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L'accoglimento del caso ovvero la piega

Approfittando del legame concettuale che lega l’azione del caso con il fare fotografico e considerando tale trattazione profondamente collegata alla mia tesi precedente , intendo da qui partire per dipanare i fili di un discorso sull’arte del ricevere il circostante nel suo dispiegarsi eventuale. La piega e l’evento saranno dunque i due termini principali su cui verterà questo mio secondo lavoro sull’arte contemporanea.
Accogliere pienamente il fuori, ciò che rappresenta l’imprevedibile in senso lato, significa assumerne il punto di vista, ovvero non pretendere di abbracciare l’interezza della realtà che ci circonda, ma lasciarsene attorniare senza condurne per forza ad unione gli aspetti frammentari. Tale atteggiamento è tipico della fotografia, che accetta senza commento sia di prelevare pezzi di mondo in modo limitato, sia di renderne evidenti i meccanismi aleatori, grazie alle sue caratteristiche concettuali.
Dando un nome alle cose noi contribuiamo a conferire loro un senso unitario, sebbene ciò vada a discapito di una perdita di altre informazioni che esse trattengono entro di sé, perché la cosa che si lascia osservare e nominare, prelevare anche, potrebbe conservare nel tempo aspetti e legami insoliti ed extra-ordinari con una realtà che resta comunque al di fuori di noi stessi.
All’origine della lingua giapponese, ad esempio, non esistevano né il termine “natura” né tanto meno “arte”, poiché nominare un fenomeno significava circoscriverlo portando l’anima a dissociarsene, non riuscendo così a trasmettere un canto spontaneo all’unisono col mondo.
Lo statuto semiologico di indice o traccia tipico dell’immagine fotografica , invece, permette un contatto silente, “armonico” col mondo, con ciò riferendomi alla definizione di armonia “muta” che dà Leibniz per bocca di Deleuze nel saggio “La piega”. Il filosofo secentesco considera infatti il canto dell’anima come “una scrittura verticale, che esprime la linea orizzontale del mondo: il mondo è come una partitura musicale che si segue cantando in maniera sequenziale o orizzontale, ma l’anima canta da sé, poiché tutto lo spartito è stato impresso in essa verticalmente […] le “forme” verticali assolute rimangono senza comunicazione, e non si passa dall’una all’altra per contiguità […] Leibniz parla dunque di un concerto in cui due monadi cantano ciascuna la propria partitura senza conoscere o sentire quella dell’altra, e tuttavia si accordano alla perfezione” . E l’assenza di parole che accompagna questa immagine del mondo si accorda all’immagine fotografica come registrazione e documento del mondo stesso, perché “il genere documentario sembra innescare un desiderio di informazione che il mutismo della fotografia non può soddisfare. E’ a questa doppia sensazione di desiderio e di insufficienza, parte integrante dell’esperienza fotografica, che rimanda Walter Benjamin quando parla della didascalia come ‘segnaletica’ resasi necessaria per questa lacuna intrinseca al mezzo. […] Nella misura in cui la fotografia cattura un pezzo di mondo, lo fa in blocco e rinvia così il processo dell’elaborazione del senso verso il supplemento costituito dalla didascalia scritta” . Lungi dal raggiungere un’unità semantica con l’immagine, la didascalia però le si accosta in maniera dialogica, moltiplicandone i possibili sensi anziché spiegarla in maniera univoca. I due campi rimangono totalmente indipendenti l’uno dall’altro e la loro autonomia non fa che accrescere il loro senso di presenza e di fattualità, nonostante o proprio grazie alla loro stessa natura frammentaria. In questo senso Krauss descrive il campo fotografico come la dimensione del non simbolico o preverbale, in cui il soggetto, “investito di immediatezza corporea molto forte, si proietta al tempo stesso verso l’esterno in immagini speculari. Tuttavia queste immagini, che sono distinte dal corpo ed esistono all’esterno in uno spazio visivo, restano, malgrado tutto, identificate con lui. A causa di questa confusione, l’abitante dell’immaginario non ha identità univoca od orientata intorno a un punto focale unico, perché la sua identità è simultaneamente costruita da se stesso e da un altro. Si dà così libero corso a questa prospettiva doppia molto particolare che costituisce il transitivismo, cioè una localizzazione incerta dell’‘io’ che potremmo chiamare l’anamorfosi dell’osservatore.

