Modificare la propria vita cambiando il modo di pensarla. Come l'ottimismo influisce sulla capacità di superare gli stress, riprogettando positivamente la propria esistenza
Resiliency, un costrutto complesso: definizioni, studi e teorie
Il termine resiliency (in italiano “resilienza”) deriva dal verbo latino resalio, iterativo di salio, che significa “rimbalzare”. Il termine è stato poi ripreso dalla fisica per indicare la capacità di un materiale di resistere a un urto o a forti pressioni, senza rompersi. Nel linguaggio informatico la resiliency è la qualità di un sistema che gli permette di continuare a funzionare nonostante eventuali anomalie (Malaguti, 2005).
La psicologia ha adottato questo termine per indicare la capacità di un individuo di superare gli eventi avversi e i traumi che possono capitare durante la vita, più o meno gravi. Con il superamento s’intende non solo contrastare le avversità ma anche la capacità di riprogettare positivamente il proprio futuro. Secondo Marie Anaut (2003), come riporta Malaguti (2005), le definizioni di resiliency nella letteratura scientifica, si concentrano su due percorsi in particolare: lo sviluppo normale nonostante i fattori di rischio e la ripresa della propria esistenza dopo un trauma. Vanistendael (Putton A., Fortugno M., 2006) specifica che la resiliency è una forza presente in ogni persona, la sua espressione è influenzata da più fattori che verranno indicati in seguito.
Il problema, secondo Scelles (Malaguti, 2005), è che gli studiosi hanno trattato la resiliency soprattutto come un concetto, mentre invece essa si configura come un “processo” in divenire. Essa, infatti, implica l’attitudine a sublimare e a riflettere su quanto sta accadendo. Un individuo resiliente che vive un evento stressante e/o traumatico, lo affronta, ne soffre e reagisce (Cyrulnik B., Malaguti E., 1999), non nega il trauma subito, anzi lo conserva nella memoria e lo integra nella propria identità, riconosce che fa parte a pieno titolo della propria storia ma non per questo permette che questo gli impedisca sviluppi futuri diversi e positivi.
Secondo Vaillant la resiliency è un processo che nasce dall’integrazione di elementi presenti nel soggetto e nel suo contesto, con l’interazione di tre dimensioni: biologica, psicologica e sociale (Putton e Fortugno, 2006). Secondo Cyrulnik, vi sono due meccanismi di difesa che il resiliente mette in atto quando, dopo aver subito un trauma, si trova anche ad affrontare un ambiente sociale ostile e diffidente: la differenziazione e l’altruismo.
La differenziazione viene messa in atto quando la vittima incontra riprovazione sociale per quanto gli è successo, il suo dramma non è riconosciuto e anzi è giudicato quasi una sua responsabilità dalla società. Allora la vittima non resiliente ne prende le distanze, distingue sé da quanto gli è successo, non ne parla, lo nega perdendo una parte della propria identità. La persona resiliente mette comunque in atto questo meccanismo, però rimane consapevole di quanto gli è capitato e continua a vivere e a produrre in modo socialmente accettabile, per cui è un meccanismo adattivo funzionale. Inoltre, come spiega Marty (2001), vi sono due aspetti su cui è necessario porre attenzione quando un individuo affronta un evento traumatico: l’effrazione e il rimedio (Malaguti, 2005). In questo senso, le spinte che avverte l’individuo e che si osservano nei suoi comportamenti, sono di segno opposto: una rappresenta una progressione, indica che sta avvenendo una trasformazione, mentre l’altra è una difesa contro la messa in atto di azioni che aprano l’individuo al sostegno sociale, all’individuazione di risorse e soluzioni, per mantenerlo sotto il controllo dei meccanismi di difesa.
