INTRODUZIONE .
Attraverso l'abito ognuno di noi esprime uno stato d'animo,
una sfaccettatura del proprio carattere; nel cinema il ruolo rivestito
dall'abito è di primaria importanza: prima ancora della parola
dell'attore o dell'attrice è la sua fisicità ed il modo di abbigliarsi che
parlano allo spettatore; l'abito è “maschera del corpo” ma al tempo
stesso lo significa.
1
Nella tradizione cinematografica il corpo, in particolare il
corpo femminile, è ricco di significazione; adornato di un
abito/costume diventa ancor più un messaggio, una proiezione del sé
ma eventualmente anche un'identità altra.
Ma chi è che compie quest'atto semiotico di primaria
importanza per la riuscita di una pellicola? Sicuramente il regista
metterà del suo ma la figura madre è quella del costumista, parte
integrante di quel processo che arriverà a connotare pienamente il
personaggio, che creerà la storia per mezzo dei tessuti, delle stoffe e
degli accessori: ogni singolo particolare parlerà, comunicherà
sensazioni, contestualizzerà al pari della scenografia.
Ed è proprio grazie al lavoro di queste maestranze che molte
attrici sono diventate icone, ben scolpite nella memoria del mondo,
che le ha mitizzate, copiate e le ha rese immortali; un lavoro spesso
trascurato o del tutto rimosso, tant'è che in molte filmografie la voce
costumi non viene menzionata per nulla; altro importante segnale è la
tardiva creazione della categoria che premia i migliori costumi agli
Academy Awards.
2
1
Barthes,R., systéme de la mode, trad. it. il sistema della moda,
Torino, Einaudi, 1967, p.236.
2
La categoria viene istituita solo nel 1948, mente l'Academy
assegnava i premi Oscar già dal 1929. Dal 1948 al 1967 la categoria
è doppia: un premio è assegnato alle pellicole in bianco e nero ed un
altro alle pellicole a colori.
4
In principio quindi furono i costumisti Edith Head, Walter
Plunkett, Helen Rose, Jean Louis, Cecil Beaton e tanti altri a dettare la
moda, a dialogare con il pubblico fin più del sistema della moda vero
e proprio; furono proprio gli stilisti ad avvicinarsi al mondo del
cinema in maniera piuttosto naturale; uno dei primi casi fu il film di
Vittorio de Sica Stazione Termini del 1953 (ma candidato agli oscar
nella categoria miglior costumi nel 1955) che si avvalse della
collaborazione dell'astro nascente della moda Christian Dior.
Ma in assoluto l'emblema di questa staffetta tra costumisti e
stilisti si creò nella pellicola Funny Face (Cenerentola a Parigi,
1957): i costumi sono affidati a Edith Head ad Hubert de Givenchy.
In questo lavoro oltre ad un preambolo che toccherà
brevemente gli snodi fondamentali del rapporto tra cinema e moda,
con una chiave di lettura che passa dall'icona, cercherò di
concentrarmi sull'atto semiotico del costume, grazie anche all'analisi
del lavoro che Walter Plunkett fece in Gone with the wind (Via col
vento, 1939) con la caratterizzazione del personaggio di Rossella
O'Hara e dei suoi stati d'animo attraverso la simbologia del colore ed
il lavoro di Penny Rose che con Evita (1996) vestì una duplice icona
(Madonna-Evita) con abiti che sanciscono la condizione sociale di chi
li indossa, rappresentando un forte ruolo di significazione sociale ad
ogni cambio d'abito.
5
CAPITOLO 1
CINEMA MUTO, BIANCO E NERO: UNA DIVERSA
SEMIOTICA DEI COSTUMI.
1.1 SEMIOTICA E COSTUMI
Il termine vestito racchiude “l’insieme delle pratiche articolate
intorno ai due poli dell’abbigliamento, quale realtà e atto individuale,
e del costume, quale istituzione sociale”.
3
Il “vestito” è una delle unità
che insieme all'acconciatura ed al trucco compongono quello che
viene definito il “corpo rivestito”.
Nel cinema è impossibile considerare gli abiti come mero
prodotto sartoriale, oggetti senza significato o con il solo scopo di
adornare: diventano un “sistema di segni definiti dalle coordinate
spazio-temporali che il film impone.”
