2
Quindi, se vogliamo dirla così, l’unico modo per non far “rigirare nella tomba” i suddetti signori
(anche se per averne la certezza non si dovrebbe parlare affatto di Dada, ma lo facciamo comunque
consapevoli del fatto che ogni messa per iscritto è un modo di normalizzare, banalizzare contrario a
ciò che i migliori esponenti ci hanno insegnato) è quello di cercare nuove strade, scoprire nessi
inattesi, unire personalità considerate distanti, essere al corrente delle interpretazioni più recenti.
Più si studia sull’argomento e più si allontanano i confini spazio-temporali entro i quali è possibile
rintracciare “focolai” di spirito Dada, indizio forse che ci si sta avvicinando a considerarlo una
categoria universale come ormai lo sono il classico, il barocco o l’espressionismo. Allora si potrà
vedere ad esempio quanto fu Dada in alcuni passi il linguaggio delle commedie di Plauto, la poesia
di Cecco Angiolieri, il comportamento dei goliardi delle università medievali, così come quello di
Pietro Aretino o dei libertini del XVII-XVIII secolo, andando a solleticare un concetto come quello
di “contemporaneità del non contemporaneo”, utilissimo nello studio dell’arte medievale quando ci
si imbatte in enigmi come quei capolavori che sono gli affreschi di Castelseprio presso Varese,
indiscutibile esempio di linguaggio classico entro un contesto spazio temporale dominato dalla
cultura astratto-geometrica longobarda.
E’ quindi di capitale importanza, ai fini di uno studio su fenomeni legati ad artisti che sono stati
dadaisti della prima ora, ma che successivamente hanno continuato a evolvere il loro personale
linguaggio, partire col rintracciare gli elementi specifici caratterizzanti l’originario credo Dada al
fine di realizzare come abbiano continuato ad agire come humus, linfa vitale irrorante anche i rami
più distanti dal fusto ed anche in casi nei quali ciò non è di immediata evidenza.
3
I.
CONCETTI-CHIAVE DEL DADA.
I. 1. Il contesto socio-culturale ed artistico tra fine Ottocento e Prima
Guerra Mondiale.
Difficile potersi immaginare con precisione cosa provassero gli spiriti più sensibili di fronte alla
situazione in corso negli immediatamente precedenti e all’inizio stesso della Prima Guerra
Mondiale.
Di fronte all’apparente calma della società “Belle Epoque”, erano aperte, invece, diverse questioni
insolute e cresceva l’ostilità tra le nazioni. La presenza sul terreno europeo di istituzioni
anacronistiche come l’impero asburgico o la Russia zarista e l’emergere delle legittime aspirazioni
nazionaliste dei popoli sottoposti a regimi autoritari, aggiunti alla costante pressione esercitata dagli
interessi economici mossi dalla Seconda Rivoluzione Industriale esplosa negli ultimi decenni
dell’Ottocento, la quale aveva stimolato soprattutto l’industria siderurgica e, di conseguenza, quella
di produzione bellica, spingeva le nazioni europee a una corsa agli armamenti generale sia da una
parte che dall’altra dei principali schieramenti di alleanze.
Tutti i governi trovarono conveniente indirizzare l’opinione pubblica verso l’opzione bellica, sia per
dare fiato ai mercati, sia per distogliere l’attenzione dai ben più urgenti problemi interni e sociali
che potevano destabilizzare l’ordine, con in mente il ricordo ancora fresco di episodi tipo il
tentativo di rivoluzione russa del 1905. La guerra, almeno all’inizio, mise d’accordo tutti,
addirittura anche diversi socialisti videro di buon occhio il profilarsi di un conflitto generalizzato: se
non arrivavano a concepire la guerra come “sola igiene del mondo” secondo il credo marinettiano,
intravedevano comunque in essa un possibile mezzo di supporto nel rovesciamento del sistema
borghese.
Il mito positivista del progresso umano gettava sabbia negli occhi ma l’inizio delle ostilità aprì
prospettive inedite e totalmente inaspettate:ciò che la società europea si trovò di fronte era qualcosa
di inimmaginabile fino ad allora. Ovvero: una mobilitazione totale, il fatto cioè che tutti gli strati
sociali ebbero a che fare con la guerra e non solo in termini di combattenti impegnati direttamente
sui campi di battaglia; l’instaurazione delle economie di guerra (si converte cioè l’intero ciclo di
produzione industriale in funzione del rifornimento costante del fronte); il coinvolgimento di un
numero grandissimo di nazioni rispetto ai conflitti precedenti. Cinicamente, sono gli stessi simboli
del progresso tecnologico e della società della Belle Epoque a ritorcersi contro l’umanità, essendo
utilizzati per fini militari o di propaganda: aerei, automobili, sottomarini, telefono, cinema,
manifesti. Come se non bastasse fecero la loro comparsa nuovi e micidiali strumenti di morte: carri
armati, mitra, bombe a mano, gas asfissianti.
Tutto ciò rendeva un clima apocalittico ed infatti, ora, realmente l’Ottocento volgeva al termine
portando a compimento le conseguenze ultime dell’ordine impartito con la restaurazione (il
periodizzare per secoli, infatti, è sempre una soluzione di comodo per dividere il flusso degli eventi
umani in ere separate, ma la realtà non è mai bianco-nera, in quanto i contorni cronologici di un
secolo sfumano nel precedente o nel successivo).
Si svelava così l’ipocrisia del sistema borghese che aveva inevitabilmente condotto per mano
l’uomo alla catastrofe e ciò poté solo allargare ancora di più il solco che da oltre mezzo secolo si era
aperto tra società e artisti o intellettuali in generale. La rivoluzione industriale e il capitalismo
avevano reso egemone la classe media operando un allargamento della base sociale ma anche una
standardizzazione nei modelli di produzione e soprattutto di pensiero. Stava per finire l’era della
produzione artigianale, del rapporto diretto committente-autore-artista e ciò a discapito soprattutto
della qualità estetica del prodotto finale, facendo slittare verso posizioni di puro materialismo la
4
gran parte degli strati sociali, occupati in un incessante accumulo di oggetti e status-symbol dal
carattere assolutamente esteriore. Come nota giustamente Argan
2
l’artista non può che provare
disgusto, innanzi tutto perché si sente offeso dalla competizione con le macchine ed emarginato
dalla stessa classe alla quale appartiene, della quale non riesce a condividere l’ideologia totalmente
materialista-positivista. Constatato l’insanabile contrasto, l’unica soluzione che non comprometta
l’integrità morale è, agli occhi dell’artista, la fuga, l’evasione
3
, intese in accezione spazio-
temporale, ma anche spirituale: infatti non è obbligatorio arrivare alla soluzione estrema di Gauguin
in quanto può essere sufficiente l’evasione dalle convenzioni sociali attuata da Baudelaire e dagli
artisti bohémien in genere, oppure si può cercare un contatto con le culture considerate primitive
(dal 1906-07 sono in auge i feticci dell’arte negra, c’è un diffuso ritorno di interesse per il
Medioevo) col solo scopo di trovare comunque qualcosa di alternativo alla civiltà occidentale. Si
scorge a fine Ottocento un altro potente mezzo di evasione nella immacolata ingenuità dell’arte di
Henri Rousseau, una pittura che sgorga direttamente, senza il filtro delle accademie e dei
condizionamenti socio-culturali, mentre l’altro episodio estremo, quello della fuga in Africa del
poeta Rimbaud, rivela il tipo di atteggiamento che ritroveremo nel Duchamp che clamorosamente
sembra essere interessato solo al gioco degli scacchi a partire dal 1923, rifiutando la sua parte sul
palcoscenico dell’arte proprio nel momento della grande notorietà.
Il principio della fuga trova massima applicazione all’interno dei movimenti delle avanguardie
storiche nei primi due decenni del Novecento, in quanto l’acutizzarsi della frattura provoca un senso
di frustrazione negli artisti tale da spingerli a chiudere ogni rapporto con il mondo borghese e l’arte
ufficiale dei Salóns, che continuava ad essere pedantemente mimetico-naturalistica, e ad
intraprendere una fuga nella loro interiorità, luogo non toccato dal rumore del mondo e quindi
portatore di una ispirazione autentica, genuina. Avanguardia, (lo dice l’etimologia del termine)
significò, per gli artisti del primo Novecento, (i vari Fauves, Futuristi, Espressionisti, Cubisti,
Astrattisti, Suprematisti, Raggisti, Vorticisti, Costruttivisti, rappresentanti del Bauhaus, membri di
De Stijl, ecc.) avere la sensazione di essere gli ambasciatori nel presente dell’ordine nuovo che
avevano la fiducia di instaurare nel futuro grazie all’abbandono delle convenzioni sociali e allo
sviluppo dei nuovi modi di espressione da loro propugnati.
