Le mansioni del lavoratore: la tutela della professionalità tra vecchie e nuove declinazioni
La fonte del mutamento delle mansioni e la natura dello ius variandi
Successivamente alla modifica dell’art. 2103 c.c. ad opera dello St. Lav., si è posta la questione relativa all’individuazione della fonte del mutamento delle mansioni rispetto a quanto previsto dalle parti.
La mobilità interna, nella vigenza della versione originaria dell’art. 2103 c.c., era ricollegata a tre fonti differenti ossia, in primo luogo, i patti modificativi per ridefinire la materia stessa (anche oltre i limiti fissati dall’art. 2103 c.c.), in secondo luogo assumeva rilievo il potere direttivo come fonte in riferimento agli spostamenti interni all’attività convenuta e, da ultimo, rilevava lo ius variandi per gli spostamenti oltre l’ambito convenuto.
Peraltro solo tale terza fonte, lo ius variandi, era disciplinata ex lege, con specifici limiti quali esigenze dell’impresa, tutela della posizione sostanziale del lavoratore all’interno dell’organizzazione produttiva ed irriducibilità della retribuzione.
A seguito della modifica dell’art. 2103 c.c. con lo St. Lav., si è riaccesa la querelle relativa all’individuazione della fonte del mutamento delle mansioni, con lo sviluppo di due tesi contrapposte.
La prima tesi interpretativa riteneva che l’art. 13 St. Lav. avesse abolito interamente lo ius variandi del datore di lavoro ed individuava come necessario il consenso del lavoratore per un legittimo mutamento delle mansioni.
La seconda tesi, invece, riteneva che il potere di variare le mansioni in via unilaterale, operante in capo al datore di lavoro, fosse sopravvissuto alla modifica statutaria dell’art. 2103 c.c., anche se con una serie di limiti più ampi rispetto allo ius variandi nella versione originaria dell’art. 2103 c.c.
Tale seconda tesi risultava assolutamente prevalente tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, al punto di ritenere il potere di variare le mansioni in capo al datore di lavoro come un dato acquisito, giustificato dalle specifiche esigenze di organizzazione e gestione dell’attività produttiva.
A seguito dell’avvenuta riconduzione della modifica delle mansioni allo ius variandi del datore di lavoro, la dottrina si è posta la questione della natura di tale potere.
Un primo orientamento dottrinale ha esteso l’oggetto del contratto fino a ricomprendervi le mansioni equivalenti, in tal modo includendo l’esercizio dello ius variandi nell’ambito del potere direttivo in capo al datore di lavoro.
Un secondo filone dottrinale ha invece distinto il potere direttivo, inteso come potere conformativo o specificativo dell’attività dovuta in concreto dal lavoratore, dal potere di modifica delle mansioni che erano state concordate, indicandolo come ius variandi.
L’esigenza di trovare il discrimen tra potere direttivo e ius variandi, che apre la strada a questioni complesse e delicate sulla natura del contratto e del rapporto di lavoro, in realtà si pone come un falso problema, se guardato dal lato applicativo, poiché lo stato di soggezione del lavoratore è il medesimo, sia che si tratti di potere direttivo sia che operi come ius variandi.
L’indagine dovrà spostarsi, piuttosto, sulla questione dei limiti che operano rispetto al mutamento delle mansioni ex art. 2103 c.c. nella versione statutaria.
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Le mansioni del lavoratore: la tutela della professionalità tra vecchie e nuove declinazioni
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Informazioni tesi
Autore: | Riccardo Uderzo |
Tipo: | Laurea magistrale a ciclo unico |
Anno: | 2020-21 |
Università: | Università degli Studi della Tuscia |
Facoltà: | Giurisprudenza |
Corso: | Giurisprudenza |
Relatore: | Daniela Comande' |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 147 |
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