergo corrente per
indicare un‟area geografica in cui erano presenti raggruppamenti di attività
industriali o professionali della stessa specie.
Pochi anni prima infatti l‟economista irlandese William Hearn in “Plutology.
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Theory of the Efforts to Satisfy Human Wants” (1863), parlando di organizzazione
industriale, descriveva dettagliatamente aree di Londra in cui erano visibili
agglomerazioni di attività delle più svariate specie
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identificandole come distretti e
individuando infine la causa di questa “distrettualizzazione” nell‟economia dei
costi di produzione.
Tuttavia, se il termine distretto è legato alla pura descrizione di una peculiare
realtà industriale presente nell‟Inghilterra del XIX secolo, la definizione che di
esso Marshall propone mette in evidenza alcuni elementi particolari:
anzitutto la presenza di una realtà sicuramente economica ma legata
necessariamente ad una più profonda realtà sociale;
la settorializzazione, ovvero la specializzazione nella produzione di
una stessa categoria di prodotti;
la concentrazione in un‟area geografica ben definita;
il rapporto di concorrenza e allo stesso tempo di collaborazione tra le
imprese.
E‟ evidente che il punto di forza dell‟analisi di Marshall risiede nel concetto
di localizzazione. Essa è legata prima di tutto a condizioni fisiche ovvero
all‟esigenza dei produttori di essere vicini a risorse naturali e poi alla presenza, in
prossimità dell‟area oggetto di localizzazione, di una città in cui poter
commerciare il bene prodotto e infine alla vicinanza di un mercato. Per parlare di
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In Companion to the Almanac del 1855, Hearn cita una serie di attività che raccolgono svariati gruppi di
persone e che spaziano da avvocati a sarti, da editori a calzolai e così via.
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distretto però la semplice localizzazione non basta, è infatti necessario che essa
perduri da tempo in modo tale che vengano a crearsi alcuni vantaggi che lo
studioso sintetizza con il concetto di atmosfera e che nello specifico è verificata
attraverso la compresenza dei seguenti elementi (Becattini, 2000):
i. specializzazioni ereditarie;
ii. industrie sussidiarie;
iii. macchinari altamente specializzati;
iv. mercato locale per lavoro specializzato.
In tale atmosfera industriale permeata di competenza, abitudini di lavoro,
spirito di imprenditorialità, i “misteri dell‟industria non sono più tali: è come se
fossero nell‟aria, i fanciulli ne apprendono molti senza accorgersene” (Marshall,
1890) e la vitalità che circola all‟interno dell‟area permette ai distretti di poter
competere con le grandi industrie.
Vitalità che si esplica e si determina nei punti di forza di un distretto
industriale. In primo luogo la presenza di economie esterne: è noto che le
economie interne dipendono dalle risorse delle singole imprese, dalla loro
organizzazione e dall'efficienza della loro amministrazione, ma sono le economie
esterne che, dipendendo dallo sviluppo generale dell‟industria e sostanziandosi in
una universale diffusione e crescita della conoscenza, possono essere definite
vere e proprie forze inter-industriali il cui capitale generato si distribuisce tra le
imprese.
E‟ tuttavia importante sottolineare che la relazione tra economie interne ed
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economie esterne non si esaurisce nell‟importanza di queste allora sconosciute
nuove forze propulsive ma è alla base di successivi studi di stampo aziendale che
analizzano le imprese appartenenti al distretto su un duplice livello. Se da un lato
bisogna infatti valutare le performance di un distretto nel suo complesso è altresì
fondamentale valutare le performance di ogni singola impresa distrettuale, le
relative strategie adottate piuttosto che i vari percorsi di sviluppo. In effetti
secondo questa prospettiva non è il distretto in senso stretto a cambiare, ma sono
le singole imprese che potendo attuare eterogenei percorsi di sviluppo e diverse
formule imprenditoriali riescono ad evolversi e a rispondere adeguatamente alle
sfide ambientali. Questo aspetto è stato analizzato in tempi recenti da diversi
autori (Varaldo e Ferrucci, 1997; Iannuzzi 2007), ma uno dei contributi più
significativi è stato fornito da Visconti tramite lo sviluppo di una matrice a due
variabili.
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Figura 1.1 – Classificazione delle imprese distrettuali
Attraverso tale matrice lo studioso riesce ad attuare una classificazione per le
imprese appartenenti all‟interno del distretto. In particolare egli le distingue tra
impresa guida, impresa specializzata, impresa trainante e impresa bloccata
2
.