Infatti, l’eredità più cospicua lasciata dalle avanguardie consiste nell’aver avvertito il mondo che la
questione dell’arte nel mondo moderno non si esplica più in termini di imitazione del visibile
(anche perché in questo la pittura, al cospetto della fotografia, non può che segnare il passo), ma di
analisi sul linguaggio stesso dell’arte che trova al suo interno la giustificazione del suo farsi e
sull’essenza del rapporto Io pensante-Realtà. Per la prima volta si riesce a considerare un’opera
come avente valore in sé a prescindere dai contenuti religiosi, sociali, politici
4
; diventa più
2
Argan, Giulio Carlo, L’Arte Moderna, Firenze, Sansoni, 1970, pp. 188-200. Nel chiarire le posizioni di artista e
società nel contesto dell’Art Nouveau, Argan sottolinea l’aspetto di scissione, separazione netta: da una parte l’artista
che si occupa di cose dello spirito e quindi si atteggia a personaggio, veggente ispirato, bohémien, deraciné; dall’altra la
borghesia che vorrebbe riqualificarsi spiritualmente grazie alla prorompente decorazione e all’oggettistica Art Decò,
non comprendendo, però, che quei prodotti conservano solo un vago ricordo della qualità artistica originaria,
banalizzata dal ciclo industriale fino a sfociare nel Kitsch. E’, in ogni modo un’ipocrisia, una posizione di comodo e di
facciata delle quali Dada cercherà di far piazza pulita in ugual misura.
3
A questo tema dedica attente riflessioni De Micheli: De Micheli, Mario, Le avanguardie artistiche del Novecento,
Milano, Feltrinelli, 1986, pp. 46-68.
4
Invece Duchamp vede la questione in maniera nettamente contrapposta rispetto a quella delle avanguardie storiche,
testimoniando l’unicità e specificità dello spirito Dada, dichiarando che, da quando la pittura ha cominciato a staccarsi
dai contenuti, è diventata solo una questione di retina, di pura apparenza, ma concettualmente vuota. Lui vuole invece
un ritorno ad un’arte piena di concetto (fino all’estremo del solo concettualismo che non lascia spazio al piacere
estetico), cercando di condensare al massimo la rappresentazione affinché essa raggiunga il massimo dell’espressività.
V. “L’antiretinismo e il Grande Vetro”, in Danesi, Silvia, Il Dadaismo,Milano, Fabbri Editori, 1976, pp. 40-45.
5
importante il comunicare che il rappresentare
5
, fatto, questo, confermato dal peso specifico
altissimo dato dai movimenti di avanguardia alla stesura e diffusione dei manifesti programmatici.
Ed ecco che tutti i rappresentanti delle avanguardie sembrano adeguarsi alla definizione che
dell’arte dava Van Gogh: “L’Arte è l’uomo aggiunto alla natura:la natura, la realtà, la verità, ma
con un significato, con un carattere, che l’artista fa uscir fuori e ai quali dà espressione”
6
.
Cominciarono i Fauves con l’intensificazione del valore emotivo del colore usato in maniera
antinaturalistica (tecnica già sperimentata da Gauguin a Pont-Aven a partire dal 1886); i cubisti
cercavano il valore autonomo del quadro in termini di rapporto tra volume-spazio-tempo, i Futuristi
conciliarono il loro cromatismo Tardo-Impressionista con la glorificazione della tecnologia e
dell’industria moderne, l’Astrattismo (sia nella versione del Blaue Reiter, sia in quella del
Suprematismo) comunica i ritmi segreti delle figure pure, rapporti di forme e colori indipendenti
dalle apparenze sensibili.
Comunque sia, obiettivo comune rimane quello di oltrepassare la mera oggettività dell’arte
ufficiale, vuoto esercizio di mimesi del naturale che per il benpensante borghese rimane ancora
l’unica forma concepibile di arte, mentre per gli artisti è un modo di mascherare inaccettabile, un
tentativo di mostrare l’uomo come ente razionale che ancora riesce a dare ordine al caos del mondo,
quando invece la dimensione dell’uomo moderno è quella della scissione interna, del rivelamento
del vero volto. Questo è, infatti, il senso da cogliere nel processo di rottura che stava coinvolgendo
contemporaneamente i sistemi filosofici e scientifici per l’interpretazione del mondo, in quanto i
sistemi totalizzanti quali il Razionalismo, il Positivismo, lo stesso Idealismo hegeliano, riducendo
l’essere a “cosa”, possibile oggetto di trattazione obiettivo-scientifica, unità singola da inserire in
uno schema preconcetto, non tenevano conto della complessità, della problematicità del singolo
essere che si autoanalizza e che pone in questione il suo “Sé” in rapporto con la realtà
7
. Se
aggiungiamo inoltre il peso che aveva già avuto la totale demistificazione dei valori della società
occidentale operate da Nietzche, la poderosa spallata che stava esercitando Freud nei confronti della
fiducia nel solo lato razionale dell’uomo, la sconvolgente novità delle teorie anarchiche di Bakunin
che giunsero ad autorizzare la distruzione dell’apparato statale, si può ben comprendere come questi
elementi, in contrasto con l’immobilità culturale borghese, abbiano generato, negli spiriti che già la
contenevano e la sentivano fremere, la sensazione di essere a uno stato di coscienza più progredito,
la sensazione, appunto, di avanguardia
8
.
Non si può poi trascurare il fatto di come, dall’inizio del Novecento, anche la diffusione dei risultati
degli incipienti studi di fisica atomica possa aver dato il suo contributo a quella che possiamo ormai
definire come una nuova “perdita del centro prospettico” paragonabile a quella ricevuta grazie
5
Nella diffusione di questa visione non-rappresentativa dell’arte in quegli anni ricordiamo, di fondamentale importanza,
il saggio di Worringer Astrazione e Empatia, uscito nel 1907.
6
In De Micheli, Mario, op. cit., p. 26.
7
Vedi voce “Esistenzialismo”, in Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Milano, Garzanti Editore s.p.a., 1993. Aggirando
Hegel, i filosofi esistenzialisti della prima metà del Novecento (Heidegger, Barth, Jaspers, Sartre, Marcel) riscoprono
Kierkegaard come colui che pone l’uomo non più come un “che cosa”, ma come un “chi”, singolo inoggettivabile e
irriducibile a sistema, essere che si mette in questione e si apre alla comprensione del mondo, scartando l’ipotesi
metafisica come necessità, portandola al rango di possibilità.
8
Vedi Dada prima-Dada-Dada dopo. Arte e società:un intervento sul territorio, Catalogo della Mostra-Intervento
itinerante realizzata da Vittorio Tonon e Alessandro Pica, Novara, La Moderna, 1980. I curatori della mostra
sottolineano il terreno comune di tutte le avanguardie, individuandolo nella logica della “tabula rasa” nei confronti della
tradizione, dell’establishment, e nella piena coscienza dello scarto esistente tra bisogni, aspirazioni del singolo
(molteplici e diversificati) e i modelli imposti dalla società (pochi e standardizzati), riconoscendo a Dada di essere salito
ancora di un gradino poiché esso ha recepito le istanze delle avanguardie, rifiutando però il sistema culturale nel quale
esse si sono prodotte, perché aveva la colpa di non aver portato fino in fondo il lavoro di pulitura al quale Dada
aspirava: “C’è un grande lavoro negativo da compiere. Spazzare, ripulire […] Noi non riconosciamo alcuna teoria.
Basta con le accademie cubiste e futuriste, laboratori d’idee formali”, Tzara, Tristan, “Manifesto Dada 1918”, in Dada,
no. 3, 1918, Zürich. Traduzione italiana in De Micheli, Mario, op. cit., pp.299-308.
6
all’elaborazione, tra Cinquecento e Seicento, della teoria eliocentrica e sulla scorta delle continue
scoperte geografiche che pian piano scalzarono l’eurocentrismo dalla sua posizione egemone.
La scoperta del fatto che a livello microscopico esiste un substrato che accomuna l’uomo con
qualsiasi altra forma naturale
9
, il fatto che dietro l’apparenza dell’essere umano razionale che sente
l’unità e identità del proprio sé si nasconde invece il movimento incessante di miliardi di elettroni
attorno ai loro nuclei, può aver indotto gli animi più sensibili a ricredersi sullo status privilegiato
della nostra specie in quanto dotata di autocoscienza, animale che si eleva e mira alla trascendenza e
che grazie alla razionalità e alla tecnologia è destinato ad un grado sempre maggiore di controllo
sulle forze avverse della natura. Queste erano le certezze dell’uomo positivista, il quale
faticosamente aveva rimesso insieme i cocci dell’avvenuta rottura, della suddetta “perdita del centro
prospettico”.
