Il danno ingiusto
La legittima difesa putativa
Come fin qui esaminato, la reazione difensiva, pur concretizzandosi in un comportamento in sé illecito e produttivo di danno, viene scriminata proprio in quanto è finalizzata a reprimere un fatto illecito; tale reazione dovrà altresì essere proporzionata all’offesa attuale ed ingiusta che l’ha provocata, altrimenti, nell’ipotesi in cui il soggetto aggredito ecceda colposamente nel difendere un proprio o un altrui diritto, bisognerà tener conto delle conseguenze lesive corrispondenti alla predetta reazione e determinarne l’eventuale risarcibilità.
Diverso dall’eccesso colposo è l’istituto della c.d. scriminante putativa, che si configura quando un soggetto reagisce ad un’aggressione supponendo erroneamente di agire in difesa di un bene minacciato: costui, cioè, crede di trovarsi esattamente nella situazione prevista dall’art. 2044 c.c. pur non trovandovisi.
Il codice penale contiene una specifica disciplina al riguardo nell’art. 59, secondo cui l’erronea supposizione della sussistenza di una circostanza di esclusione della punibilità, viene valutata a favore del soggetto.
Secondo la giurisprudenza ormai consolidata si ritiene che, affinché possa applicarsi l’esimente della legittima difesa, è necessario che l’errore sia scusabile, ovvero che l’agente fondi il proprio convincimento (di trovarsi in una situazione di pericolo) sulla base di obbiettivi elementi di fatto.
Per questo motivo, la giurisprudenza di legittimità tende ad escludere la legittima difesa putativa qualora l’animus dell’agente sia di profittare di una situazione di fatto, anche se da lui non causata, per offendere più che per difendersi, contribuendo volontariamente e consapevolmente al crearsi di una situazione di pericolo attuale al quale egli deliberatamene si espone; analogamente, la esclude quando si tratti di sfida liberamente accettata nella quale ciascuno assume contemporaneamente la qualità di aggressore e di aggredito, e in cui non vi è spazio neanche per la provocazione.
Nell’ambito del diritto civile, che, come si è detto, in tema di scriminanti contiene una disciplina meno puntuale, non si rinviene un analogo riferimento normativo che disciplini la scriminante putativa. Anche per quanto attiene alla questione della risarcibilità del danno cagionato dal soggetto che erroneamente riteneva di trovarsi in una condizione di pericolo grave ad un bene giuridico proprio o altrui, si fa spesso ricorso ai principi elaborati in materia dalla dottrina e dalla giurisprudenza penali.
Tuttavia, secondo una parte della dottrina, peraltro risalente, non sembra possibile utilizzare gli schemi penalistici in tema di responsabilità extracontrattuale dal momento che, sotto il profilo funzionale, la fattispecie civilistica in esame non coincide con quella prevista dal codice penale.
Tale assunto discende, in primo luogo, dall’impossibilità di dare applicazione analogica all’art. 59 c.p., impossibilità costituita dalla diversità degli elementi costitutivi dei due istituti: la disposizione penalistica, difatti, richiede un pericolo immaginario, mentre l’art. 2044 un’offesa reale.
In secondo luogo, il sistema del diritto penale è fondato sul principio della responsabilità per fatto proprio colpevole, cosicché nell’ipotesi in cui il soggetto ritenga erroneamente di agire in presenza di determinate circostanze, la legge privilegia la rappresentazione soggettiva dello stesso, che consente di escludere, nell’ipotesi esaminata, l’elemento della colpa nella causazione del fatto costituente reato.
Analogo ragionamento non può farsi in ambito civilistico: per l’art. 2044 c.c. ciò che rileva ai fini dell’esclusione della responsabilità risarcitoria è la effettiva sussistenza di un’offesa obiettivamente ingiusta, che costituisce una componente essenziale di tale esclusione: non è quindi possibile fare “esclusivo riferimento a stati d'animo meramente soggettivi, i quali del resto, in quanto attinenti all'interiorità psichica del soggetto, devono necessariamente essere desunti, applicando le comuni massime di esperienza, dalle circostanze esteriori”.