Per la Malaguti, lo studio del processo resiliente, costringe i clinici a guardare all’evento traumatico non più come ad uno stigma nella vita dell’individuo che influenza tutta l’esistenza da quel momento in poi (Malaguti, 2005). L’accento è sempre più spesso posto sui fattori di protezione e sulle risorse della persona, piuttosto che su quelli di rischio e sulle conseguenze negative del trauma.
Gli individui resilienti sono rimasti per molti anni ai margini degli studi e dell’interesse di medici e psicologi, troppo concentrati sugli effetti negativi del trauma, dimentichi degli individui che, pur avendo vissuto lo stesso evento (come ad esempio, la privazione delle cure materne nei bambini di Spitz), ne hanno sofferto ma non ne sono rimasti sopraffatti. Anche gli individui resilienti però non lo sono sempre nello stesso modo e in ogni momento della vita, poiché la resiliency è una competenza dinamica, che si modifica in base all’ambiente e alla fase di sviluppo della persona (Cyrulnik B., Malaguti E., 1999).
Vaillant sottolinea che essa è “un processo che si attua in modo diverso nei vari individui a seconda della personalità, dei modelli di riferimento, degli apprendimenti, delle vicissitudini” (Putton A., Fortugno M., 2006, 15). Un avvenimento traumatico, che colpisce un’intera comunità o una famiglia, può essere una spinta trasformativa ed evolutiva, foriera di nuove prospettive e dello sviluppo di risorse inedite (Malaguti, 2005).
Questo può avvenire solo se l’accento viene posto, da chi si cura della persona, sulle potenzialità e i fattori di protezione, piuttosto che sugli effetti negativi del trauma. Secondo Goleman (1995), la capacità di resistere e superare gli stress della vita, si fonda su un’adeguata gestione delle emozioni. Egli descrive tre diverse categorie di persone:
• Gli “autoconsapevoli”, che riconoscono un’emozione nel momento stesso in cui la sperimentano, sanno pertanto verbalizzarla comunicandola all’esterno. Questa capacità sembra caratteristica di persone sicure di sé e autonome, che godono di buona salute psicologica e tendono ad avere una visione ottimistica della propria vita.
• I “sopraffatti”, i quali si sentono sommersi dalle proprie emozioni, che non riescono a gestire e controllare. Questo atteggiamento è possibile riscontarlo in individui volubili, in balia delle proprie emozioni, dalle quali si fanno guidare nelle loro azioni, senza un’adeguata mediazione razionale.
• I “rassegnati”, sono maggiormente consapevoli delle proprie emozioni ma si pongono nei loro confronti in maniera passiva. In questa categoria sembrano rientrare due tipologie di persone, quelle che sperimentano prevalentemente emozioni positive che non sono quindi motivati a modificare, e coloro i quali avvertono principalmente sentimenti negativi. Per quanto questi provochino loro sofferenza, essi rimangono passivi accettando la situazione senza intenzione di modificarla. Quest’ultima categoria sembra avere meccanismi simili a quelli del pessimista descritto nei capitoli precedenti.
Goleman, inoltre, nota come in una situazione di emergenza, vi siano due principali modalità di reazione, l’una tipica delle persone che pongono maggiore attenzione ai dettagli e all’ambiente circostante per capire come comportarsi, l’altra associata a individui che invece cercano di distrarsi ignorando il problema. I primi saranno maggiormente pronti ad intervenire ma rischiano di amplificare la sensazione di allarme e preoccupazione, soprattutto se essa non è mediata dall’autoconsapevolezza. I secondi, invece, minimizzano la portata degli eventi e l’esperienza soggettiva e questo li mantiene più calmi ma meno pronti all’azione.
Questo brano è tratto dalla tesi:
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Informazioni tesi
Autore: | Lisa Chiaradia |
Tipo: | Tesi di Laurea Magistrale |
Anno: | 2012-13 |
Università: | Pontificia Università Salesiana |
Facoltà: | Psicologia |
Corso: | Psicologia |
Relatore: | Paolo Meazzini |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 227 |
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