Nel primo Novecento siamo di nuovo ad un momento di rottura che cambierà l’uomo e non lo farà
tornare più quello di prima. E’ singolare come, a registrare e testimoniare al massimo grado il
passaggio al nuovo stadio siano state le arti, così nel Novecento come nel Cinquecento. Se allora la
prospettiva in pittura perse la sua accezione di rappresentazione razionale di uno spazio a misura
d’uomo, misurabile, controllabile in ogni dettaglio e divenne col Manierismo e col Barocco fuga
verso ignote profondità dettata dalla sfrenata fantasia dell’artista, inganno e complicazione per
l’occhio più che principio unificatore, ora, il bisogno di autoanalisi, autocomprensione, apertura
verso le profondità della psiche per capire la complessità umana a dispetto della maschera indossata
di facciata, portano alla nascita e all’affermazione dei modi non-rappresentativi in arte, ed anche chi
proseguì la scia del figurativo lo fece in veste nuova, lontano dall’accademismo tradizionale,
investendo la rappresentazione con l’alito caldo della personalità che deforma, sgretola, scombina i
rapporti.
Nota Bonito Oliva
10
come un dato caratterizzante l’arte delle avanguardie sia proprio l’ingresso del
tema della complessità nella coscienza artistica. Se la vita nel mondo moderno è sotto il segno
dell’accelerazione e se l’arte vuole esprimere e incontrarsi con la vita, deve necessariamente
rapportarsi con scienza e tecnica, restituendone il senso, le contraddizioni che questa accelerazione
comporta. L’artista, al quale non è più sufficiente contemplare il mondo per comprenderlo e al
quale non basta la razionalità ordinatrice per discernere tutte le pulsioni che salgono dal suo
profondo, è costretto a scardinare le regole di comunicazione, a rispondere alla complessità del
mondo con la complessità delle tecniche impiegate e soprattutto con lo sconfinamento
interdisciplinare, tendendo, come ideale, alla realizzazione dell’opera d’arte totale di wagneriana
memoria
11
.
Ma in un modo o nell’altro la carica eversiva delle avanguardie fu incanalata nell’alveo dell’Arte,
per il compiacimento dei borghesi che si sentivano progressisti, illuminati nel recepire anche l’Arte
moderna, ma che in realtà sentivano solo il bisogno di normalizzare, ricondurre nel loro sistema
culturale anche ciò che non comprendevano, accettando le critiche mosse dagli artisti purché si
svolgessero entro le coordinate da loro assegnate: va bene che l’artista sia all’opposizione, si scagli
9
Mentre a livello macroscopico ci aveva già pensato Darwin mettendo in discussione l’arrogante concetto di una
creazione diretta dell’uomo da parte di Dio, equiparandolo a qualsiasi altra specie sottoposta a continua evoluzione con
il passare del tempo.
10
Bonito Oliva, Achille, “La parola totale” , introduzione a La parola totale. Una tradizione futurista, Modena, Galleria
Fonte d’Abisso Edizioni s.n.c., 1986. Catalogo Mostra 10 maggio-5 luglio 1986 pp.9-10
11
Se l’uso di diverse tecniche e materiali era già un assunto fondamentale e trasversale delle avanguardie, dal Futurismo
al Cubismo, vedremo invece come il concetto di “contaminazione” tra i generi sia vitale per la comprensione dello
spirito Dada. Vedi, ad esempio, Tzara, Tristan, “Introduzione”, in Hugnet, Georges, L’aventure Dada 1916-1922.
Introduction de Tristan Tzara, Paris, Galerie de L’Institute, 1957 (tr. it. di Posani, Gianpiero, Per conoscere l’avventura
Dada 1916-1922, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1972). Secondo il poeta rumeno, abbattere continuamente le
frontiere, allontanarsi da ogni codificazione è l’antidoto all’accademismo, all’immobilità. La contaminazione tra generi
sembra l’unica via per dare movimento a categorie finora troppo statiche, innestare una dialettica che, variando di volta
in volta, dà vita a risultati diversi,affinché non si formi il concetto “Arte Dada”, che costituirebbe la negazione del
profondo spirito del movimento.
7
con veemenza contro il sistema, contro l’arte ufficiale, ma non metta in ogni caso in discussione
l’impalcatura generale entro il quale è inserito: sarà così possibile che dopo lo choc iniziale, anche
un’opera cubista, espressionista o futurista varchi le soglie dei musei, divenendo un “classico
moderno”.
Su questo punto si accende una delle tante scintille che scatenano l’incendio Dada. La posizione
delle avanguardie viene vista come un compromesso, una liberazione a metà, un processo in atto
che va necessariamente portato alle estreme conseguenze.
Siamo nel 1916. Se anche prima, come vedremo sono rintracciabili autentiche testimonianze di
spirito Dada, si sta affacciando ora sulla scena una novità sconvolgente destinata mettere in scacco
ogni tentativo di spiegazione logica, a lasciare gli attoniti commentatori senza nessun punto di
appiglio: seppur breve e ridimensionata dopo pochi anni dagli stessi partecipanti, compare la
distruzione volontaria del concetto di Arte!
I. 2. L’esplosione Dada: sbocciano i fiori di semi nascosti.
Cercheremo ora di comprendere quali elementi, quali condizioni, quali intenzioni nelle menti dei
protagonisti hanno creato in quei dati tempi e luoghi l’alchimia giusta per arrivare a recidere ogni
cordone ombelicale con tutto ciò che era stato fino ad allora, detronizzando coraggiosamente, in
maniera simbolica, una delle forme dietro le quali si nascondeva il rispetto e la venerazione per
l’autorità paterna, secondo quanto elaborato da Freud
12
.
Giunge così al capolinea il lungo cammino del tema della fuga, dell’evasione, del rifiuto della
tradizione innestatosi nell’Ottocento ma che compie ora un salto di qualità affiancandosi al rifiuto
radicale di Nietzsche nei confronti dell’eredità della cultura occidentale. Bisogna ora vedere se
questa fu una reazione al salto di qualità, se così si può dire, della negatività operante nella società
che arrivò al suo apice con la guerra, come più volte dagli studiosi è stato proposto, o se ci sia la
possibilità di leggere il fenomeno all’interno della dinamica dell’evoluzione socio-culturale e di
quella specificatamente artistica, configurandolo quindi come punto d’approdo obbligato una volta
partita la contestazione ai modi tradizionali di fare arte.
12
“Inoltre eravamo tutti sulla ventina e ben disposti a sfidare tutti i padri di questo mondo per fare piacere all’Edipo di
Freud”, Richter, Hans, Dada Kunst und Antikunst, Colonia, Verlag M. Dumont Schauberg , 1964 (tr. it. di Fama
Pampaloni, Maria Ludovica, Dada Arte e Antiarte, Milano, Gabriele Mazzotta Editore, 1966, pag. 60). Dada si
configura così come il passo successivo nella dialettica arte-società rispetto alle avanguardie, poiché riesce a saltare il
fosso dietro al quale esse erano rimaste. Ma come si vedrà questa posizione solo distruttiva, come simbolica uccisione
del padre, non rende pienamente giustizia al movimento che, soprattutto nella sua seconda fase ( 1919-1922) ,
nonostante le dichiarazioni di facciata, tornerà a sentire il richiamo della venerazione all’autorità e ritorna alla
produzione di oggetti che, per quanto inevitabilmente diversi da prima della distruzione, pian piano varcano di nuovo il
sacro recinto dell’Arte. Succede proprio ciò che temeva Duchamp, cioè che anche la più alta provocazione nei confronti
del Bello, dell’estetico, ovvero il ready-made, finisce, se sottoposto ad un uso eccessivo, inflazionato, col creare
nuovamente un rapporto di abitudine col pubblico, e il fatto che esso abbia firma e titolo riporta di nuovo l’oggetto
verso lo status privilegiato di “opera”: la trasgressione della legge rientra di nuovo nell’accettazione del modello
paterno. Su questo tema vedi Rosolato, Guy, “La funzione del padre e i prodotti culturali” , in AA. VV., La critica tra
Marx e Freud, Firenze, Guaraldi, 1973, pag. 81. Per Duchamp invece, v. la testimonianza in Ades, Dawn, “Dada e
Surrealismo”, in Hunter, Sam – Jacobus, John, Modern art/Painting, Sculture, Architecture, N.Y., The Vendome Press,
1977 (tr. it di Giachetti, Romano e Costa, Alessandro, L’arte del XX secolo. 100 anni di pittura, scultura, architettura,
Milano, Gruppo Editoriale Fabbri, 1978, pag. 206): “E’ molto difficile scegliere un oggetto, perché dopo un paio di
settimane comincia a piacerti o ad esserti odioso. Devi giungere a qualcosa di simile a una indifferenza tale che non
provi alcuna emozione estetica. La scelta dei ready-mades è sempre basata su un’indifferenza visiva che è al tempo
stesso una totale assenza di gusto, buono o cattivo che sia. Il gusto è abitudine: il ripetersi di qualcosa di già accettato”.
In queste brevi frasi è ravvisabile la distanza con il movimento New-Dada americano degli anni `60, il quale se
recepisce il ready-made come tecnica, lo fa mantenendo fini estetici, usando il colore degli oggetti al posto dei colori
della pittura.