Non essendo, pertanto, applicabile per analogia, attesa la differente ratio, la disposizione contenuta nel citato art. 59 c.p. – e non potendosi, di conseguenza, ritenere esente da responsabilità colui che ritiene erroneamente sussistente la necessità di difendere un diritto proprio od altrui – si è reso necessario individuare una disciplina applicabile alla fattispecie considerata.
La giurisprudenza di merito, in un lontano precedente, ha affrontato la questione con una decisione che è stata definita apprezzabile sotto il profilo dell’equità, ma criticabile per quanto riguarda la conformità alle norme di diritto.
Essa ha evidenziato che nella legittima difesa putativa il pregiudizio è una conseguenza dell’errore scusabile in cui è incorso il soggetto; in quest’ultimo, quindi, manca il requisito della colpevolezza che, insieme con l’antigiuridicità, concorre a realizzare il fatto illecito produttivo di danno.
La fattispecie che ne deriva integra, secondo tale orientamento, un’ipotesi di fatto non antigiuridico, al quale sono collegati effetti non risarcitori, sebbene qualificabili in termini di indennizzo, valutabile dal giudice secondo equità, in analogia con la previsione dell'art 2045c.c..
Una simile impostazione è stata criticata da quella parte della dottrina che esclude la configurabilità, nel nostro ordinamento, di una categoria generale di atti leciti dannosi; sul punto, prescindendo per il momento dalla questione della configurabilità della categoria anzidetta, in relazione alla quale la più attenta dottrina avanza numerose riserve, è interessante notare come la giurisprudenza sopra richiamata è stata in seguito, anche e di recente, confermata da altre pronunce della Corte di Cassazione.
Infatti, l’impostazione di coloro i quali ritengono applicabile l’art. 2045 c.c. alla legittima difesa putativa – esonerando il soggetto da qualsiasi responsabilità (e al contrario di coloro che, invece, riconducono la fattispecie nell’abito dell’art. 2043 c.c., di modo che la vittima sia chiamata a risarcire il danno in base alle regole generali della responsabilità) – non prende in considerazione il fatto che colui che agisce in stato di legittima difesa putativa certamente non realizza la fattispecie prevista dalla norma, perché la situazione di pericolo è soltanto supposta.
La reazione, invero, si dirige nei confronti di un soggetto che è estraneo rispetto all’azione, in quanto, a sua volta, non ha posto in essere un comportamento illecito; essa, invece, per essere scriminata deve dirigersi nei confronti dell’aggressore e non di un terzo.
Nonostante le osservazioni sollevate da una parte minoritaria della dottrina – secondo cui le previsioni legislative delle cause di giustificazione hanno natura di norme eccezionali – la maggioranza degli interpreti ritiene di dover affermare che le cause di giustificazione non fissano delle regole extra ordinem, ma costituiscono espressione di principi generali dell’ordinamento.
Esse, allora, rispondono all’esigenza, in presenza di vari interessi contrapposti, tutti bisognosi di tutela, di ridistribuire le conseguenze pregiudizievoli a seguito di un’operazione di bilanciamento degli interessi medesimi.
Così si esprime anche la Suprema Corte, statuendo che l’esimente di cui all’art. 2045 “può essere, infatti, applicata per analogia atteso il suo carattere non eccezionale, individuandosi nella stessa un caso di danno oggettivamente ingiusto onde tranquillamente di essa può farsi, ripetesi, applicazione stante nella legittima difesa putativa e nello stato di necessità l’assenza dell’elemento soggettivo dell’illecito e la estraneità del danneggiato al fatto che ha provocato il danno”.
Nell’ambito di tale orientamento, l’art. 2045 c.c. è espressione di un principio di carattere generale, in base al quale tra due situazioni di pericolo – l’una riferibile a colui che pone in essere l’azione necessitata, l’altra relativa al terzo – la legge sceglie quella meno grave.
Il terzo pone in essere un fatto antigiuridico, ma in quanto si trova nell’alternativa tra commettere un illecito e subire esso stesso un danno.
