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Il viaggio immobile: corpi, schermi e realtà virtuali

Il viaggio immobile

La tecnica, ovvero le soluzioni che l’uomo ha escogitato per combattere le avversità naturali, ne hanno permesso la sopravvivenza. Ma le singole soluzioni sarebbero rimaste fini a se stesse se i primi ominidi non fossero riusciti a comunicarle ai propri simili. In mancanza di un linguaggio articolato, le immagini furono il primo veicolo per la diffusione delle informazioni. Le prime pitture rupestri sono infatti rappresentazioni di scene della quotidianità, dei pericoli dei quali dovevano difendersi e delle soluzioni trovate. Le rappresentazioni e le immagini sono quindi tra i primi esempi di comunicazione diretta, di trasferimento di informazione e di coesione sociale in quanto permettono “di stabilizzare il mondo esterno immagazzinando sullo sfondo informazioni che sono costantemente recuperabili nel momento del bisogno” (Abruzzese, Borrelli, 2000: 25).

Anche se poi con la scrittura diventano le parole gli strumenti usati per trasportare informazione, le immagini non perdono il loro potere. Innanzitutto per la loro semplicità di lettura: le immagini rimandano direttamente alla situazione che si vuole descrivere e richiedono uno sforzo interpretativo minore rispetto alle parole. E poi perché, replicando e riproducendo il reale, svolgono quella funzione di controllo e di ricerca di sicurezza che abbiamo visto essere alla base dell’atteggiamento tecnico dell’uomo verso il mondo. Le immagini pero si dibattono da sempre tra due territori differenti, tra la tendenza a riprodurre il visibile in quanto tale e la necessità di utilizzarlo per simbolizzare l’invisibile.

L’invenzione della fotografia porta all’estremo questo dualismo: disporre di uno strumento che riproduce perfettamente la realtà, che ne offre un calco perfetto, libera al tempo stesso l’arte verso l’esplorazione dei territori della fantasia e del possibile. Questo desiderio di ricreare il mondo è soddisfatto finalmente con il cinematografo che aggiunge alle rappresentazioni l’unica cosa che le mancava per “sembrare” totalmente reali: il movimento. Per la prima volta nella storia delle arti un mezzo di espressione utilizza il reale come base e come unità significante. Bazin (1958) definisce infatti come “complesso della mummia” questa possibilità di registrare oggettivamente la vita che scorre davanti all’obiettivo della macchina da presa.

Il cinematografo è una sorta di trappola della realtà, un dispositivo necrofilo che restituisce alla vita ciò che non esiste più. Pero la grande contraddizione dell’immagine cinematografica risiede innanzitutto nell’assenza di movimento reale: il movimento è solo una ricostruzione mentale dello spettatore che riempie il vuoto tra due fotogrammi, cioè tra fotografie statiche. Grazie a quello che Munsterberg (1916) chiama “effetto phi”, in nostro occhio riesce a ricostruire un movimento apparente laddove c’è solo discontinuità e fissità.

Come di fronte ad una serie di macchie luminose accese successivamente ed alternativamente la nostra mente percepisce un tragitto luminoso continuo, allo stesso modo di fronte alla sequenza di fotogrammi ricostruisce quel movimento che la foto ha intrappolato. Poi, come evidenziato da Bertetto (2007), l’immagine filmica non è una copia diretta del reale ma una “copia differenziale” del profilmico, che è a sua volta copia del fenomeno che si vuole rappresentare. È virtuale, è un immagine simulacro che svanisce dopo la proiezione ed è priva di referente. E pone lo spettatore in una situazione ambigua in quanto percepisce “l’oggetto fotografato come assente, la fotografia come presente e la presenza di quell’assenza come significante” (Metz, 1980: 60).

Nonostante queste considerazioni, la storia della riflessione sul mezzo cinematografico oscilla continuamente nella dicotomia tra una cinema votato al realismo ed uno che privilegi i mondi della fantasia. Il testo filmico si basa su un sistema che non ha niente a che vedere con la percezione umana. Il montaggio è un linguaggio convenzionale che serve a inscrivere (suture) lo spettatore nel discorso filmico. Il M.R.I (Modo di Rappresentazione Istituzionale) che si instaura nel cinema classico (e segna il passaggio dal cinematografo al cinema) intenta generare una serie di soluzioni che creino uno “spazio abitabile” (Burch, 2001) dove lo spettatore possa proiettare la propria corporeità e partecipare attivamente alla costruzione di senso.

La virtualità dell’immagine, la creazione di uno spazio abitabile e la proiezione della corporeità sono concetti che avvicinano le VR al cinema e viceversa. Inoltre le caratteristiche di fruizione delle tecnologie virtuali sembrano ricalcare la situazione dello spettatore nel dispositivo cinematografico. Solo con la completa immobilità può aver inizio il viaggio.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Il viaggio immobile: corpi, schermi e realtà virtuali

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Informazioni tesi

  Autore: Andrea Leone
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2015-16
  Università: Università degli Studi di Roma La Sapienza
  Facoltà: Scienze della Comunicazione
  Corso: Scienze della comunicazione
  Relatore: Silvia Leonzi
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 71

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