8
Se da una parte fu innegabile la reazione di disgusto nei confronti dell’ecatombe mondiale,
condizione sine qua non che fece scattare la riflessione sulle condizioni di esistenza, di
sopravvivenza dell’arte in un tale scenario, dall’altra il rapporto univoco e di esclusività tra
esplosione bellica e esplosione Dada è stato forse accettato con poco spirito critico, arrivando a
rasentare il luogo comune. E’ necessario quindi discernere le reazioni dirette alla guerra dalle
relazioni che il fenomeno intrattiene con il suo contesto socio-culturale generale.
Gli spiriti più sensibili capirono che la guerra arrivava a conclusione di un’epoca dominata dalla
fiducia incondizionata nella ragione, che quindi subiva un’irreparabile sconfitta. Si doveva, perciò,
protestare contro un tale stato di cose: tutto un sistema basato sull’apparenza e sulla materialità
andava messo sotto accusa, riconoscendo che il male peggiore era a monte, non nella realtà cruda
delle chilometriche trincee che reclamavano giornalmente la loro dose di carne da macello
13
. Argan
con sinteticità ed efficacia chiarisce l’originalità della posizione Dada a confronto con le altre
avanguardie
14
. Se queste ultime mantenevano la fiducia nel progresso, nel loro ruolo costruttivo in
“questa” società, una volta passata la temporanea follia della guerra, anche a costo di
ridimensionarsi, trasformarsi, pur di essere accettate nel contesto razionale della società, con Dada
la fiducia scompare, anzi, per esseri più precisi, non è mai esistita, in quanto la società tecnologica,
scientifica, capitalista è tutt’altro che razionale come si autoproclama e quindi la guerra, di per sé
irrazionale, è una filiazione di questo modello di sviluppo. Il ruolo delle arti è allora quello di
contribuire alla “contestazione globale”, alla negazione di ogni eredità al fine di ritrovare la vera
humanitas perduta dietro alle sovrastrutture e convenzioni del patto sociale. E’ lecito chiedersi se
l’arte, al pari delle altre componenti della società, abbia rappresentato una facile illusione e quindi
13
Per i dadaisti una posizione di solo rifiuto della guerra non è sufficiente. Ad esempio Tzara, in un’intervista riportata
in De Micheli, op. cit., pag. 152 afferma: “Noi eravamo risolutamente contro la guerra, senza perciò cadere nelle facili
pieghe del pacifismo utopistico. Noi sapevamo che non si poteva sopprimere la guerra se non estirpandone le radici.
L’impazienza di vivere era grande, il disgusto si applicava a tutte le forme della civilizzazione cosiddetta moderna”.
Altre sentenze illuminanti di Tzara sulla questione le possiamo trovare in “Pittori e poeti dadà” ,appendice a Tzara,
Tristan, Sept Manifestes Dada, Paris, Ed. Du Diorama, 1924 (tr. it. di Volta, Ornella, Manifesti del dadaismo e
Lampisterie, Torino, Giulio Einaudi Editori, 1964, pp. 89-91) : “Quando dico ‘noi’, penso soprattutto alla generazione
che, durante la guerra del `14-`18 ha sofferto nella carne della sua adolescenza – pura e indifesa rispetto alla vita - di
vedere, intorno a sé, la verità schernita, scoperta degli abiti smessi della vanità o della bassezza degli interessi di classe.
Quella guerra non fu la nostra: la subimmo attraverso la falsità dei sentimenti e la mediocrità delle giustificazioni.[…]
Dadà nacque da un’esigenza morale, da una volontà irriducibile di raggiungere la morale assoluta, dal sentimento
profondo che l’uomo, centro di tutte le creazioni dello spirito, è in grado di affermare un predominio su ogni nozione
che sia svuotata della sua sostanza umana […] Dadà nacque dallo spirito di rivolta, che è comune alle adolescenze di
tutte le epoche e che esige la completa adesione dell’individuo ai bisogni della sua natura più profonda, senza riguardi
per la Storia, per la logica o per la morale ambiente. Onore, Patria, Morale, Famiglia, Arte, Religione, Libertà,
Fraternità, tutto quel che vi pare: altrettanti concetti che corrispondono agli umani bisogni,dei quali non resta null’altro
che scheletriche convenzioni […] Noi intendevamo guardare il mondo con occhi nuovi, che intendevamo riesaminare,
da cima a fondo, le nozioni che ci erano state imposte dai più anziani e verificarle una per una […] Ci sembrava che il
mondo si stesse perdendo in inutili vaneggiamenti, che la letteratura e l’arte fossero divenuti delle istituzioni al margine
della vita, che, invece di servire l’uomo, fossero divenute gli strumenti di una società superata. Che, in realtà, servissero
la guerra e che, con l’apparenza di buoni sentimenti, coprissero con il loro prestigio le discriminazioni più atroci, la
miseria sentimentale, l’ingiustizia e gli istinti più bassi. Con dadà, l’uomo si presentava nudo di fronte alla vita.
Nessuna delle ideologie, dei dogmi e dei sistemi inventati dall’intelligenza umana, poteva più raggiungere l’uomo
nell’essenziale nudità della sua coscienza […] Dadà prendeva l’offensiva ed attaccava il sistema nella sua integrità e
nelle sue fondamenta, per quel che lo rendeva complice della stupidità umana, di quella stupidità che poteva concludersi
solo con la distruzione dell’uomo per opera dell’uomo”. Tzara ribadisce, cioè, l’interpretazione freudiana di rivolta
contro l’autorità paterna che si traveste da “Onore, Patria, Morale, Famiglia, Arte, Religione, Libertà, Fraternità” e che è
un elemento senza tempo, che parte dalla lotta dei titani contro Zeus, quindi non direttamente collegabile con lo scoppio
della Prima Guerra Mondiale. Essa servì, semmai, come condizione di caos totale che rese possibile portare a termine
l’operazione di “uccisione del padre” immaginata ma non attuata dalle avanguardie, proprio perché l’attenzione era
distolta dalla grandezza degli eventi. Fu anche utile perché significò finalmente il gioco a carte scoperte, il disvelamento
delle maschere, la fine delle illusioni, costituendo quasi un segnale di partenza, un “via” dato agli artisti che avevano
ora la prova di ciò che già sospettavano e il poeta rumeno sottolinea questo aspetto, con tono quasi pirandelliana.
14
Argan, Giulio Carlo, op. cit., pag. 326.
9
le apparenti conquiste del Modernismo e delle avanguardie non siano state solo attacchi esteriori ai
meri criteri di rappresentazione, senza mettere in discussione il fatto se essa fosse tuttora un valore
che valesse la pena essere perseguito.
Tristan Tzara ad esempio, integerrimo difensore della posizione Dada anche negli anni `20, quando
da più parti si auspicava il “ritorno all’ordine”, chiarisce come quella di cui parla lui non più è una
forma d’arte, ma la risposta a un’impostazione sbagliata, che si perde nella notte dei tempi e quindi
risulta troppo sbrigativo considerarla solo come reazione di disgusto alla guerra. Nella sua
conferenza tenuta a Weimar
15
egli tiene a precisare: “L’inizio di Dada non è stato l’inizio di un’arte,
ma di un disgusto. Disgusto della prosopopea dei filosofi che da 3000 anni ci han spiegato tutto,
disgusto della presunzione di tutti questi artisti che incarnano Dio in terra […] disgusto di tutte le
categorie catalogate dai falsi profeti, che, a frugarli dentro, trovi pieni di interessi di denaro,
orgoglio e malattia.”
Richard Huelsenbeck, membro del gruppo Dada di Zurigo e successivamente di quello berlinese,
arriva a rovesciare, nei suoi discorsi e manifesti, la presupposta posizione ufficiale del movimento
16
.
Non esita, infatti, a dichiarare. “Eravamo contro i pacifisti perché la guerra in fin dei conti ci aveva
dato la possibilità di esistere in tutta la nostra gloria […] eravamo per la guerra e anche oggi il
dadaismo è per la guerra”. Non dobbiamo però evincere da queste parole che egli vedesse di buon
occhio le ostilità tra le nazioni, ma come riconosca il valore di miccia innescante avuto dalla guerra
nei confronti del Dadaismo, movimento nel quale la conflittualità deve costituire una costante dello
spirito, un modo di essere. E’ in questo senso che il “Dadaismo è per la guerra”, configurandosi
soprattutto come aggressività, lotta ai valori, alle convenzioni, ai falsi miti.
Altro passo fondamentale verso una visione critica e consapevole della banalità del rapporto
tautologico guerra-Dada è il confronto cronologico tra le date caratterizzanti i due ordini di
avvenimenti. Come spiegare, infatti, due figure che sembrano incarnare tutto ciò che proclameranno
con ardore i dadaisti e sembrano essere stati a questo mondo con il solo scopo di attuare una serie
ininterrotta di atti clamorosi, demistificatori, strampalati, quali sono Jacques Vaché e Arthur
Cravan? Considerati entrambi come modelli di comportamento in vista del perseguimento
dell’unione arte-vita, precursori di atteggiamenti, modi di pensare tipici dei personaggi che
scandalizzeranno mezzo mondo tra il 1916 e il 1922, si segnalano come entità autonome già alcuni
anni prima dello scoppio del conflitto mondiale
17
.
