La politica di cooperazione comunitaria negli Stati ACP: particolarità e limiti di un modello associativo.
L’apporto italiano alla cooperazione tecnica: la legge Pedini
Sicuramente la parte più originale della politica di cooperazione comunitaria introdotta dalla Convenzione di Yaoundé era quella riguardante la cooperazione tecnica. Nata per porre rimedio alle carenze dei quadri tecnici degli associati, essa prevedeva investimenti sia per operazioni di assistenza tecnica connessa agli investimenti autorizzati dal Fondo, sia per programmi di cooperazione generale non direttamente collegati ad alcun determinato progetto economico o sociale d’investimento, su richiesta degli associati. Mentre la prima tipologia d’investimenti comprendeva operazioni volte a snellire e agevolare lo studio, la programmazione e l’esecuzione dei singoli progetti sociali ed economici; i programmi di cooperazione tecnica generale puntavano a investire sul giovane «capitale umano», attraverso borse di studio in loco o all’estero (1775 nel 1965-1966) e tirocini nei quadri amministrativi degli Stati associati o in seno agli uffici comunitari.
L’obiettivo di questi programmi di assistenza non era soltanto quello di assicurare ai giovani studenti un alto grado d’istruzione ma anche quello di costruire un ponte culturale tra Occidente e Africa attraverso, per esempio, l’edizione di opuscoli e bollettini d’informazione sulle attività dell’Associazione o incontri periodici internazionali tra tecnici, docenti, gruppi di lavoro, eccetera.
Nei confronti di questo settore, l’Italia maturò una rinnovata sensibilità. Come si è potuto comprendere dalla lettura dei capitoli precedenti, le problematiche economico-finanziarie che l’Italia aveva dovuto affrontare nel secondo dopoguerra, relegarono il paese a una posizione subalterna nell’ambito dell’Associazione, sia in termini di contributi che di proposte. Tuttavia, nella seconda metà degli anni Cinquanta, con l’ingresso dell’Italia nel gruppo dei paesi industrializzati, la condizione di paese beneficiario - nonostante il ritardo del Meridione - era ormai superata e andava maturando l’interesse a elaborare una propria politica di cooperazione allo sviluppo. L’assistenza alle aree arretrate, certamente, avrebbe permesso all’Italia di affermarsi economicamente attraverso l’importazione di materie prime a buon prezzo e l’esportazione di merci e manodopera in eccesso.
Tuttavia, non erano soltanto motivazioni natura commerciale a sollecitare la cooperazione italiana ma anche, e soprattutto, un forte spirito di solidarietà nei confronti delle realtà sottosviluppate che univa su un unico terreno di lavoro gli esponenti della Democrazia Cristiana, socialisti e partiti di sinistra.
«Il dibattito che si sviluppava in quegli anni, ricco di spunti e d’iniziative, sembra confutare il giudizio di vuoto assoluto che la letteratura corrente ha attribuito al ventennio che precede la legge Pedini. Quel fermento conferma, invece, la presenza di uomini, idee, iniziative che prepararono il terreno alle scelte degli anni Settanta».
D’altro canto, nel 1960 l’Italia abbandonava l’ultimo residuo della sua avventura coloniale - l’amministrazione fiduciaria in Somalia - ma la perdita dei possedimenti coloniali già durante il conflitto mondiale, avrebbe permesso a Roma di confrontarsi più liberamente con la realtà del sottosviluppo. L’Italia, quindi, poteva finalmente recare un contributo importante al dialogo dell’Occidente con i paesi del Terzo Mondo, giovandosi della sua tradizionale amicizia con essi e della sua esperienza diretta di sottosviluppo.
A metà degli anni Cinquanta, in effetti, furono molte le iniziative della classe dirigente cattolica volte a sviluppare stretti rapporti di natura culturale, politica ed economica - conformemente alla formula politica del «neoaltantismo» - con i paesi sottosviluppati. Si pensi a tal proposito, al sostegno di Mattei alla causa algerina o ai colloqui sul Mediterraneo promossi da La Pira.
Dalla fine degli anni Sessanta, il governo Moro avviò un dialogo produttivo con il continente africano. A sostenere il Presidente del Consiglio in questo impegno fu il sottosegretario al Ministero degli Affari esteri Mario Pedini.
Pedini era già noto all’ambiente politico non solo italiano ma anche europeo, per essere stato un tenace sostenitore, in seno all’Assemblea parlamentare europea, della Convenzione di Associazione. D’altro canto, egli pensava che «la stabilità della pace nel mondo non fosse più un problema di equilibrio militare, quanto piuttosto di equilibrio sociale ed economico tra nazioni, zone e continenti».
L’associazione euro-africana quindi, doveva essere presa a modello di strategia regionale per un nuovo ordine economico capace di garantire eguali possibilità di crescita a tutti i paesi, poiché oggi, sosteneva Pedini nel 1972, «il regionalismo è valido sul piano economico per consolidare la sicurezza sociale mondiale».
L’impegno e la sensibilità verso il Terzo Mondo che contraddistinse la politica estera dell’Italia negli anni Sessanta, trovarono epilogo nella legge del 15 dicembre 1971 sulla Cooperazione tecnica con i Paesi in via di sviluppo, promossa proprio dall’onorevole Pedini. Si trattava di una svolta molto importante, poiché finalmente si realizzava un testo unico che riuniva la vasta e frammentaria attività legislativa in materia di cooperazione tecnica. La legge Pedini avrebbe permesso l’invio di personale esperto (dipendenti degli enti pubblici e di associazioni private) nei paesi in via di sviluppo, la formazione professionale e scientifica dei quadri locali (tirocini, borse di studi, corsi di formazione, ecc.), e l’incentivazione di studi e progetti per il miglioramento delle strutture ambientali, sociali e sanitarie. Ciò avrebbe coinvolto sia l’iniziativa statale, sia quella degli enti pubblici o privati, «realizzando così la più ampia mobilitazione di energie e impegnando in particolare università, istituti e centri specializzati».
Inoltre, la legge dava modo ai giovani di sostituire il servizio di leva con un impegno civile nei paesi in via di sviluppo.
Pedini aveva fatto dell’Italia un paese all’avanguardia nel settore dell’assistenza tecnica, considerato dallo stesso Pedini come «il più efficace strumento di lotta al sottosviluppo, […] cioè la mobilitazione di uomini che si impegnano, solidaristicamente a formare altri uomini».
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La politica di cooperazione comunitaria negli Stati ACP: particolarità e limiti di un modello associativo.
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Informazioni tesi
Autore: | Manuel Morini |
Tipo: | Laurea II ciclo (magistrale o specialistica) |
Anno: | 2014-15 |
Università: | Università degli Studi di Pisa |
Facoltà: | Civiltà e Forme del Sapere |
Corso: | Storia contemporanea |
Relatore: | Alessandro Polsi |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 205 |
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