Strettamente legato alle economie esterne in quanto forze propulsive in grado
di stimolare l‟apprendimento tra le imprese è il secondo elemento di forza di un
distretto Marshalliano ovvero la diffusione e la promozione dello sviluppo della
conoscenza e, quindi, la più importante circolazione di idee che tramite essa
avviene: i lavoratori che si dedicano allo stesso tipo di produzione si educano gli
uni con gli altri e le abilità richieste sono più facilmente apprendibili. Il processo
di accumulazione della conoscenza permette al distretto di rispondere molto più
2
Tale studio è volto a dimostrare come ad input uguali le imprese del distretto possono comunque rispondere
in maniera differente scegliendo ognuna il percorso strategico adeguato alla propria condizione di partenza e
che, quindi la comprensione del distretto deve necessariamente passare attraverso l‟analisi delle singole unità,
unica metodologia per comprenderne la crescita o l‟eventuale involuzione di un distretto.
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attivamente ai cambiamenti che sulle imprese distrettualizzate risultano avere un
impatto meno negativo anche grazie all‟innovazione, terzo punto di forza di un
distretto e che, in un ambiente in cui i lavoratori si dedicano alla medesima
produzione e in cui sono necessariamente favoriti i rapporti umani, attraverso lo
scambio di idee che tra essi avviene e gli stimoli dati dai continui confronti, deve
necessariamente crearsi.
In tempi recenti alcuni studiosi per comprendere quale sia il ruolo della
formazione e delle modalità attraverso cui i vari attori riescono a valorizzare
l‟efficacia dei propri interventi hanno ripreso questo importante aspetto della
distrettualità analizzando le dinamiche di apprendimento che si instaurano tra le
imprese (Antoldi,2006). E‟ chiaro che a questo tipo di analisi è strettamente
collegato il ruolo della struttura sociale presente nel distretto e del capitale ad essa
connesso, struttura sociale formata da persone che condividono credi e valori
comuni e che gli conferiscono una forte identità storica e socio-culturale facendo
si che ad aspetti tipicamente economici, quale ad esempio la divisione
interaziendale del lavoro, siano imprescindibilmente legati atteggiamenti sociali e
culturali che circolano nella comunità di imprese e persone, nella maggior parte
dei casi legate da rapporti di amicizia o meglio ancora di parentela, e che riescono
a limitare il rischio legato all‟incertezza e ad ostacolare comportamenti
opportunistici, incentivando la fiducia e creando il giusto ambiente lavorativo.
E‟ intuibile a questo punto come l‟ambiente che si respira all‟interno di un
distretto industriale sia fortemente dicotomico (Sforzi, 2008): da un lato si assiste
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a processi competitivi che animano le imprese che svolgono ognuna una
specializzazione differente all‟interno del processo produttivo, dall‟altro lato
invece, poiché nessuna fase del processo produttivo è isolata ma anzi funzionale a
tutte le altre , si creano rapporti di tipo cooperativo in cui tra le imprese e le parti
che la compongono avviene un continuo interscambio
3
.
Lo studio di Marshall sulla teoria embrionale alla base dei distretti industriali
fu in parte trascurato negli anni a seguire dagli studiosi che, interessati a risolvere
più il problema della localizzazione attraverso la ricerca di fattori universalmente
validi (Becattini, 2000) alla base della decisione di ubicare un dato stabilimento in
una determinata zona, trascurarono non solo l‟importanza delle economie esterne
ma videro nel distretto soltanto un agglomerato di imprese con la capacità, a lungo
termine, di creare spillover tecnologici
4
. L‟errore comune consistette nel
considerare come unità di analisi l‟impresa e non l‟industria mentre in Marshall
queste sono inseparabili fino al punto di poter considerare l‟industria non solo
come il centro in cui vivono le imprese singole ma come condizione necessaria
perché esse possano sopravvivere (Bruguier e Pacini, 1953).
Un‟area formata da
piccole imprese indipendenti e specializzate in fasi del processo e da un
raggruppamento umano con la compresenza di un‟industria si differenzia
3
E‟ importante sottolineare che tale collaborazione avviene sempre, sia in modo consapevole e volontario sia
in maniera inconsapevole e automatica, ed è proprio quest‟ultimo tipo di collaborazione spontanea che risulta
essere più efficiente poiché rimane nel pieno rispetto “sia della visione dell‟uomo come animale sociale, sia
della libertà”.