15
Tzara, Tristan, “Conferenza su Dada”, in Merz, Hannover, n. 7, gennaio 1924, pag. 69. (Edizione italiana in Schwarz,
Arturo, Almanacco Dada. Antologia letteraria-artistica Cronologia Repertorio delle riviste, Milano, Feltrinelli, 1976,
pp. 551-554)
16
Op. cit., pp. 36-41; 105-108.
17
Vale la pena ricordare alcuni aspetti di queste due personalità, autentici “fari” che illuminano la via che conduce
all’”antiarte”. Arthur Cravan può essere considerato il capostipite del Dada americano e in parte di quello francese: già
nel 1912, pubblicava a Parigi la sua rivista Manteinant, all’interno della quale attaccava ogni valore riconosciuto,
mescolava fatti veri e inventati (modus operandi ripreso anche a Zurigo), si autoproclamava nipote di Oscar Wilde,
pugile (atterrato alla prima ripresa dal campione del mondo Jack Johnson a Madrid il 23 aprile 1916) , nipote del
cancelliere della regina d’Inghilterra. Memorabile la sua conferenza il 12 giugno del 1917 a New York di fronte ad un
pubblico borghese, alla quale giunge ubriaco con una valigia piena di panni sporchi che comincia a distribuire tra i
presenti, mentre lui stesso comincia a spogliarsi. Con lui arriva alle estreme conseguenze la coerenza con la tesi
tipicamente Dada della fine dell’arte in quanto prodotto di una società corrotta e la sostituzione con la vita intesa come
avventura artistica, vivendo ogni istante senza inibizioni, senza paure, arrivando a scomparire nel Mar dei Caraibi, da
solo in una barchetta tra gli squali.
Anche Jacques Vaché, quando all’inizio del 1916 è a Nantes con Breton, il quale successivamente arriverà a mitizzare
la figura del suo amico, ha già elaborato, in autonomia e senza conoscere le contemporanee manifestazioni zurighesi, il
suo disprezzo totale per ogni regola, per l’arte; anche lui si fa notare per gesti teatrali, travestimenti, crede nella vita
vissuta come arte. Breton lo apprezza perché è anticonformista anche nei confronti della rivolta: non arriva a eccessi
violenti, ma esaspera le regole fino al paradosso, esagerando nel dare attenzione ai minimi particolari (lo stesso Breton
ricorda il puntiglio dell’amico nel portare l’uniforme militare dietro al quale scorge un sarcastico sorriso molto più
pungente della sfida aperta). V. Breton, André, Entretiens; histoire du Surrealisme, a cura di A. Parinaud, Paris,
Gallimard, 1952; (tr. it. di Maitan, Livio, Storia del Surrealismo,Milano, Schwarz, 1960, pp. 19-20) e trascurando con
10
Se consideriamo poi il Manifesto Dada 1918, il più completo e radicale scritto che esprime la
filosofia del movimento, redatto da Tzara a Zurigo e pubblicato nel numero 3 della rivista Dada nel
dicembre 1918, bisogna considerare che “quando Tzara declamò per la prima volta il suo manifesto,
il 23 luglio 1918, a Zurigo, già si parlava dappertutto della pace che doveva porre un termine ai 4
anni di guerra […] Questo vuol dire che la negazione dadaista non rifiuta solo le atrocità della
guerra, come facevano da un pezzo gli anarchici pacifisti, ma soprattutto il ricatto morale che stava
venendo fuori alla fine del conflitto”
18
. Infatti, la rivolta Dada prese la sua forma definitiva e più
nota dopo l’armistizio giacché da più parti si evocavano nuovi valori morali per ricostruire un
mondo di fraternità e di pace, un nuovo ordine auspicato dalla classe intellettuale precedente la
generazione Dada, la quale si affrettava a voler catalogare, accettare e di conseguenza neutralizzare
il movimento come superficiale rivolta contro il patriottismo e la guerra. Era questo il ricatto
inaccettabile per il nichilista totale Tzara, per il quale nulla sarebbe cambiato se prima della
ricostruzione non si fosse messa in discussione l’intera impalcatura di una struttura socio-culturale
che aveva permesso di arrivare a un tale stato di cose. Prima spallata da dare a questo muro:
eliminare ogni residuo finalistico, ogni schema teleologico, residui di una concezione romantica
dell’arte che in grado variabile sottendeva ancora le avanguardie. Passione romantica è anche il
desiderio di tabula rasa del passato, tratto saliente delle ambizioni futuriste di Marinetti e tante
volte scomodato anche per riassumere le negazioni di Tzara, che, invece, con indifferenza assoluta
19
abolisce, ignora ogni passato e ogni utopia del futuro. Sempre a proposito del legame tra la
situazione in atto negli anni `14-`18 e i comportamenti assunti dai membri del Cabaret Voltaire di
Zurigo, primo vero gruppo organizzato Dada, Hans Kreitler opera una sorta di “psicanalisi di
gruppo”, cercando le motivazioni sostanziali nelle profondità dell’inconscio svelate da Freud
20
.
Secondo lo studioso, l’irrazionalità dell’epoca è riflessa nell’irrazionalità degli spettacoli zurighesi,
ma anche nel forte contrasto che sorge ad opera della simultaneità tra i bei discorsi retorici e
patriottici e le battaglie da finimondo tipo quella di Verdun. Gli psicologi e gli stessi artisti
capiscono che nel loro operare agiscono le forze del subconscio
21
.
Il parallelismo va avanti: nel 1917 Freud nota che la guerra è sintomo del persistere in noi
dell’influenza delle pulsioni ancestrali dell’infanzia dell’umanità. Si retrocede cioè a quella fase
nella quale la coscienza e la ragione non frenano e arginano gli istinti. Viene citato allora il famoso
episodio della non-cosciente scelta del nome del movimento, trovata aleatoriamente tra le pagine di
un dizionario e guardacaso la parola è proprio appartenente al mondo dell’infanzia
22
, mentre il
metodo ricorda quello delle libere associazioni usato in psicoterapia. La regressione è sintomo di un
rapporto traumatico con il mondo, della ricerca di uno stato migliore di quello reale. Kreitler cita
allora Hugo Ball, massimo teorico del Dada di Zurigo insieme a Tzara, il quale ritiene che gli
eccessi della semplicità e dello spirito fanciullesco, riflessi nel caos delle poesie e opere create dai
disinvoltura l’enormità degli avvenimenti in corso di svolgimento. Prende corpo in lui un’insubordinazione spirituale
totale, un disinteresse per l’arte, la vita ed addirittura la morte: “Protesto contro l’essere ucciso in tempo di guerra. Io
morirò quando vorrò morire ma insieme a qualcuno”, da Vaché, Jacques, Lettres de guerre, Paris, Au Sans Pareil, 1919.
Infatti a 23 anni Vaché si uccise con un amico, con una overdose di droga. Agli occhi di Breton l’amico è il campione di
quello che definirà humour noir, atteggiamento di capitale importanza nella comprensione dello spirito Dada.
18
Lista, Giovanni, “Dada e l’avanguardia” , in Dada:L’Arte della Negazione, Catalogo della mostra, Roma, Palazzo
delle Esposizioni 29 apr.-30 giu. 1994, Roma, Edizioni De Luca, 1994, pag.51.
19
“Dada non è affatto moderno, è piuttosto il ritorno a una religione dell’indifferenza, di tipo quasi buddista […] Dadà
è l’immobilità, è refrattario alle passioni”, da Tzara, Tristan, Manifesti del Dadaismo e Lampisterie, op. cit., pag. 80.
Emerge qui che, forse, l’unica fascinazione subita da Dada è per la ricerca nelle culture altre, specialmente orientali, di
quella verginità nel rapporto col mondo, irrimediabilmente perduta dalla civilizzazione occidentale.
20
Kreitler, Hans, “The psychology of Dadaism” , in Dada: monograph of a movement, edited by W. Verkauf, Teufen
Switzerland, Arthur Niggli Ltd, 1957, pp.74-84.
21
“Avendo la bancarotta delle idee distrutto il concetto di umanità fino nei suoi strati più profondi, gli istinti e i
retroterra ereditari stanno ora emergendo in maniera patologica.” Ball, Hugo, in Ades, Dawn, op. cit., pag. 212.
22
Infatti il significato più corrente di “Dada” nella lingua francese è “cavalluccio a dondolo”.
11
membri del Cabaret, siano l’unico modo di difendersi dai lacci della razionalità
23
. Come l’atto di un
bambino che distrugge un giocattolo, ma avendo già in mente qualcosa da ricostruire, è totalmente
libero
24
, così è altrettanto libero l’artista Dada che frantuma ogni forma d’arte, ma alla fine
dell’operazione anch’egli pone un nuovo oggetto nel mondo
25
.
