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Il non-detto di Heidegger

Puntualizzazioni sulla conferenza dell’essenza della verità

La "svolta" fu per Heidegger il luogo di ripensamento del concetto di essere connesso a quello dell’essenza della verità, e di come questi siano stati legati nel corso della storia del pensiero occidentale che, in qualità di pensiero metafisico, si contraddistingue come storia dell’oblio dell’essere.
Alcuni momenti della speculazione heideggeriana, in riferimento al pensiero greco antico, mostrano la concezione della verità legata a quella della comprensione del λόγος. In occasione della Kehre avviene però un cambiamento di prospettiva che riguarda il ripensamento del rapporto tra essere e uomo tale per cui l’accesso alla verità (lo scoprimento degli enti) non riguarda più l’ambito dell’apertura, della trascendenza e del progetto dell’esser-ci (Dasein), ma viene considerato come il darsi originario della verità, come manifestarsi della cosa, che diventa il presupposto di ogni comportamento disvelante dell’esser-ci. Il primo passo compiuto da Heidegger nel saggio riguarda l’indagine sulle declinazioni di senso che il concetto di verità ha assunto nella storia occidentale e che le sono state attribuite dal senso comune, concentrandosi principalmente sul collocamento di questo nell’ambito logico-linguistico, tanto che la riscoperta del carattere di apofanticità del λόγος, legato alla concezione della verità, ha permesso ad Heidegger di dimostrare come questo si possa identificare nell’asserzione e come possa assumere i tratti morfologici della predicazione di qualcosa in quanto qualcosa, servendosi dello studio preliminare della struttura sintattica circa l’in-quanto.
Di conseguenza l’enunciazione, nel momento in cui si propone come vera, sembra dover avere la medesima "struttura di un dire che dice a partire dalla cosa indicata [...], di uno svelare e di un render-manifesto" che fa in modo che l’ente si dis-veli per ciò che è, in questo sta la sua possibilità di esser-vero o di esser-falso, a patto che ci si situi in un’apertura originaria dell’ente soggetto ad enunciazione, e che questo sia in qualche modo aperto al rapporto. Il lasciar-vedere enunciativo non è però mai uno scoprire primario, in quanto per cogliere e per determinare predicativamente l’ente, l’esserci deve stare in qualche modo già in rapporto ad esso, in un ambito di significazione dell’ente che è già dato (precomprensione) ad esempio come oggetto d’uso, in quanto la comprensione dell’ente avviene in un andarsi reciprocamente in-contro, in questo caso, nell’ambito dell’utilizzabilità. La struttura dell’in-quanto, proprio per la sua forma apofantica, è determinata come configurazione originaria, ante-predicativa che appartiene all’atteggiamento fondamentale dell’esserci, ovvero il comprendere. La "svolta" segna l’abbandono della prospettiva che attribuisce all’esserci un ruolo di fondazione in rapporto al dis-velamento dell’ente, e che vede nel λόγος apofantico la capacità di instaurare un rapporto con l’ente che permetta la creazione delle condizioni di manifestatività dell’ente da se stesso. Heidegger lega il λόγος apofantico all’atteggiamento (Verhalten) scoprente dell’esserci che è fondamentale, ma non più autonomo e diventa perciò assimilabile ad un potere, una possibilità che è data solo se si concepisce in una libertà di manifestazione dell’ente in quanto tale, perciò da se stesso. Il λόγος apofantico nel senso di asserzione "è possibile soltanto dov’è libertà". Con ciò Heidegger intende che: "non è il λόγος a produrre per la prima volta un rapporto con l’ente in quanto tale, bensì esso si fonda a sua volta su tale rapporto, [...] il λόγος apofantico non solo non instaura il rapporto con l’ente, ma non produce nemmeno la manifestatività dell’ente; tale λόγος scompone solamente, asserendo, ciò che è già manifesto, ma non forma esso stesso la manifestatività dell’ente".
Secondo quanto appena detto, il λόγος in sé non può determinare la manifestatività dell’ente, in quanto essa è qualcosa di pre-predicativo e si costituisce come verità pre-logica, la quale assume un carattere vincolante riguardo all’accadere ontologico della libertà, o essere-libero come lo chiama Heidegger.
