Heartfield-Ejzenstejn: fotomontaggi politici e teoria del montaggio
Risulta oggi arduo tornare ad indagare un periodo nel campo delle arti visive come quello delle Avanguardie Storiche evitando sovrapposizioni di giudizio o stanche ripetizioni. Fare questo significa, per ogni studioso, cercare la propria personale nicchia nascosta, il pertugio praticabile, ma rimasto fino ad ora nell’ombra. E’ ciò che ho tentato di fare accostando John Heartfield e Sergej Ejzenštejn, come due personalità tra le tante da gettare nel capiente calderone che fu il fenomeno di interscambio e reciproco interesse tra il clima intellettuale ed artistico sovietico e quello tedesco. Grazie alle radici affondate in questo ricco humus, germogliò la sbalorditiva coincidenza di presupposti etico-estetico-ideologici tra Heartfield e Ejzenštejn, nell’originalità assoluta della loro concezione del processo creativo e dell’oggetto creato come sublimazione visiva della dialettica del materialismo storico marxista: l’arte è rivoluzionaria, in quanto rende democratica al massimo grado la creatività, infatti quest’ultima altro non è che lo scatto mentale necessario per la corretta fruizione dei messaggi iconici “politicizzati” dai due artisti da parte dell’operaio. Per entrambi, dal 1924, la prima vera svolta della carriera è all’insegna della condensazione: nei fotomontaggi di Heartfield ognuno degli elementi scelti ha una pregnanza semantica tale da esplodere non appena si ha il contatto con le altre componenti dell’immagine, che sono oculatamente scelte per creare uno stimolante dissidio visivo e significativo che si risolve nella sintesi finale del messaggio veicolato. Nello stesso anno il regista sovietico, scrivendo Il montaggio delle attrazioni cinematografiche, prefigura una sorta di autodepurazione del caos di stimoli sensoriali che caratterizzava il suo teatro in vista di una rigorosa selezione di immagini, di inquadrature, che devono trarre la loro forza dalla imprescindibile interazione e comparazione, pur se provenienti da insiemi visivi molto distanti, e ciò permette il raggiungimento della pura concettualità, instaurandosi una sorta di rapporto telepatico tra regista e spettatore. Ma è dal 1929 che si può parlare di totale sovrapponibilità tra le creazioni dei due artisti; i fotomontaggi dell’ex-dadaista manifestano da questa data un nuovo, evidente cambio di rotta, un nuovo stile che trova stabili fondamenta teoriche negli scritti che il regista sovietico portò con sé a Berlino proprio in quell’anno, nel contesto della mostra Film und Foto di Stoccarda. Sono i principi-cardine che sottendono l’intera teoria del montaggio di Ejzenštejn ad essere validi per entrambi: il montaggio ovunque, in ogni arte, a tutti i livelli della struttura dell’opera, quasi come un DNA, una struttura linfatica innervante, non un mero atto pratico di “taglia e incolla”; il montaggio, ovviamente, come scontro degli opposti, comparazione, compenetrazione, sinestesia (Ejzenštejn giunse a teorizzare il “montaggio armonico”, il “sovratono” e il “contrappunto visivo”), senza dimenticare una spolverata finale di sano humour. L’arte è un continuo divenire, una continua ex-stasis, secondo le parole del regista, il quale valorizza l’etimologia del termine come cambio di condizione: nell’opera costruita secondo il principio del montaggio si passa in un attimo da una situazione ad un’altra, il che provoca il repentino passaggio da uno stato emotivo all’altro nello spettatore (nei fotomontaggi di Heartfield uno scheletro può benissimo essere contiguo ad un bambino, così come, ad esempio, l’operaio fruitore passa dall’incoscienza all’indignazione contro Hitler, interpretando il rebus fornito dall’artista); l’ex-stasis è anche quella che subisce il materiale visivo utilizzato, in quanto il montaggio agisce da “pietra filosofale” dei dati grezzi, sensoriali, che “trasfigurano” verso la più raffinata concettualità. I due artisti sono disposti a barattare qualsiasi residuo di narratività, piacere estetico, status privilegiato di artista “veggente” e demiurgico, pur di giungere a questa 4=ª dimensione dell’arte e Heartfield sembra l’unico ad aver seguito Ejzenštejn alla ricerca di ciò che egli chiama obraznost’ (immaginità), che consiste proprio in quel quid sovrastante, quel senso generale che non si riesce a comprimere nelle tre dimensioni della contingenza, ma necessita del fattore tempo della rielaborazione intellettuale da parte dello spettatore: è un recupero di remote facoltà associative tra sole immagini, un riallaccio con un substrato ancestrale perduto sotto secoli di sovrastrutture sociali e di eccessiva fiducia nel razionalismo. Il montaggio, quindi, intende riflettere la natura composita dell’autentica humanitas, che è una magica simbiosi di razionalità e inconscio, pathos e dominio di sé, emozioni immediate e calme, profonde riflessioni. Le sagome e le fisionomie disarticolate dei gerarchi nazisti nei fotomontaggi di Heartfield ci mostrano proprio i disastrosi effetti della rottura di quell’equilibrio.
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Informazioni tesi
Autore: | Enrico Piferi |
Tipo: | Tesi di Laurea |
Anno: | 2003-04 |
Università: | Università degli Studi della Tuscia |
Facoltà: | Conservazione dei Beni Culturali |
Corso: | Conservazione dei Beni Culturali |
Relatore: | Elisabetta Cristallini |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 381 |
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