Ma secondo me la divergenza più significativa tra la cronologia Dada e quella bellica sta
nell’evidenza del fatto che le realizzazioni pratiche più strettamente collegate al movimento in
questione, quelle che più di qualsiasi opera astratta sconcertarono e scandalizzarono, ovverosia i
ready-made, vennero concepiti dalla mente di Marcel Duchamp ben prima del 1914
26
. Egli molto
rapidamente passa in successione una fase cezanniana, una cubista, una futurista, si interessa alla
cronofotografia di Muybridge, ma di ogni scuola, di ogni regola sente l’anacronismo nonostante
quelle da lui sperimentate gli siano praticamente contemporanee; non ne riesce ad estrapolare
sostanziali novità e capisce che la nuova frontiera sta nella preponderanza da dare al creatore
rispetto alla creazione, alla concezione piuttosto che alla realizzazione (e quindi in qualità di
sostegno tangibile e visibile di un’idea nella mente dell’artefice, anche un oggetto di uso comune
può fare al suo caso), alla sfera del significato da attribuire più che ai significanti innumerevoli nei
quali si può inverare (da scegliere perciò con indifferenza). Su Duchamp e sul ready-made sono
possibili ancora infinite disquisizioni, ma ciò che mi preme sottolineare è che contemporaneamente
e senza che ci fossero contatti, anche a Berlino, Zurigo, Hannover si porta avanti un discorso di uso
di materiali nuovi, non artistici secondo tradizione. Se poi consideriamo anche concetti basilari
quali il rifiuto di un’arte solo “retinica” in favore di una piena di concetto e che richiede la fruizione
attiva dello spettatore, il dissolvimento operato nei confronti dell’aura sacra e demiurgica
orgogliosamente apposta dagli artisti attorno alla loro figura, il completamento degli oggetti con
brevi frasi, il libero sfogo dato all’individualità al di fuori da ogni convenzione, l’intento satirico,
demistificatore, la fiducia nel possibile ingresso nella sfera artistica delle procedure ordinate e
impersonali delle macchine, non possiamo evitare di notare come possano essere presi in blocco e
23
Il pensiero di Hugo Ball, annotato nei suoi diari giornalieri, rappresenta l’altra faccia della medaglia dell’irruenza
polemica di Tzara, ma altrettanto fondante la concezione del mondo Dada: Ball, Hugo, Die Flucht aus der Zeit,
München und Leipzig,Von Duncken & Humblot, 1927. Edizione inglese Flight out of time: a Dada diary, N. Y., The
Viking Press, 1974.
24
Il piacere che il bambino ricava da questa operazione è lo stesso del quale parla Freud in “Al di là del principio del
piacere”. “Il bambino gettava un rocchetto intorno a cui era avvolto del filo oltre la cortina del suo letto pronunciando
un ‘o-o-o’, poi tirava nuovamente il rocchetto fuori dal letto e salutava la sua ricomparsa con un allegro e prolungato
‘da’ (qui). Questo era il gioco, sparizione e apparizione, attraverso cui il bambino rappresentava l’assenza della madre e
si risarciva di questa rinuncia. La sua macchina dada (‘figlia nata senza madre’, come dicono i dadaisti) mette in gioco
il meccanismo della rappresentazione e al contempo la sua impossibilità di essere perfetto, esaustivo, interamente
rappresentativo. Qualcosa di analogo, dice Freud, avviene nella produzione artistica. Ecco, Dada ha assunto il
meccanismo iterativo come macchina logica (di un’altra logica) con cui elaborare i significati e(ste)tici, in un gioco
drammatico e senza respiro. E scoprendovi proprio ciò che Freud aveva scoperto nella ripetizione, al di là del principio
di piacere: la morte. Dada, come scrive Tzara, ha ‘attirato l’attenzione del mondo intero sulla Morte, sulla sua costante
presenza fra di noi”, da Rella, Franco, “Tzara! Tzara! Tzara!…Thustra”, in Danesi, Silvia, op. cit., pag. 53.
25
V.Lynton, Norbert, “Art is dead: long live art”, in The story of modern art, Oxford, Phaidon, 1980, pp.126-127;
l’artista visuale, seppur mosso da intenzioni nichiliste, deve strutturalmente passare per un momento costruttivo.
26
“Già nel 1913 ebbi la felice idea di montare una ruota di bicicletta su uno sgabello da cucina e di osservarla mentre
girava. Un paio di mesi più tardi comprai una riproduzione a buon mercato di un paesaggio invernale, che io intitolai
Pharmacy dopo averci dipinto sull’orizzonte due piccoli punti, uno rosso e uno giallo […] Una caratteristica importante
consisteva nella brevità delle frasi con le quali talvolta intitolavo i miei ready-mades. Queste frasi avevano lo scopo di
guidare il pensiero dell’osservatore verso altre sfere, di natura più verbale. Ben presto compresi il pericolo di un
ripetersi indiscriminato di questo tipo di espressione e decisi di limitare a un certo numero per anno la produzione dei
ready-mades. Mi rendevo ben conto a quel tempo che, ancor più per lo spettatore che per l’artista, l’arte è un mezzo per
autointossicarsi (come l’oppio) e volevo preservare i miei ready-mades da una simile profanazione.”, da Richter, Hans,
op. cit., pp. 109-110. L’artista francese desiderava che non si provasse alcun piacere estetico nei ready-made. Si sa che
egli effettuava la scelta con assoluta indifferenza a prescindere dal buono o cattivo gusto.
12
utilizzati per caratterizzare la realizzazione più tipica della ramificazione berlinese del Dada, cioè il
fotomontaggio
27
, che altro non è che un ready-made di materiale fotografico.
Come la manipolazione, il ritocco di immagini fotografiche non era una novità assoluta, ma se ne
trovano testimonianze già nell’Ottocento
28
, così sembra che nemmeno il ready-made sia tutta farina
del sacco di Duchamp come molti credono, visto che possiamo rintracciare sempre nel XIX secolo
eclatanti anticipazioni dal punto di vista materiale ed anche sul piano della disposizione d’animo nei
confronti dell’establishment. Sto parlando della Indisposizione di Belle arti, organizzata il 15
maggio 1881 dagli Scapigliati, in provocatoria reazione all’Expo di Milano, una anti-fiera contro il
perbenismo, il falso ottimismo della borghesia positivista, che, nell’allestimento ad opera dell’unico
gruppo bohémien italiano, anticipa di molto le fiere dadaiste di Berlino; ma soprattutto
dell’apertura, nel 1882 a Parigi, ad opera dello scrittore Jules Lèvy, del Salon des Arts Incohérents,
che terrà i battenti aperti per un decennio ed affilerà le armi della sua satira soprattutto contro il
simbolismo nella sua veste di ineffabilità, magica ispirazione dei pittori-veggenti che si atteggiano a
eterei medium che svelano le “corrispondenze” tra il nostro mondo e quello delle idee e che
estasiavano il pubblico borghese. Nelle mostre Incohérents si videro, ad esempio, una Venere di
Milo barbuta, un calamaio con inchiostro chiamato “Scodella di latte di vacca africana”, mentre un
artista addirittura prese lo pseudonimo Dada! La messa in ridicolo di ciò che è considerato di più
alto valore fu una prerogativa di queste manifestazioni e sarà il cavallo di battaglia del Dada, unico
movimento del periodo delle avanguardie che apertamente lancerà il guanto di sfida sotto forma di
teatralizzazione buffonesca della protesta.
Tutti gli elementi a questo punto ci autorizzano a prendere in considerazione l’idea di Dada come
categoria dello spirito che in luoghi e tempi diversi può emergere in figure isolate così come in
gruppi organizzati
29
. E’ proprio grazie a questa particolarità che possiamo scandagliare il passato e
trovare personaggi, opere, manifestazioni, non solo nel campo artistico, ai quali si può applicare
l’etichetta Dada. Lo compresero bene anche i diretti interessati, i rappresentanti dei raggruppamenti
sorti tra il 1915 e il 1922, i quali sentirono chiaramente in alcuni personaggi del passato una tale
affinità spirituale, che era giunta anche per Dada l’ora di costruirsi una tradizione letteraria: non
dovettero faticare molto, sia perché l’esplosione di un’indole così corrosiva, in ogni tempo e luogo,
ha sempre suscitato scalpore, ergendosi con originalità assoluta sulla stagnante omogeneizzazione
dominante, sia perché nel mezzo secolo a loro precedente operarono diversi letterati e intellettuali
che erano già pienamente immersi nel loro clima spirituale e usavano forme di espressione che ai
loro occhi erano ancora validi mezzi di anticonformismo.