L’indennizzo previsto in tal caso consente, all’evidenza, di contemperare le opposte esigenze, quella del soggetto necessitato, che non commette un illecito ma procura un danno, e del terzo, che senza alcuna colpa subisce un pregiudizio.
La situazione che si realizza nello stato di legittima difesa putativa appare, allora, sotto il profilo da ultimo considerato, analoga alla fattispecie dello stato di necessità: vi è, infatti, un soggetto che agisce nell’erronea convinzione di esservi costretto e, quindi, al fine specifico di salvare sé od altri da un grave pregiudizio.
Si deve sottolineare, tuttavia, che l’analogia è limitata all’esigenza di contemperamento degli opposti interessi, poiché nell’ipotesi considerata tale pregiudizio, a differenza della situazione prevista dall’art. 2045 c.c., non necessariamente si riferisce ad un danno grave alla persona.
L’azione, in ogni caso, arreca danno ad un terzo, perché tale è certamente colui che subisce l’aggressione senza avervi dato causa.
Tali elementi sono perfettamente compatibili con quelli in presenza dei quali la legge ha stabilito la corresponsione di un indennizzo, in favore del terzo ed a carico dell’autore del danno.
Pertanto – attesa l’ammissibilità di un’applicazione analogica delle scriminanti, per le ragioni indicate – può ritenersi applicabile alla fattispecie della legittima difesa putativa la disciplina propria del fatto compiuto in stato di necessità.
Di fronte a tanta incertezza, sia da parte della dottrina sia da parte della giurisprudenza, in tema di risarcibilità del danno causato dal soggetto che agisce in stato di legittima difesa putativa, sarebbe interessante valutare la teoria dell’ingiustizia, come sopra delineata.
In particolare, sulla base delle considerazioni precedentemente svolte, è nel giudizio di ingiustizia, quale parametro che interviene sul piano dell’efficacia dell’illecito civile, che possono rientrare le valutazioni relative alla eventuale assenza del carattere di ingiustizia del danno.
Sia l’analisi circa la sussistenza dell’elemento soggettivo di chi agisce immaginando di trovarsi in una situazione di pericolo, sia il riferimento all’estraneità del danneggiato – il terzo – rispetto al fatto che ha provocato il danno, potrebbero prendersi in considerazione non in quanto elementi su cui fondare l’analogia tra stato di necessità e legittima difesa putativa, bensì in un’ottica di bilanciamento degli interessi sostanziali in gioco.
In effetti, l’analisi di ingiustizia del danno porta alla predisposizione di un ordine di prevalenza tra contrapposte posizioni soggettive, in ragione di una scelta di valore; nonostante la fonte del danno sia costituita dalla condotta del danneggiante, non è detto, tuttavia, che questi debba risultare soccombente all’esito del suddetto bilanciamento.
In presenza di un conflitto tra posizioni giuridiche contrastanti, in particolare, dovranno essere individuati quei criteri di qualificazione sulla cui base operare l’integrazione dell’interesse leso del terzo nel sistema dei valori dell’ordinamento, affinché se ne possa determinare la prevalenza rispetto al contrapposto interesse del danneggiante.
Si potrebbe, così, ammettere la risarcibilità del danno del terzo ovvero esonerare il soggetto agente da ogni responsabilità non a priori ma sulla base delle regole generali proprie della responsabilità civile, operando una valutazione delle situazioni di interesse sostanziale sottese alle due posizioni giuridiche soggettive considerando, in particolare, gli elementi concreti che compongono la fattispecie di volta in volta esaminata.
Questo brano è tratto dalla tesi:
Il danno ingiusto
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Informazioni tesi
Autore: | Bruno Ando' |
Tipo: | Tesi di Dottorato |
Dottorato in | Diritto Europeo dei contratti e della responsabilità |
Anno: | 2014 |
Docente/Relatore: | Antonino Astone |
Istituito da: | Università degli Studi di Messina |
Dipartimento: | Istituto di Diritto Privato e Teoria del Diritto |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 250 |
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