Come abbiamo avuto modo di constatare, le tematiche al centro dell’opera sono la verità intesa come "presenza originaria", come "autentica auto-manifestazione (presenza che implica un ritrarsi ed il rimando ad un fondo di nascondimento essenziale)", e la libertà come "lasciar-essere l’ente" e quell’ "affidarsi a ciò che è (già) manifesto", inteso come fondamento, presupposto della misura della conformità e dell’adeguatezza rappresentativa. L’indagine sulla verità in quanto verità preannuncia una struttura di autoriferimento che tenta di tematizzare una nozione a partire esclusivamente da se stessa, mostrando come l’anima della ricerca non sia più quella di pensare la nozione nel campo limitato della comprensione dell’esserci. Per questo si trova il senso nel pensare la verità come ambito già da sempre dato nell’apertura dell’esser-ci e, proprio nel momento in cui la si presuppone come già da sempre data, si apre per l’uomo la possibilità di preservare l’originarietà di questo suo darsi come condizione essenziale sia alla strutturazione della comprensione, sia a quella del progetto che è un carattere intrinseco dell’esistenza umana. La presa di coscienza del fatto che l’uomo e-siste già da sempre nella verità permette di comprendere il perché Heidegger, in Essere e Tempo, affermi che «essere e verità "sono" co-originari», il che si trova in linea di coerenza con l’intento fondamentale dell’opera presa da noi in esame, la quale si interroga sul concetto di verità, o meglio ancora, su come la verità sia diventata concetto, e per far ciò Heidegger parte, come è stato già accennato, dalla fase in cui la verità è colta come carattere dell’asserzione. Questa determinazione della verità non ne esaurisce il senso (oggetto dell’indagine filosofica), ma è evidente che sia la più comune, perciò è da qui che Heidegger parte, da questa condizione base per cui una declinazione di senso della verità si applica al carattere vero dell’asserzione, una condizione che però deve essere soddisfatta affinché si dia in generale un concetto di verità. Questo atteggiamento è rispecchiato dall’impostazione del primo paragrafo del saggio, il quale argomenta la distinzione tra la verità della cosa e la verità dell’asserzione, riferendosi a che alla Metafisica di Aristotele quando parla della verità in rapporto agli enti semplici e anche quando ne parla in riferimento agli enti composti. Ciò che distingue Heidegger da Aristotele su questo punto è che se per lo Stagirita la verità negli enti semplici, intesa come identità tra essere e esser-vero, è un carattere dell’ente che dipende dalla diretta apprensione dei sensi, non comportando come suo opposto il falso, ma semplicemente una mancata apprensione o accesso all’ente in questione, per Heidegger intendere la verità legata all’asserzione significa constatare la concordanza tra ciò che essa dice e la cosa sulla quale essa asserisce. In entrambi i casi si parla di concordanza facendo leva sulla definizione di verità come adaequatio che si pone come presupposto. Il riferimento di Heidegger ad Aristotele ci permette di rilevare un punto interessante, nella Metafisica infatti si legge: «Vero e falso negli essere incomposti sono questo: il vero è l’intuire (thighein: toccare con la mente) e l’enunciare (phanai: interpellare) [...] mentre non coglierli (thigganein) significa non conoscerli (agnoein)». Heidegger considera il capitolo 10 del Libro IX della Metafisica il culmine dell’ontologia aristotelica, perché si pone come documento fondamentale che testimonia sia "l’orientamento primario del problema della verità verso la conoscenza come visione (Anschaung) presso i Greci, sia dell’inclusione del problema della verità nel problema dell’essere". Heidegger riprende il concetto di "toccare" che riguarda il rapportarsi agli enti semplici di Aristotele, e lo connette con la modalità di dis-velamento che illumina l’ente che viene-incontro, limitandosi però ad instaurare un rapporto con esso solo sulla base del moto di scoprimento che compie a partire da se stesso; in questo senso dice Heidegger: «il guardare stesso è il puro scoprire».
[...]

Questo brano è tratto dalla tesi:

Il non-detto di Heidegger

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Informazioni tesi

  Autore: Hélène Sanchez
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2011-12
  Università: Università degli Studi di Milano
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Filosofia
  Relatore: Franco Trabattoni
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 150

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