La loro anti-tradizione comincia con i poeti maledetti Baudelaire (1821-67), Verlaine (1844-76),
Rimbaud (1854-91), strenui oppositori del conformismo borghese e rivoluzionari in poesia per l’uso
evocativo delle parole, simboli di altri ordini di realtà o suggestioni fatte di puro suono. Si passa poi
ad Apollinaire e Mallarmé, molto ammirati soprattutto dal gruppo di Parigi. Apollinaire (1880-
1918), protagonista assoluto della vita intellettuale parigina e attentissimo ai fatti artistici
27
Vedremo in seguito come la certezza assoluta su chi sia stato l’apripista nell’uso di questo metodo come tecnica
artistica ancora non ci sia. Ma comunque, sia che si voglia dar retta alla coppia Hausmann-Höch o a quella Grosz-
Heartfield, siamo negli anni 1914-1916, gli stessi cioè nei quali Duchamp portava a New York l’aria di Parigi in una
sfera di vetro o sceglieva come sua opera una pala da neve.
28
V. Patti,Giuliano; Sacconi, Licinio; Ziliani, Giovanni, Fotomontaggio. Storia, tecnica ed estetica, Milano, Gabriele
Mazzotta Editore, 1979, pp. 12-16.
29
“Sappiamo benissimo che la gente in costume del Rinascimento era più o meno uguale a quella di oggi e che
Dchouang-Dsi era Dadà come noi. Vi sbagliate se credete che Dadà sia una scuola moderna o anche una reazione
contro le scuole attuali. Parecchi mie affermazioni vi sono sembrate vecchie o naturali, questa è la prova migliore che
siete dadaisti senza saperlo e forse ancor prima che nascesse Dadà […] Un po’ alla volta, ma inevitabilmente, si sta
formando un carattere Dadà. Dadà è un po’ qui un po’ dappertutto, così com’è, coi suoi difetti, con la differenza tra le
varie persone che accetta e a cui non dà importanza […] Dadà è uno stato d’animo. Per questo si trasforma secondo le
razze e gli eventi. Dadà si può applicare a tutto, eppure non è niente, è il punto in cui il s’ e il no si incontrano, non
solennemente nei castelli delle filosofie umane, ma in tutta semplicità all’angolo della strada, come i cani e le
cavallette” , da Tzara, Tristan, “Conferenza su Dadà”, op. cit. pp. 83-85.
13
(ricordiamo che fu lui a coniare l’espressione “cubismo orfico” per definire la pittura di Delaunay,
nonché l’autore di Les Mamelles de Tiresias, al cui interno viene tenuta a battesimo la parola
“surrealismo”) incarna alla perfezione la parte del poeta veggente e i suoi Calligrammi
costituiscono per i dadaisti un precedente delle loro opere letterarie da accostare con molta più
pertinenza rispetto alle “parole in libertà” dei futuristi, spesso citate come anticipazioni dei poemi
fonetici Dada. Con Stephane Mallarmé (1841-98) si giunge all’emulazione vera e propria: il caso
elevato a legge estetica, le parole usate più come suoni che come portatrici di senso, la lettura
alogica, ritmica del testo, la rottura degli schemi tipografici fino all’estremo della “pagina bianca”,
la fiducia nell’“arte per l’arte” come antidoto alla mercificazione brutale di ogni aspetto della vita
operata dal capitalismo, il fascino del misterioso che sta nella polisemanticità della parola; questi
sono tutti aspetti che deviano fortemente dalla normale evoluzione della letteratura e sembrano
aprire verso spazi incontaminati, e per questo saranno adottati dai dadaisti.
Ad alimentare la sensazione di far parte di un gruppo di nicchia, quasi una setta a sé stante,
contribuiscono le rivalutazioni di letterati bistrattati da pubblico e critica o le scoperte vere e proprie
di misteriosi autori che però clamorosamente si rivelano numi tutelari del movimento. Siamo nel
primo caso per quanto riguarda Jarry (1873-1907), amatissimo da Breton
30
perché, azzerando la
divisione arte-vita, attua l’abolizione delle polarità conflittuali, chiave di volta del pensiero del
padre del Surrealismo
31
. Nel 1896, alla prima di Ubu Roi al Theatre de l’Œuvre, Jarry col viso
dipinto di giallo annuncia “merdre” e si pone come vero e proprio archetipo delle manifestazioni
Dada
32
. Il secondo caso, quello della riscoperta, è quello di Lautreamont e Roussel. Isidore Ducasse
(1846-70), conte di Lautreamont, viene scoperto da Breton e appare subito, nelle sue Poesies e
Chants de Maldoror come uno spirito straordinariamente moderno, che scatena la forza
dell’immaginazione e dei sentimenti nelle sue opere come atto di rivolta contro la falsità
dell’utilitarismo borghese. Raymond Roussel , altro “prodigio” scoperto dai dadaisti e sconosciuto
al grande pubblico, può essere considerato il parallelo letterario e forse l’ispiratore delle macchine
complesse di Duchamp o delle pitture meccanomorfe di Picabia. Sappiamo, infatti, che per i due,
assistere nel 1911 a una rappresentazione delle Impressioni d’Africa di Roussell fu una
folgorazione: videro, infatti, una macchina che, attivata dai raggi solari, dipingeva da sola un quadro
e ascoltarono gli astrusi giochi di parole basati su due frasi omofone ma dal significato il più
possibile diverso disposte a inizio e fine del racconto. “Il racconto, dice Roussell, coincide con uno
svolgimento capace di coordinare il primo significato (assunto come inizio) con il secondo (assunto
come fine)”
33
. Si potrebbe continuare e continuamente fare nuove scoperte
34
e mettere sotto nuova
30
Si vedano le pagine dedicate a Jarry in Breton, André, Antologie de l’humour noir, Paris, J. J. Pauvert éditeur, 1966
(tr. it. di Rossetti, Mariella e Simonis, Ippolito, Antologia dell’humor nero, Torino, Einaudi, 1970).
In Jarry Breton vede, al massimo grado, ancor più che in Wilde, l’annullamento della frattura arte-vita, grazie a Ubu,
personaggio del quale Jarry è come invasato, che esce dalle pagine, dal palcoscenico ed entra in lui modificandone il
comportamento: ne esce fuori uno humour figlio della rivincita del principio del piacere, con Ubu come incarnazione
del “es” freudiano, delle forze inconsce e degli istinti a piede libero che scalzano nobili sentimenti, etica, senso di colpa,
limitazioni sociali.
31
Sul periodo di formazione del gusto letterario e le particolari scelte, i miti letterari molto alternativi di Breton, vedi
Schwarz , Arturo, I surrealisti, Catalogo della mostra, Milano, Palazzo Reale 7 giugno- 10 settembre 1989, Milano,
Nuove Edizioni Gabriele Mazzotta, 1989, pp. 20-33.
32
Sull’argomento vedi l’introduzione di Giovanni Lista dell’edizione italiana da lui curata di Behar, Henri, Etude sur le
Théâtre dada et surrealiste, Paris, Gallimard, 1967 (tr. it. di Lista, Giovanni, Il teatro dada e surrealista, Torino,
Einaudi, 1976).
33
Da Calvesi, Maurizio, “I significati del Grande Vetro” , in Danesi, Silvia, op. cit., pag. 46.
34
Come non ricordare due precedenti molto datati, ma incredibilmente vicini a due grandi nomi come Duchamp e
Tzara? Mark Twain (1835-1910) sosteneva che “l’uomo altro non è che un comunissimo macinino da caffè” (In
Richter, Hans, op. cit., pag. 15), andando ad evocare una visione meccanomorfa che Duchamp eseguirà in diverse
versioni, utilizzando proprio il macinacaffè, elemento figurativo inserito poi anche nel Grande Vetro.
Lewis Carroll (1832-98) invece, detta regole per la composizione poetica ricalcate quasi alla lettera dalla famosa ricetta
di Tzara nel “Manifesto sull’amore debole e sull’amore amaro”, letto a Parigi il 12 dicembre 1920 alla Galerie
Povolozky. Carroll, già a metà Ottocento, scriveva: “Dapprima scrivi un periodo,/ poi lo tagli a pezzetti/ poi mescoli i
14
luce un’infinità di personaggi e ciò grazie all’assenza di vincoli che è stata posta come basilare dal
Manifesto di Tzara; siamo così autorizzati a vedere frutti Dada anche dove sembra che le semenze
non siano adatte, in personaggi che anche poco o nulla hanno a che fare con l’arte: per esempio,
quanto sa di Dada la negazione di S. Francesco, la sua comunione con la natura, l’abbandono di
ogni struttura sociale ed economica!
Giunti a questo punto è ben chiaro come la dialettica delle dinamiche storico-artistiche portasse con
sé l’esigenza dell’esplosione Dada ben più della presa di posizione contro la guerra
35
. Essa ebbe la
funzione di catalizzatrice che diede vicinanza spazio-temporale a personalità affini che altrimenti
sarebbero rimaste meteore, come abbiamo visto verificatosi nell’Ottocento.
I. 2. 1. L’organizzazione del caos: al Cabaret Voltaire prende forma
l’animo Dada come mix esistenzialista-nichilista.
