Evoluzione di un proemio: eredità e metamorfosi in Esiodo e Nonno di Panopoli
Il risveglio dell’epica greca: l’età tardoantica
Appartiene a un altro mondo, un'altra epoca, un altro modo di vivere sentire vedere e ragionare la letteratura il poema epico scritto da Nonno, detto di Panopoli, città situata sulla riva destra del Nilo, nell'Egitto greco romano del V° secolo dopo Cristo.
Ribadire che per i greci il maestro di ogni poesia, specie se composta in esametri, è Omero, è quasi superfluo. In generale ci si rifà ad Omero, in modo esplicito o tacito, e i riferimenti, siano essi γλῶσσαι omeriche o taciti riferimenti, sono la regola anche in epoca tardo imperiale. Citerò un unico esempio, ma pregnante: Quinto Smirneo, che si è deciso di qualificare come ὀμερικώτατος fin dal Rinascimento, non pronuncia mai il nome del suo maestro. Si limita, senza commento, a comporre i Posthomerica che vengono a collocarsi tra la fine dell’Iliade e l’Odissea. Nonno adotta un comportamento differente.
Non esita a chiamare in causa sette volte il nome di Omero delle sue Dionisiache, presentando francamente come suo maestro l‘“illustre figlio di Melete, immortale araldo dell’Acaia”, del quale “il libro è contemporaneo dell’Aurora”. Gli domanda di ispirarlo, a suggello del fatto che non si può prescindere da un modello tanto ingombrante quanto fondamentale: «Illustre figlio di Melete, immortale araldo dell’Achea, mi sia benigno il tuo libro antico come l’Aurora: io non ricorderò la guerra di Troia, e non paragonerò Dioniso al figlio di Eaco, né Deriade a Ettore. La tua Musa doveva cantare una lotta così grande e bella e Bacco, che ha trafitto i Giganti, ad altri poeti doveva lasciare i travagli di Achille, se Teti non ti avesse strappato l’onore. Dunque ispira il mio canto, infondimi il tuo soffio divino: ho bisogno della tua grazia poetica, perché cantando una simile guerra ho paura di svilire le fatiche di Dioniso sterminatore di Indiani.» A più riprese si dichiara discepolo e imitatore di Omero.
Nel momento in cui affronta la guerra degli Indiani, nel canto XIII, chiama in suo soccorso Omero, fingendosi incapace di intraprendere un compito talmente enorme, lasciandone trasparire ancora lo sfaccettato rapporto emulativo-agonistico.
Sono però dichiarazioni così ridondanti e traboccanti rispetto e venerazione che rischiano di trarre in inganno. Occorre evidentemente tener conto del gioco e dell’ironia delle reiterate insistenti professioni di umiltà: Nonno infatti ha l’ardire di presentarsi come un nuovo Omero, desideroso di rivaleggiare con antichi e moderni. Fin dal primo canto in un preludio che è anche un’arte poetica domanda alle Muse e alle Mimalloni, cioè alle Menadi, di rivestirlo dell’abito del baccante e respinge con disgusto la pelle puzzolente di foca di cui si è rivestito invece Menelao secondo l’Odissea per interrogare Proteo. È importante porlo nelle premesse dell’analisi al proemio: emergono conflittuali dinamiche col predecessore, tanto che lo ψόγος si combina all’encomion (vero o simulato) e la μίμησις.
Questo brano è tratto dalla tesi:
Evoluzione di un proemio: eredità e metamorfosi in Esiodo e Nonno di Panopoli
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Informazioni tesi
Autore: | Beatrice Generali |
Tipo: | Laurea I ciclo (triennale) |
Anno: | 2015-16 |
Università: | Università degli Studi di Bologna |
Facoltà: | Scuola di Lettere e Beni culturali |
Corso: | Lettere |
Relatore: | Simonetta Nannini |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 82 |
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