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Gadamer e Derrida in dialogo. Testo, metafisica, alterità.

Quale eredità? (Explicit)

L’inevitabile parzialità di un lavoro emerge nel momento in cui se ne sancisce la conclusione. Per quanto riguarda il mio, la sua buona riuscita potrà misurarsi a partire dal modo in cui questa constatazione verrà letta: ogni testo è dotato di inesauribili risorse interpretative, e se ciò apparirà chiaro vorrà dire che sarò riuscito quantomeno a delineare un margine di prossimità tra ermeneutica e decostruzione. L’argomento è senz’altro ancora aperto a nuovi contributi, ma nei limiti di questo elaborato almeno tre cose saranno state affermate con decisione: la pregnanza, la legittimità e la fecondità filosofiche della posizione, certo provocatoria, di Jacques Derrida nei confronti Hans-Georg Gadamer.
Non si legga ciò come uno sbilanciamento a favore dell’uno piuttosto che dell’altro autore. Si è trattato, se mai, di iniziare a rendere giustizia ad un incontro le cui implicazioni restano ancora tutte da calcolare. A scanso di ulteriori equivoci, vorrei quindi brevemente soppesare l’eredità di questi due pensatori a circa un decennio dalla loro scomparsa.
Ermeneutica e decostruzione, lo si è visto, non possono intendersi semplicemente come metodiche di interpretazione dei testi, in primo luogo perché rifiutano entrambe la nozione di metodo propria delle scienze dello spirito (mutuata da queste ultime dalle scienze della natura), in secondo luogo perché la loro portata si estende ben oltre i confini della mera applicazione in ambito filosofico-letterario. La caratterizzazione dell’ermeneutica come filosofia del dialogo e la testualità generale elaborata dalla decostruzione conducono infatti queste due filosofie verso la totalità del reale, in un confronto diretto con la problematica rappresentata dall’avvento dell’altro – problematica che, a ben guardare, segna fin dalle origini il vivere dell’uomo.
Va detto però che il carattere intrinsecamente politico o, almeno, pratico di queste due filosofie non è sempre stato in grado di parlare con voce propria, se a lungo si è scritto di Gadamer e di Derrida come di filosofi inclini al disimpegno se non addirittura al conservatorismo. Sul primo pesavano infatti i sospetti circa la sua riabilitazione in Verità e metodo delle nozioni di autorità e pregiudizi in senso anti-illuminista. Per quel che riguarda Derrida era invece la forma oscura e densa dei suoi scritti a rappresentare un problema per la comunità intellettuale. I primi testi, quelli pubblicati nel cruciale decennio che va dal 1967 al 1978, rispondevano solo implicitamente alle necessità dell’attivismo politico in cerca di una radicale rottura con la società borghese. Furono Sartre, Foucault (1926-1984), Deleuze (1925-1995) e, in ambito tedesco, Marcuse (1898-1979) ed Habermas (1929-) i principali maitre à penser di quella che Balestrini e Moroni hanno definito l’«orda d’oro», ovvero l’ondata giovanile che in quegli anni tentò, con successo parziale, la rivolta esistenziale prima e sociopolitica poi. Solo nei due decenni successivi Derrida poté ricoprire questo difficile ruolo, quando ormai andavano disgregandosi le classiche opposizioni politiche con le quali il suo pensiero era del tutto incompatibile. Se, infatti, certe affermazioni di Foucault o della coppia Deleuze/Guattari iniziano a sentire il peso dell’usura, decostruzione ed ermeneutica filosofica costituiscono ancora un modello per ogni pratica intellettuale che intenda fare i conti con la complessità delle democrazie e, più in generale, delle odierne società occidentali, rinunciando ad ogni retorica o visione ideologica unilaterale.
Insistendo maggiormente sul dialogo, l’ermeneutica può vantare una più forte vocazione comunitaria di quanto non possa fare la decostruzione. Quest’ultima, che per con-verso pone in rilievo la differenza, la rottura, l’indeterminatezza, l’assenza e la distanza, può tuttavia costituire il più radicale strumento di analisi a nostra disposizione in circostanze storiche, come quelle attuali, dove il rapporto fra testo e fuori-testo è quanto mai problematico, dove i concetti di comunicazione e rappresentazione necessitano di un profondo ripensamento: le sempre più fitte reti semantiche e mediali su cui si fonda il web 2.0, l’autoreferenzialità dei mezzi di comunicazione, la condivisione di contenuti in tempo reale, la serialità televisiva, la personalizzazione dei palinsesti, la progressiva oggettivazione delle identità virtuali ecc. sono fenomeni che complicano i paradigmi sociologici e filosofici tradizionali, senza essere per questo sintomi di decadenza. Il dialogo a cui fa riferimento Gadamer, oggi ancora più che cinquant’anni fa, sembra costituire ormai solo un idealtipo a cui tendere, mentre la sua concezione dell’opera d’arte, tra le più valide ed efficaci del Novecento, è chiamata a mostrare tutta la sua attualità di fronte al progressivo sfumare e dilatarsi del concetto stesso di arte.
Concludendo, una corretta integrazione tra ermeneutica e decostruzione, tutta ancora da profilarsi, potrà auspicabilmente dare adito a quella rifondazione di una soggettività forte non metafisica che, terminato il ritiro della marea post-modernista, sarà la prima esigenza della filosofia a venire e non solo. Il presente elaborato, se non lo si fosse compreso, guarda in tale direzione.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Gadamer e Derrida in dialogo. Testo, metafisica, alterità.

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Informazioni tesi

  Autore: Pietro Terzi
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2011-12
  Università: Università degli Studi di Bologna
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Filosofia
  Relatore: Carlo Gentili
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 57

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