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11 LE PIEGHE BAROCCHE NEI MEANDRI DEL PENSIERO CONTEMPORANEO Il tratto distintivo del Barocco, come dice Deleuze, Ł che esso curva e ricurva le pieghe iterando l azione all infinito. In questo senso la piega barocca Ł un concetto, il frutto di un operazione, non un oggetto. Le pieghe, infatti, sono sempre esistite, si pensi a tutte le pieghe provenienti dall Oriente, o alle pieghe greche, romane, romaniche, gotiche, classiche 16. Ma quelle pieghe sono parte di un corpo e adempiono il compito di renderne il movimento, la vitalit 17, sempre conservando il loro ruolo di oggetti. In tutti quei casi la piega resta limitata, mentre nel Barocco subisce un avviluppo continuo, senza posa. Le pieghe sembrano abbandonare i loro supporti di tessuto, di marmo o di materie eteree come le nuvole, per entrare in un insieme infinito. E ci che accade nel Battesimo di Cristo del Greco, in cui il polpaccio e il ginocchio, come fossero parte di un moto di pieghe e contropieghe, comunicano alla gamba un ondulazione infinita, e una nuvola a forma di pinza prende le sembianze di un doppio ventaglio che si apre e chiude continuamente, in un ripiegamento incessante. Per la prima volta, nel periodo barocco l oggetto esce dai propri limiti di cosa osservata da un soggetto giudicante (pensante, per dirla in termini cartesiani) per farsi collegamento costante tra questi due termini. Deleuze riscontra nell opera di Leibniz una corrispondenza ideale a questa attitudine del pensiero che ha origine nel Seicento, e attraverso l analisi dei suoi concetti risale alla superficie della modernit e della contemporaneit , ravvisando non poche analogie col passato. L immagine tipica della concezione secentesca del mondo Ł quella della casa a due piani in cui risiede l anima col suo corpo, la prima al piano superiore, senza aperture verso l esterno; il secondo al piano inferiore, piø sviluppato in orizzontale, munito di finestre da cui entrano continuamente stimoli percettivi, risuonanti poi al di sopra, come in una cassa armonica. La comunicazione tra i due avviene attraverso impercettibili fenditure, corrispondenti ai cinque sensi. Entrambi i piani vanno verso due infiniti: le pieghe dell anima e i ripiegamenti della materia, rispettivamente dispiegantesi in un labirinto continuo di inclinazioni e curvature. Il mondo barocco si struttura perci secondo due vettori, lo sprofondamento verso il basso, l dove la massa aumenta sempre piø, e la spinta verso l alto, con la sua aspirazione ad un sistema senza peso, tutti e due comunque uniti in uno stesso mondo, in una stessa casa. 16 G. Deleuze, op. cit. p. 5. 17 Come piø avanti verr spiegato, attraverso gli studi di Warburg prima e di Didi-Hubermann poi, la piega dell abito ha sempre risposto all esigenza di dare la parvenza di un soffio vitale all interno di una composizione artistica. El Greco, Il battesimo di Cristo, particolare del Trittico di Modena, 1568, tempera su tavola. Modena, Galleria Estense.

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Informazioni tesi

  Autore: Elena Bugada
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2007-08
  Università: Accademia di Belle Arti
  Facoltà: L.A.B.A., Libera Accademia di Belle Arti di Brescia
  Corso: Arti visive e discipline per lo spettacolo - fotografia
  Relatore: Angela Madesani
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 120

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