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L'immigrazione italiana in Belgio nel secondo dopoguerra. Storie di vita e di vite

Immigrazione italiana: 1940

Gli ultimi decenni del secolo che sta per concludersi sono caratterizzati da alcuni fenomeni che stanno radicalmente trasformando la struttura sociale di molti paesi, soprattutto di quelli che fanno parte del cosiddetto “occidente” ricco. In particolare, i processi migratori ridisegnano la struttura demografica, economica, culturale di buona parte dell’Europa che fino a pochi anni fa sembrava aver raggiunto un equilibrio difficilmente alterabile da agenti esterni (Berti, 1999, 5).

Tale situazione, tra l’altro, rende necessario ripensare i legami primari di una società, vincoli di lealtà tra cittadini e istituzioni, il senso di fiducia che caratterizza i rapporti interpersonali; la “scoperta” della diversità, che si fa sempre più vicina e che talvolta è considerata invadente, il rapporto con l’altro, che più non ci somiglia, mette in crisi tutta una serie di sicurezze e di certezze, anche esistenziali, garantite da un ambiente culturalmente e etnicamente omogeneo. La sfiducia, la chiusura nei propri spazi privati, la difficoltà di riconoscersi come membri di una comunità che non corrisponde più a quella a cui eravamo abituati, sono le conseguenze più evidenti di queste trasformazioni sociali (Berti, 1999, 5).

Così il tema dell’appartenenza, sul quale molto avevano lavorato i grandi autori classici della sociologia, torna oggi ad essere di grande attualità e diviene uno dei campi sul quale si confrontano diverse scuole di pensiero. L’appartenenza, o meglio, le identità collettive, rappresentano infatti il grado di “attaccamento” che ogni individuo riserva al proprio ambiente di riferimento, sia a quello sociale sia a quello territoriale, e l’insieme di questi vincoli di appartenenza contribuiscono alla definizione dell’identità soggettiva. In una società ormai multiculturale e pluralista anche l’identità entra in crisi se manca la capacità di modificare o ricostruire, come nel caso degli immigrati, i vincoli di appartenenza (Berti, 1999, 5).

La centralità del nesso tra movimento di popolazione e contratto di lavoro ha contraddistinto l’emigrazione italiana assistita dall’immediato dopoguerra fino all’entrata in vigore dei principi teorici della libera circolazione della manodopera, ma l’intensità e le modalità della mobilità dei lavoratori sono mutate nel tempo e nello spazio sia in relazione alle differenti congiunture economiche che in relazione all’evoluzione delle politiche migratorie italiane ed estere. Gli anni della ricostruzione rappresentano, sotto questi due aspetti, uno dei periodi di maggiore diffusione dell’esodo clandestino così come della ripresa delle dinamiche autonome delle reti migratorie. Nel corso dell’intero periodo postbellico l’Europa occidentale, ancora sconvolta dai danni della guerra ma già proiettata verso la ricostruzione, è stata percorsa da varie, ampie ed eterogenee migrazioni internazionali.

I processi di sviluppo in ciascun paese sono stati condizionati, e via via modificati, da questi intensi flussi di manodopera che hanno scavalcato i confini dei mercati del lavoro nazionali. In Italia, dopo la forte concentrazione tra le due guerre mondiali, all’indomani della liberazione la ripresa dei flussi emigratori si poneva come uno sbocco necessario all’eccedenza di popolazione, uno strumento strategico primario per affrontare la ricostruzione. I flussi migratori si diressero principalmente verso i paesi dell’Europa centrale e settentrionale: Francia, Belgio, Svizzera, Gran Bretagna e Germania, dove il bisogno di manodopera a basso costo si sposava con l’esigenza italiana di combattere la disoccupazione.

Tuttavia, proprio gli anni dell’immediato dopoguerra furono uno dei periodi di maggiore difficoltà per l’emigrazione italiana, che pur di utilizzare le poche opportunità d’impiego disponibili all’estero, dovette adattarsi spesso a scadenti condizioni di vita e lavoro. Si trattava infatti di un’emigrazione prevalentemente temporanea, segnata più che in passato da una legislazione rigida e disseminata di vincoli che rendevano la mobilità delle persone sempre più controllata e la loro permanenza all’estero sempre più precaria. L’emigrazione verso le miniere di carbone del Belgio fu una delle esperienze più difficili e, allo stesso tempo, uno degli sbocchi più promettenti di quegli anni.

