Quando l'abito è il messaggio. Il costume cinematografico come costruzione identitaria.
Attraverso l'abito ognuno di noi esprime uno stato d'animo, una sfaccettatura del proprio carattere; nel cinema il ruolo rivestito dall'abito è di primaria importanza: prima ancora della parola dell'attore o dell'attrice è la sua fisicità ed il modo di abbigliarsi che parlano allo spettatore; l'abito è “maschera del corpo” ma al tempo stesso lo significa.1
Nella tradizione cinematografica il corpo, in particolare il corpo femminile, è ricco di significazione; adornato di un abito/costume diventa ancor più un messaggio, una proiezione del sé ma eventualmente anche un'identità altra.
Ma chi è che compie quest'atto semiotico di primaria importanza per la riuscita di una pellicola? Sicuramente il regista metterà del suo ma la figura madre è quella del costumista, parte integrante di quel processo che arriverà a connotare pienamente il personaggio, che creerà la storia per mezzo dei tessuti, delle stoffe e degli accessori: ogni singolo particolare parlerà, comunicherà sensazioni e contestualizzerà al pari della scenografia.
Ed è proprio grazie al lavoro di queste maestranze che molte attrici sono diventate icone, ben scolpite nella memoria collettiva, che le ha mitizzate, copiate e le ha rese immortali; un lavoro spesso trascurato o del tutto rimosso, tant'è che in molte filmografie la voce costumi non viene menzionata per nulla; altro segnale significativo è la tardiva creazione della categoria che premia i migliori costumi agli Academy Awards.
In principio quindi furono i costumisti Edith Head, Walter Plunkett, Helen Rose, Jean Louis, Cecil Beaton e tanti altri a dettare la moda, a dialogare con il pubblico fin più del sistema della moda vero e proprio; furono proprio gli stilisti ad avvicinarsi al mondo del cinema in maniera piuttosto naturale; uno dei primi casi fu il film di Vittorio de Sica Stazione Termini del 1953 (ma candidato agli oscar nella categoria miglior costumi nel 1955) che si avvalse della collaborazione dell'astro nascente della moda Christian Dior.
Ma in assoluto l'emblema di questa staffetta tra costumisti e stilisti si creò con la pellicola Funny Face (Cenerentola a Parigi, 1957): i costumi sono affidati sia a Edith Head che ad Hubert de Givenchy.
In questo lavoro oltre ad un preambolo che toccherà brevemente gli snodi fondamentali del rapporto tra cinema e moda, con una chiave di lettura che passa dall'icona cinematografica, cercherò di concentrarmi sull'atto semiotico del costume, grazie anche all'analisi del lavoro di Walter Plunkett in Gone with the wind (Via col vento, 1939) con la caratterizzazione del personaggio di Rossella O'Hara e dei suoi stati d'animo attraverso la simbologia del colore, il lavoro di ricerca di Mark Bridges in The Artist (2011) e quello di Arianne Phillips in W./E. ed ancora l'apporto di Maurizio Chiari nelle pellicole Miracolo a Milano (1951) ed Io la conoscevo bene (1965) e l'opera di Penny Rose che con Evita (1996) veste una duplice icona (Madonna-Evita) con abiti che sanciscono la condizione sociale di chi li indossa, rappresentando un forte ruolo di significazione sociale ad ogni cambio d'abito senza tralasciare il lavoro di ibridazione culturale nei costumi che Janet Patterson cura in Lezioni di piano (1993).
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Informazioni tesi
Autore: | Mirko Ghiani |
Tipo: | Laurea II ciclo (magistrale o specialistica) |
Anno: | 2011-12 |
Università: | Università degli Studi di Torino |
Facoltà: | Lettere e Filosofia |
Corso: | Teoria della comunicazione |
Relatore: | Ugo Volli |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 111 |
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