4
Questi segni già portatori di un
significato precedente che tramite la cinepresa prima e l'occhio dello
spettatore poi vengono rielaborati e resi icone.
Difficilmente si può scindere un lavoro sui costumi nel cinema
dall'importante studio svolto da Barthes
5
sulla moda ed in particolare
sul vestito: ad oggi rimane uno dei pochi veri punti di riferimento
soprattutto grazie al fatto che ritenne la linguistica una delle poche
discipline consolidate in grado di poter fornire terminologia, materiale
ed idee per oltrepassare gli studi sociologici relativi al costume redatti
fino a quel momento.
In particolare modo, Barthes pensa di applicare alcune
categorie metodologiche proprie della linguistica di De Saussure
6
. Il
pensiero saussuriano è riconducibile, in maniera scarna ed essenziale,
3
Calefato, P., in http://pcalefato.xoom.it/pcalefato/costumi.htm cons. il
20/01/2012.
4
Calefato, P. , in http://pcalefato.xoom.it/pcalefato/costumi.htm cons. il
20/01/2012.
5
Roland Barthes (1915-1980) è stato semiologo, scrittore e critico francese. I suoi
scritti sulla semiologia hanno fatto dello strutturalismo uno dei principali
movimenti intellettuali del ventesimo secolo.
6
Ferdinand de Saussure (1857-1913), linguista svizzero, è considerato il fondatore
della linguistica moderna, in particolare di quella branca conosciuta con il nome
di strutturalismo.
6
a tre dicotomie: langue/parole, significante/significato, sincronia e
diacronia. Significante/significato è la dicotomia che meglio si accosta
ad uno studio sui costumi nel cinema.
In ogni abito è possibile distinguere particolari come il tessuto,
il colore, un tipo di scollatura a cui corrispondono particolari
significanti come la classe di provenienza (gli abiti a stampa che
Madonna indossa quando interpreta Evita Duarte prima che
diventasse la potente Evita Peron connotano perfettamente la sua
estrazione sociale), il lutto, l'età reale o apparente; questi significanti
si rivolgono precisamente a determinati significati.
Il costume diventa “una sorta di testo senza fine in cui bisogna
cercare di delimitare le unità significative”
7
. A questo punto, sempre
tramite gli studi linguistici, l'approccio all'analisi del costume sarà
senza dubbio sintattico e del tutto riconducibile alla teoria semiotica
greimasiana. Seppur un costume possa più facilmente ed
immediatamente rimandare ad aspetti socio-psicologici (povertà, lutto,
disabilità mentale...) Barthes afferma che l'unico e solo significato
principale del vestito sia il “grado di integrazione dell'individuo nella
società in cui vive."
8
Il ruolo dell'abito nel cinema è stato spesso oggetto di studi di
ordine prettamente storico, al limite documentaristico e comunque
con una linea didattica di genere; si è spesso completamente trascurato
il fatto che il cinema modella, tramite immagini, la verità umana, le
passioni, i difetti; è una macchina generatrice di sogni ma anche e
soprattutto di senso all’interno del quale gli abiti rappresentano uno
dei linguaggi principali; ogni segno, ogni particolare ed in questo caso
ogni orpello del o sul corpo ha un significato ben connotato, legato
quasi sempre ad una caratterizzazione sociale, storica o politica,
(Evita, Miracolo a Milano) oppure ad un particolare stato d'animo
(Via col vento, Io la conoscevo bene)
I costumi si prestano a mediatori culturali e di senso tra la
costruzione del sogno cinematografico e quello della vita reale ma
soprattutto giocano ruolo fondamentale per la costruzione del
personaggio, rendendolo al tempo stesso reale ma iconico.
7
Barthes, R., Miti d’oggi, Torino, Einaudi, 2005, p. 81.
8
Barthes, R., Miti d’oggi, Torino, Einaudi, 2005, p. 72.
7
1.2 DAL MUTO AL SONORO
Riprendendo gli studi di linguistica generale, Saussure afferma
che il linguaggio umano può essere studiato sia sotto l'aspetto della
langue, quindi il lato sociale e formale della lingua, sia sotto l'aspetto
della parole.