4
Gli spillover possono assumere varie forme. La conoscenza può essere incorporata nelle persone che,
cambiando occupazione, trasferiscono importanti abilità e informazioni al nuovo datore di lavoro, oppure nei
prodotti (beni d‟investimento o i beni intermedi). Essi possono trasmettersi attraverso conferenze, stampa
specializzata o tramite processi di reverse engeneering. Nella fattispecie, si tratta di spillover di conoscenza
(knowledge spillover) correlati soprattutto con i flussi commerciali – tra imprese, settori o paesi - e sono una
esternalità pura che deriva direttamente dalle caratteristiche di non rivalità e non escludibilità della
tecnologia.
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notevolmente da un semplice “polo industriale”
5
.
Mentre la maggior parte degli studiosi, quindi, analizzando tali agglomerati
di imprese, cercava delle semplici conferme alle proprie convinzioni scientifiche o
comunque alle teorie economiche già note, l‟economista italiano, Giacomo
Becattini, con il suo lavoro “Dal settore industriale al distretto industriale”
accendeva l‟interesse per queste comunità locali, specializzate nel modo di
organizzare la produzione di una determinata categoria di beni. Come alcuni
autori sottolineano, Becattini, con la “vista educata dalla conoscenza della
filosofia sociale e del metodo scientifico
6
di Marshall”(Sforzi, 2001) analizza più
accuratamente il lavoro Marshalliano: “seguire le vicende di un gruppo di operai
specializzati che si sono raccolti in un determinato luogo” , “grandi sono i
vantaggi che le persone addette allo stesso mestiere specializzato traggono dalla
reciproca vicinanza”(Marshall, 1890) non sono più concetti che possono passare
inosservati ma è fondamentale che si riescano a esplicare le ricadute che tali
fattori hanno sull‟organizzazione industriale e sui cambiamenti che possono
venire a formarsi nel luogo in cui si verificano.
Erroneamente a quanto si possa pensare (Sforzi, 2008), inizialmente lo
5
Volendo dare una definizione semplificata di polo industriale si può asserire che esso è un semplice
consorzio di più imprese operanti nello stesso settore.
6
A lungo diversi autori hanno cercato di delineare i tratti della Filosofia sociale e del Metodo scientifico
Marshalliano. In realtà i due concetti si compenetrano. Asserendo che il lavoro non è soltanto merce ma è
l‟essenza stessa della vita e che non deve annientare il soggetto che lo svolge, egli arriva ad una Società di
mercato che conserva tutta “l‟elasticità e la libertà individuale e in cui la concorrenza è depurata di quelle
degenerazioni che opprimono l‟uomo.” Il metodo scientifico deve sfruttare ogni “apertura” del modello
matematico, per inserirvi quegli aspetti dell‟attività umana che sfuggono alla teoria “statica”, senza mai
entrare in conflitto formale col metodo deduttivo-astratto.Un metodo così delineato oltre a presentare
necessariamente una struttura logica compatta che debba darne valore cerca di cogliere anche gli aspetti
qualitativi legati alla vita, notoriamente di difficile misurazione.
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studioso si avvicina ai distretti industriali non per spiegare il tessuto industriale
italiano ma per affrontare il tema concernente il legame tra industria e teoria del
valore
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e abbandonando il metodo puramente scientifico si concentra sullo studio
della filosofia sociale evincendo che il fulcro della stessa risiede nel modo in cui
Marshall considera il lavoro che non è merce o mezzo di esistenza ma è la vita
stessa e che quindi l‟economia è più importante come parte dello studio della
società piuttosto che come studio della ricchezza. Ciò permise a Becattini di
distaccarsi dal concetto di localizzazione dell‟impresa e di concentrazione
dell‟industria sul territorio e di spiegare l‟organizzazione industriale attraverso la
comunità locale.
Tuttavia se da un lato i precedenti studiosi erano rimasti ancorati a verifiche
empiriche che ipotizzavano e quindi spiegavano una serie di risultati, dalle analisi
di Becattini emergeva una conclusione puramente teorica ed in quel momento non
ancora verificata la cui generalizzazione doveva essere necessariamente legata a
risposte induttive nella realtà.
