Il prestito marittimo e il divieto di usura
La condanna dell’usura nel Medioevo
Come già anticipato, nella storia vi è da sempre traccia di divieti posti al fine di scoraggiare i prestiti gravati da interessi, il più delle volte considerati veri e propri crimini.
Durante l’Impero Romano si sentì comunque la necessità di praticare le usure, poiché come visto per i prestiti ad alto rischio per il finanziatore – come nel caso del prestito marittimo – era naturale prevedere tassi d’interesse, anche molto elevati, in un certo qual modo commisurati al pericolo corso (c.d. pretium periculi).
In realtà, quando Roma si legherà indissolubilmente con il Cristianesimo, né sposerà i principi e quindi farà propria anche la condanna del prestito ad interesse.
E come visto in precedenza, nella legislazione giustinianea si ritrovano i primi “massimali” relativi all’usura su base annua. Tali massimali, con gli Imperatori bizantini Niceforo (802-811) e Basilio I (867-886), si trasformeranno addirittura in divieti assoluti per i
sudditi di riscuotere interessi.
Tuttavia, dopo l’anno mille, il tasso ufficiale d’interesse praticabile era andato aumentando progressivamente in base al corso della moneta; questo sta a significare che, malgrado la condanna religiosa del prestito ad interesse, i vari nomoteta bizantini succedutisi nel corso dell’Alto Medioevo, in un ottica realistica, non tentarono mai sul serio di proibire le usure, bensì scelsero di autorizzarle per meglio controllarle.
Nella seconda parte del Medioevo, denominato dagli storici Basso Medioevo o Medioevo Pieno, si condannò più aspramente la pratica del prestito oneroso.
I vari Pontefici succedutisi all’epoca, per mezzo dei concili ecclesiastici Lateranense II (1139), Lateranense III (1179), Lateranense IV (1215), e poi ancora con il Concilio di Lione (1274) e il Concilio di Vienne (1311), ribadiranno la condanna dell’usura, anzi, minacceranno la scomunica all’usuraio cristiano non pentito, indegno addirittura dei sacramenti e del funerale religioso.
A quell’epoca non mancavano schiere di teologi e canonisti, i quali affrontando l’argomento in chiave etica e aristotelica, erano in genere contrari a qualunque forma di usura (e quindi anche a quella praticata nel prestito marittimo), che veniva paragonata ad un vero e proprio furto. Tra i seguaci di questo atteggiamento si possono annoverare filosofi – esponenti della Scolastica – del calibro di San Tommaso d’Aquino (1225-1274) e Alberto Magno (1193-1280).
Ma, per l’oggetto di questo lavoro, è da menzionare certamente la Decretale Naviganti del 1236, di Papa Gregorio IX, il quale definì usurario, e quindi contrario all’etica cristiana, il profitto preteso dal mutuante nel foenus nauticum.
È proprio questo divieto che assunse un peso non secondario nell’indurre – coloro che per mare traevano i loro profitti – a mascherare il vecchio contratto di prestito marittimo in altre forme negoziali capaci di sfuggire, e quindi sopravvivere ancora per secoli, alla condanna dell’usura.
Questo brano è tratto dalla tesi:
Il prestito marittimo e il divieto di usura
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Informazioni tesi
Autore: | Giancarlo Messina |
Tipo: | Tesi di Master |
Master in | Master di 1° livello in diritto bancario e finanziario e normativa anti usura |
Anno: | 2016 |
Docente/Relatore: | Paolo Fuoco |
Istituito da: | UniCusano - Università degli Studi Niccolò Cusano |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 51 |
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