Questo approccio, secondo Barthes, può essere applicato anche
al vestito: “riguardo al vestito sembra estremamente utile distinguere
analogamente una realtà, che proponiamo di chiamare costume,
corrispondente alla langue di Saussure, e una seconda realtà, che
proponiamo di chiamare abbigliamento, corrispondente alla parole di
Saussure. La prima è una realtà istituzionale, essenzialmente sociale,
indipendente dall'individuo, una sorta di riserva sistematica,
normativa, all'interno della quale il singolo organizza la propria
tenuta; la seconda è una realtà individuale, vero e proprio atto del
"vestirsi", attraverso il quale l'individuo attualizza su di sé l'istituzione
generale del costume. Costume e abbigliamento formano un insieme
generico, al quale proponiamo di riservare ormai il nome di "vestito".
9
Nel cinema, almeno fino alla fine degli anni '20 del '900 con
l'introduzione del sonoro, la comunicazione verbale è inesistente ed è
il silenzio a comunicare: “il silenzio del cinema muto è una forma alta
di comunicazione, è un non silenzio perché lascia spazio alla mimica,
ai movimenti del corpo, ai sorrisi e lacrime che scendono su visi in
primo piano, ed arriva a comunicare appieno una situazione o un
disagio”
10
.
Ma è il silenzio il solo a comunicare? In quest'affermazione
molto importante si trascura, come spesso accadrà nella storia del
cinema, il costume, fondamentale biglietto da visita per la costruzione
di un personaggio e della sua storia.
Il progetto semiotico del costume nei primi anni della storia
9
Barthes, R., Storia e sociologia del vestito in Scritti. Società, testo,
comunicazione, a cura di Gianfranco Marrone, Torino, Einaudi, 1998, p. 66.
10
Patrizia Miglietta in http://www.cinemonitor.it/14794-dal-cinema-muto-al-
dialogo-senza-suono/ cons. il 28/01/2012.
8
del cinema era in realtà poco studiato: le prime attrici del cinema
muto, in una fase in cui i grandi costumisti ancora non esistono e i
mezzi per la creazione di un film sono piuttosto esigui, provvedevano
da sole al proprio guardaroba. In poche parole l'attrice
economicamente più benestante e con un guardaroba più
soddisfacente lavorava, le altre no.
Una netta differenza è evidenziabile tra l'uso del costume nel
cinema muto e l'uso dello stesso con l'avvento del sonoro: l'autrice
Jane Gaines pensa che il cinema muto sia “improntato ad una politica
dello spreco dei significanti, dei dettagli -mentre il sonoro- più
equilibrato e preoccupato di colpo che i costumi non distolgano
l’attenzione dai dialoghi”
11
.
Uno dei progetti più riusciti di creazione del personaggio
tramite la comunicazione non verbale dei costumi è senza dubbio la
nascita dell'iconica Theda Bara, tra le prime dive del cinema prodotte
“a tavolino” a cominciare dal nome, anagramma di Arab death.
I produttori hollywoodiani le modellano addosso un
personaggio esotico, la dipingono come donna tentatrice e misteriosa
tanto da coniarle appositamente l'aggettivo vamp in seguito alla sua
interpretazione nel film “A Fool There Was” tratto dal racconto
“Vampire” di Kipling.
11
Gaines, J., in
http://pcalefato.xoom.it/pcalefato/costume_cinematogr
afico.htm cons. il 20/01/2012
1.1 Theda Bara interpreta Cleopatra 1.2 Theda Bara
9
Il progetto è molto curato, sia per i ruoli che le verranno
affidati tra i quali Cleopatra (fig. 1.1) e Salomè, sia grazie al trucco ed
in particolar modo ai costumi volutamente ostentati e ridondanti
(fig. 1.2-1.3).
Per Theda Bara ma in generale per le dive del muto (Clara
Bow, Mea Murray, Gloria Swanson tra le più importanti) suggerisce
ancora Gaines, “impersonare un ruolo e dar corpo ad un personaggio
si riduceva ad una sorta di dress-plot, e cioè ad una narrazione basata
sostanzialmente sul cambio di costume, sul passare da un costume
all’altro.”
12
Con l'avvento del sonoro l’introduzione del dialogo ha giocato
una nuova carta nella caratterizzazione e nella costruzione del
personaggio per mezzo del parlato, dello “strumento” voce; questo ha
portato ad una sorta di ridimensionamento del ruolo del costume che
deve fare in modo di non distogliere l'attenzione del pubblico non
ancora pienamente educato ad ascoltare un film.