E‟ analizzando alcune comunità locali della Toscana
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che Becattini constatò
che quelle che secondo la tradizionale teoria della localizzazione venivano
classificate come agglomerazioni di imprese o cluster, secondo l‟approccio
7
Nel fornire termini e strumenti ausiliari del pensiero economico, Marshall introduce la nozione di
«elasticità». L‟elasticità della domanda, rappresenta un concetto attraverso cui spiegare la teoria del valore e
della distribuzione La nozione che la domanda può rispondere a una variazione di prezzo in una misura più o
meno che proporzionale era già ben nota fin dai primi anni del XIX per spiegare il rapporto tra offerta e
prezzo del grano, tuttavia la completa teorizzazione secondo cui e = (dy/dx)(x/y) la si deve a Marshall.
8
Becattini osservando alcune comunità locali della Toscana, Poggibonsi per i mobili, piuttosto che Prato con
i prodotti tessili o ancora Santa Croce sull‟Arno con i prodotti in pelle, si focalizzò sul loro modo di
organizzare una particolare classe di beni non solo per soddisfare ma anche per orientare i bisogni di
mercato.
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distrettuale erano classificate come comunità industriali e il distretto era quindi
più che adeguato a spiegare una particolare organizzazione economica.
La teoria economica però ancora non riusciva ad allontanarsi da una
descrizione del mondo in cui il fordismo aveva generato fiducia nelle economie di
scala, nel gigantismo e nella grande dimensione e in cui a farla da padrone erano
concorrenza perfetta e rendimenti di scala costanti ed è sempre la teoria
economica che relegava il distretto industriale a fenomeno descrittivo di una realtà
squisitamente italiana e costruito ad hoc per spiegare la strada
dell‟industrializzazione del Paese. Solo in tempi relativamente recenti alcuni studi
hanno dimostrato che il distretto industriale può essere considerato come forma
organizzativa alternativa al modello della grande impresa integrata in cui la
divisione del lavoro, anziché avvenire all‟interno della stessa, avviene tra imprese
in strettissima prossimità geografica, ognuna specializzata in una specifica fase
produttiva, specializzazione che assieme alla flessibilità assicura una risposta,
supportata dalla circolazione di informazione che crea vantaggio per le imprese
distrettualizzate e fa da barriera ai concorrenti esterni, più tempestiva agli
eventuali cambiamenti della domanda
9
.
1.2 Un passo indietro: l’importanza della concentrazione
spaziale e della localizzazione produttiva. Verso il riconoscimento
9
Una visione di questo tipo pone il distretto come intermedio tra mercato e gerarchia: i mercati non sempre
riescono a funzionare perfettamente ed è possibile che la formazione dei prezzi attraverso la dinamica della
domanda e dell‟offerta possa essere inficiata dal rischio di comportamenti opportunistici che innalzerebbero i
costi di transazione rendendo inevitabile il ricorso degli attori alla gerarchia attraverso cui internalizzare tutte
le attivittà esternalizzabili. I distretti attraverso le economie esterne possono bilanciare l‟inefficienza della
piccola dimensione e ridurre il rischio di comportamenti opportunistici attaraverso la fiducia che circola tra
gli attori riuscendo a mantenere i vantaggi della gerarchia e quelli propri della flessibilità di mercato.
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del distretto industriale
Dopo che Becattini ebbe riacceso l‟interesse per gli studi di Marshall sui
distretti industriali molti economisti riscoprirono l‟importanza delle
agglomerazioni territoriali come fenomeni che andavano studiati in maniera meno
superficiale rispetto a quanto era stato fatto e a tal proposito numerosi furono i
contributi che si susseguirono da quel momento.
Negli anni Novanta infatti, a causa di notevoli mutamenti avvenuti nella
realtà economica internazionale, primi fra tutti la sempre crescente produzione di
manufatti all‟interno di un ristretto numero di città e regioni e la localizzazione di
imprese appartenenti ad uno stesso settore in prossimità le une delle altre, si
spostò il fulcro dell‟analisi economica sulla dimensione spaziale dello sviluppo e
della crescita e questo soprattutto perché si constatò come i citati fenomeni una
volta avviati fossero cumulativi.
In realtà per comprendere perché la concentrazione spaziale e la
localizzazione produttiva abbiano con il tempo assunto una notevole importanza è
utile fare un passo indietro ed effettuare un breve excursus tra le teorie
economiche che si sono succedute, a partire dalla teoria neoclassica della crescita.
1.2.1 Dalle teorie neoclassiche alle teorie della polarizzazione e
dello sviluppo squilibrato
In prima approssimazione secondo la scuola neoclassica l‟azione dei mercati
crea una crescita economica equilibrata sul territorio. Tale assunzione è