Il Belgio fu, infatti, insieme con le regioni minerarie francesi, il primo sbocco europeo dell’immediato dopoguerra. I primi contingenti di minatori italiani vi giunsero nel giugno e nel settembre del 1946 e il trattato d’emigrazione stipulato tra le due nazioni era allora il solo in vigore, accanto a quello stipulato con la Francia. In quegli anni di scarsità e di contingentamento internazionale delle fonti energetiche, il carbone belga era infatti ritenuto provvidenziale per la ricostruzione dell’Europa, del Belgio e dell’Italia stessa: proprio il trattato d’emigrazione assicurava al Paese una determinata quantità di carbone per ogni minatore inviato in Belgio, e anche per questo motivo era considerato vitale.

Accanto a questa favorevole opportunità di attenuazione della disoccupazione e di approvvigionamento energetico stava, però, ciò che tanto la propaganda immigratoria belga, quanto quella emigratoria italiana preferiva tacere, vale a dire le drammatiche condizioni di vita nei bacini industriali del Belgio e di lavoro nelle strutture ormai logore della sua industria estrattiva, la cui agonia era solo apparentemente mascherata dall’accentuata fase di domanda di carbone durante la guerra e nella peculiare congiuntura della ricostruzione europea.

In realtà la macchina dell’industria mineraria nei bacini meridionali del Belgio era mantenuta artificialmente in vita dall’intervento e dalle sovvenzioni del governo, ma venne rapidamente sopraffatta dalla caduta dei prezzi del carbone nei mercati mondiali alla fine degli anni ’50. La chiusura definitiva delle miniere si rivelò un disastro senza precedenti che travolse le secolari strutture dei bacini industriali valloni e, con esse, le decine di migliaia di lavoratori immigrati che con il loro lavoro a basso costo avevano reso possibile il vano tentativo di risollevare l’industria estrattiva del Belgio dalla sua profonda e ineluttabile crisi (Cumoli, 2009, 1).

All’indomani della seconda guerra mondiale la produzione annuale di carbone era stagnante in tutta la Vallonia, mentre era in aumento nel bacino fiammingo del Limburgo, dove la produttività era più forte. L’industria carbonifera vallona mostrava, già alla fine degli anni ’40, i segni del suo irrimediabile tramonto. In realtà la questione dell’invecchiamento e del superamento delle strutture dell’industria estrattiva vallona era all’ordine del giorno sin dalla fine degli anni ’20, anche se la necessità di rimettere velocemente in moto gli insediamenti distrutti dalla prima guerra mondiale, in modo da poter approfittare degli ampi sbocchi e dei prezzi vantaggiosi legati ai bisogni della ricostruzione, avevano giustificato il mantenimento dei vecchi impianti e la perpetuazione dell’orientamento industriale tradizionale, che sin dall’inizio del XIX secolo era rimasto ancorato al carbone, all’acciaio e al settore tessile.

Nonostante l’evidente incapacità delle più vecchie miniere belghe di sostenere la concorrenza dei paesi circostanti, ragioni simili vennero riprese all’indomani della seconda guerra mondiale, quando le miniere di carbone rischiavano la paralisi per mancanza di addetti. In seguito all’evoluzione del mercato del lavoro si era infatti verificato un esodo dei lavoratori belgi dai mestieri più rudi e faticosi verso quelli più specializzati, meno pesanti e più lucrativi.

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L'immigrazione italiana in Belgio nel secondo dopoguerra. Storie di vita e di vite

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Informazioni tesi

  Autore: Sonia Salsi
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2009-10
  Università: Università degli Studi di Bologna
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Filosofia
  Relatore: Zelda Alice Franceschi
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 170

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autobriografia
i minatori
immigrazione italiana
la storia del carbone
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le donne immigrate italiane
racconti orali

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