Altro problema non trascurabile è l'impossibilità di utilizzare
alcuni tipi di tessuti come ad esempio il taffetà, molto “rumoroso” e
non pratico, sostituito dal velluto ed il jersey e alla difficoltà di
utilizzare alcuni gioielli per il quale era “diventato proibito indossare
quelli troppo tintinnanti”.
13
12
Gaines, J., in http://pcalefato.xoom.it/pcalefato/costume_cinematografico.htm
cons. il 20/01/2012.
13
Chierichetti, D., Hollywood costume design, Londra, Studio Vista, 1976, p. 9.
1.3 Theda Bara e l'identità esotica
10
1.3 DAL BIANCO E NERO AL COLORE
Nel film Jezebel
14
(in italiano La figlia del vento, 1938) del
regista William Wyler, Bette Davis, che ne interpreta la protagonista,
arriva ad un importante ballo di provincia con un abito rosso o
perlomeno “un abito che si diceva fosse rosso”
15
(fig. 1.5-1.6) in
quanto il film è in bianco e nero. Lo schermo ci mostra in realtà un
grigio scuro, in contrasto con gli altri abiti da ballo, dal bianco delle
giovani dame al nero degli uomini, ma tanto basta per rendere l'abito
ed in questo caso la protagonista provocante, con “questo tono ribelle
tuttavia impercettibile ai nostri occhi ma che nell'animo vedevamo
rosso”.
16
Probabilmente anche questo effetto è da considerarsi come
amplificazione, considerata da V olli come “quel tanto di eccesso che
permette alla spettacolarità si instaurarsi”
17
; in questo caso, oltre la
spettacolarità, il costume ci veicola ed amplifica un colore, che
possiamo solo immaginare, ma tramite questo costruiamo l'identità del
personaggio.
14
Dramma che racconta la storia di una giovane proprietaria di piantagioni che
esaspera con i suoi capricci l'uomo amato tanto che la lascia per sposare un'altra
donna. Quando anni dopo lui s'ammala di febbre gialla la protagonista lo
raggiunge in quarantena, disposta a morire con lui o per lui.
15
Vedrès, N., Vestire le immagini in Verdone, M., Scena e costume nel cinema.
Antologia storico critica,Roma, Bulzoni Editore, 1986, p. 38.
16
Vedrès, N., Vestire le immagini in Verdone, M., Scena e costume nel cinema.
Antologia storico critica,Roma, Bulzoni Editore, 1986, p. 38.
17
V olli, U., Block Modes il linguaggio del corpo e della moda, Milano, Lupetti-
Editore di comunicazione, 1998, p.95.
1.4 Locandina di Jezebel
11
Forse proprio per evitare di accostare una personalità troppo
provocante ad una sposa, nel 1937 il film The bride wore red viene
tradotto in italiano con il titolo La sposa vestiva di rosa, colore più
adatto probabilmente ad una futura moglie, nonostante la protagonista
Joan Crawford, interpreti una “ballerinetta”
18
e che l'abito che dà il
titolo al film sia ornato da circa duemila perline di colore rosso. Il
messaggio viene manipolato ed il mezzo è proprio il bianco e nero.
Nel corso di un secolo circa, riscontrabile dalla metà del 1800 alla
metà del '900, il colore si insinua nella vita delle persone tramite un
certo numero di mezzi che precedentemente prevedevano il bianco e
nero: la fotografia, il cinema e per ultima la televisione.
Si passa da un sogno in bianco e nero ad un'innovazione che
spiazza, nonostante il colore rimanga per un lungo periodo un'azione
di nicchia. Jacques Aumont
19
sottolinea il carattere prettamente
culturale, simbolico e non assoluto del colore in generale: solo il
colore rosso, in tutte le culture e nel tempo, connota sempre l'amore, il
peccato o il sacrificio.
18
Giacovelli, A., Cinema dove 2007, Roma, Gremese Editore, 2006, p.145.
19
Jacques Aumont, insegna all’Università della Sorbonne Nouvelle-Paris 3. È
direttore del Collège d’Histoire de l’Art cinématographique presso la
Cinémathèque française
1.5 Bette Davis in una scena del film
1.6 L'abito rosso indossato in Jezebel
12