La piccola Svizzera, enclave di pace nell’Europa sconvolta dalla guerra, assume carattere
puntiforme rispetto all’intera mittleuropa, che è il bacino di provenienza dal quale arrivarono a
rifugiarsi e salvarsi dalle chiamate alle armi gli artisti che presero parte al Cabaret Voltaire; ed è
grazie a questo occasionale ritrovo che finalmente si può concludere l’analisi sul linguaggio
dell’arte, sul rapporto rappresentazione-realtà, io-non io e attraversare criticamente queste
antinomie fino alle estreme conseguenze, cosa che le avanguardie non avevano ancora fatto
36
.
Vero e proprio fondatore del Cabaret Voltaire, nonché lucida mente teorica fu il poeta tedesco Hugo
Ball (1886-1927). Giunse in Svizzera alla fine del 1914 con la compagna Emmy Hennings, cantante
e poetessa. A Zurigo voleva evitare l’arruolamento nell’esercito tedesco, lui che si era formato a
Monaco nel clima del Blaue Reiter di Kandiskij e Klee, ereditando dall’artista russo la concezione
della supremazia dello “spirituale nell’arte”, inorridito perciò dalla brutalità della guerra. Fu grazie
a lui che divenne gruppo organizzato ciò che prima era solo comune disposizione di spiriti che
paradossalmente però puntava proprio alla disarticolazione, disgregazione totale. Atto di nascita
37
:
il primo di febbraio 1916 Hugo Ball si accorda col proprietario di un’osteria per aprire un Cabaret
letterario e il giorno seguente la stampa zurighese riporta la notizia. Si specifica che “Il criterio del
Cabaret è che negli incontri giornalieri si svolgano esecuzioni musicali e recite ad opera degli artisti
ivi presenti come ospiti, mentre alla gioventù artistica zurighese è rivolto l’invito a presentarsi con
proposte e contributi, senza riguardo a determinate tendenze”.
pezzi e li tiri fuori:/ Proprio come capitano:/ L’ordine delle parole/ Non fa nessuna differenza” ,da L. Carroll “Poeta fit,
non nascitur” (1860-63),in The complete works, London, Nonesuch Press, 1935, pag. 190. Questa modalità di
composizione era nota anche prima della versione di Tzara (“Per fare una poesia dadaista”), visto che Breton ne diede
un saggio in “Le conset mystére”, pubblicato nel quarto numero di Litterature nel giugno 1919, mentre il suo modello
di vita Jacques Vaché gli inviò una lettera datata 19 dicembre 1918 nella quale ringrazia il poeta per la precedente
epistola, composta di frammenti di giornali incollati. Vedi Vaché , Jacques, op. cit., pag. 26.
35
R. Huelsenbeck, in un brano del suo En avant Dada, riportato in Chipp, Herschel, Theories of modern art, Berkeley
and Los Angeles, University of California Press , 1968, cap. VII “ Dada, surrealism and scuola metafisica” pp. 366-445,
testimonia come il rigetto della guerra fosse un sentimento generico, in quanto tutte le nazioni erano ritenute colpevoli e
non si prendeva posizione nonostante le nazionalità degli artisti Dada facevano capo a entrambi gli schieramenti di
alleanze che si fronteggiavano sui campi di battaglia.
36
Nello stesso brano il poeta-medico tedesco ricorda come a Zurigo si respirasse un’aria molto più leggera di qualsiasi
altra città europea, avendo la possibilità di compiere attività quali andare a teatro o girare i locali notturni fino all’alba,
lusso sconosciuto nei paesi belligeranti. Inoltre sottolinea come al Cabaret Voltaire le ambizioni fossero puramente
artistiche, con indifferenza per questioni politiche di importanza epocale come la rivoluzione russa o la fine dell’impero
tedesco, indifferenza anche nei confronti della presenza di Lenin, Trotzky, Lunacarsky in Svizzera.
37
Per tutta questa fase “aurorale” del movimento di Zurigo faccio riferimento a Richter, Hans, op. cit., pp.17-60.
L’autore, a sua volta, riporta molti passi dai diari di Hugo Ball.
15
Il 5 febbraio si aprirono i battenti: Ball ricorda questa importante data in Cabaret Voltaire, prima
pubblicazione del gruppo
38
: “Madame Hennings e madame Le Conte cantarono canzoni francesi e
danesi. Il signor Tristan Tzara recitò versi romeni. Un’orchestra di balalaica suonò stupende danze e
canti popolari russi. Molto appoggio e simpatia mi vennero dal signor M. Slodki che disegnò il
manifesto del Cabaret, e dal signor Hans Arp che mise a disposizione, oltre ad alcuni suoi lavori,
anche qualche Picasso e mi fece avere quadri dei suoi amici O. Van Rees e Artur Segall. Di grande
aiuto furono i signori trista Tzara, Marcel Janco e Max Oppenheimer, che si dichiararono volentieri
disposti a partecipare al Cabaret. Organizzammo una soireé RUSSA e subito dopo una soireé
francese (con opere di Apollinaire, Max Jacob, Andrè Salmon, A. Jarry, Laforgue e Rimbaud). Il 26
febbraio venne da Berlino Richard Huelsenbeck e il 30 marzo presentammo una meravigliosa
musica negra”.
Già la prima serata fu un grande successo e nonostante il pregiudizio molto diffuso su queste
manifestazioni come puri atti provocatori, scandalistici, emerge invece l’immagine di un ritrovo
letterario-musicale. In questa prima fase è ancora molto forte l’ascendente delle Soireé de Paris di
Apollinaire, che come rivista ispira direttamente il primo numero di “Dada” che esce a Zurigo nel
luglio 1916
39
, mentre l’agitazione culturale di stampo futurista è usata da Tzara proprio per creare la
leggenda attorno a quelle prime manifestazioni (tranne, ovviamente, quello che riguarda gli aspetti
di esaltazione del progresso e della guerra), in quanto il poeta rumeno millanta le migliaia di articoli
apparsi sui giornali svizzeri a proposito delle manifestazioni in questione, mentre in realtà le
cronache parlano di “simpatici avvenimenti culturali, apprezzati dal pubblico benpensante”
40
.
Comunque sia, se facciamo eccezione per personalità importanti come Duchamp, Picabia, Man Ray
(ma lo stesso Picabia arriverà successivamente a Zurigo), che già dal 1915 si possono considerare il
raggruppamento Dada di New York (insieme a Stieglitz, Cravan, Gleizes, De Zayas, Dove,
Schamberg), è proprio grazie ai già citati artisti presenti a Zurigo (ai quali vanno aggiunti Flake,
Serner, Helbig, Sophie Taueber, Luethy, lo stesso Richter, Eggeling) che nel volgere di tre anni si
elaborano concetti, modi di pensare e fare arte, nonché vengono impersonate le diverse anime che
Dada manifesterà nei diversi luoghi e tempi dove apparirà.
Quindi, anche per comprendere manifestazioni di diversi anni successive e realizzazioni nel campo
estetico apparentemente distanti da quelle che appaiono a Zurigo tra 1915 e 1919 (come, ad
esempio, lo può sembrare la reintegrazione dell’elemento figurativo in pittura, spesso spiegato solo
nei termini di quel “Ritorno all’ordine” che caratterizza molta arte degli anni Venti) è necessario
riconoscere in diversi casi come struttura portante, materia prima costituente, linfa irrorante, proprio
le travolgenti novità apportate dal Cabaret Voltaire e dai suoi membri, seppur rivisitate,
interiorizzate, sublimate, ma che non possono sfuggire ad un occhio vigile almeno come fondante
spirituale se non proprio come somiglianza visiva.
Passerei perciò a tentare di estrarre, tra le molteplici personalità e tendenze, quei concetti-chiave che
agirono come moventi dell’agitazione Dada e che sono sopravvissuti molto più a lungo di qualsiasi
regola formale, dimostrando che l’efficacia del movimento consisteva nell’aver trovato per l’arte la
migliore “ricetta”: non averne alcuna.
Innanzitutto, comincerei col dire che le personalità che si incontrano al n. 1 della Spiegelgasse
(nella stessa via al n.12 abitava Lenin ma sembra che ci fosse indifferenza reciproca) sono tutte
d’accordo sul fatto che si era giunti ad un punto ormai nel quale, prendendo coraggio nel negare
ogni aspetto della società, si dovesse con convinzione affermare l’insufficienza della proposta di
cambiamento portata dalle avanguardie. Quella che abbiamo già definito come la “simbolica
38
Cabaret Voltaire , Zürich 15 maggio 1916, riportato in Richter, Hans, op. cit., pag. 18.
39
Secondo M. Sanouillet, i protagonisti del gruppo di Zurigo pagano un forte debito nei confronti del Modernismo e
delle avanguardie. Le tele esposte al Cabaret nel febbraio-marzo del 1916 di Arp, Van Rees, Eggeling, Janco, Slodki si
ispirano direttamente a quelle inviate da Picasso, Marinetti, Cangiullo.
40
Da voce “Dada” , in Dizionario dell’arte del Novecento. Movimenti, artisti, opere, tecniche e luoghi, Milano, Paravia
Bruno Mondadori Editori, 2001.