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il razzismo nello sport statunitense e il caso della bolla NBA 2020

Il razzismo in NBA

Negli ultimi anni, la concezione dello sport sta cambiando. Questo, infatti, si sta trasformando sempre di più in sport-spettacolo, che collega in un circolo virtuoso lo sport, i media e le aziende sponsor, coinvolgendo un pubblico formato rispettivamente da sportivi, telespettatori e consumatori. L’intrattenimento offerto ha inoltre rilevanza sociale, economica e allo stesso tempo politica.
Guardando per esempio lo sport negli Stati Uniti, è evidente come le partite siano più degli show di intrattenimento. Questo si può notare anche pensando ai contratti da milioni di dollari che gli atleti firmano sia con le società sportive che con gli sponsor. I giocatori hanno acquisito sempre più visibilità e seguito, e spesso, come visto nei paragrafi precedenti, si sono fatti portatori di messaggi di protesta nei confronti delle autorità. Anche sui social media, alcuni atleti hanno un grandissimo seguito, e usano questi mezzi per amplificare ulteriormente i loro messaggi. Per esempio, su Instagram, LeBron James ha 123 milioni di followers, Stephen Curry 42 milioni e Russell Westbrook 19 milioni.
Gli afroamericani, al giorno d’oggi, rappresentano il vero carburante dello sport, a causa sia della loro elevata presenza in termini numerici nei campionati professionistici principali, cioè basket, baseball e football americano, sia della grande incidenza che hanno nelle squadre in cui giocano.

La storia del razzismo in NBA
La NBA e i suoi giocatori hanno da sempre un ruolo politico e sociale di primo livello, sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo. Oltre il 75% dei giocatori è costituito da afroamericani. Molti di questi si sono più volte espressi pubblicamente in merito ad alcune questioni sociali e politiche come integrazione e razzismo, arrivando a raggiungere un pubblico vastissimo grazie alla loro influenza e al loro seguito. La maggior parte di coloro che si sono esposti l’ha fatto in opposizione al potere politico e alle autorità. Negli anni recenti si sono fatte sentire alcune proteste nei confronti dell’ex Presidente Donald Trump e del trattamento riservato alle persone di colore negli Stati Uniti.
La NBA, fin dalla sua fondazione, avvenuta nel 1949, si dimostrò una lega sportiva all’avanguardia rispetto alle problematiche razziste diffuse negli Stati Uniti. Nel 1953 fu la prima ad aprire le porte agli afroamericani, che fino a quel momento non potevano giocare a livello professionistico.210 Il primo giocatore nero fu Chuck Cooper, cresciuto a Pittsburgh, che ancora oggi è una delle città statunitensi più segregazioniste.211 Quando frequentava l’università, alcuni avversari si rifiutarono di giocare contro la sua squadra a causa della sua presenza. Una volta approdato in NBA, ebbe sempre un ruolo secondario, perché ai tempi non era accettabile pensare che un afroamericano potesse essere la stella della squadra.
Altri giocatori del campionato di basket statunitense subirono in prima persona le ingiustizie contro le quali oggi protestano. È l’esempio di Sterling Brown, che venne fermato in un parcheggio da agenti della polizia armati e immobilizzato con un ginocchio sul collo, proprio come successe a George Floyd, di cui si parlerà nel capitolo 3.
La NBA, tramite cambiamenti graduali, si schierò sempre di più a favore delle cause importanti per i giocatori e per la società. Anche le franchigie presero le difese dei loro giocatori in diverse occasioni: per esempio, nel 1961, i Boston Celtics cancellarono la loro esibizione dopo che un ristorante di Lexington rifiutò di far entrare Bill Russell, la stella della squadra. Russell fu uno dei primi cestisti afroamericani ad esporsi pubblicamente in merito al tema del razzismo. Un altro giocatore di basket che si schierò pubblicamente fu Kareem Abdul- Jabbar, che nel 1968 rifiutò di andare alle Olimpiadi di Città del Messico in segno di protesta.
Nonostante l’appoggio della NBA ai giocatori, non mancarono alcuni episodi controversi. Un esempio fu quello di Charlie Yelverton, che nel 1972 venne espulso dal campionato di basket per aver protestato contro il diverso trattamento riservato ai neri non alzandosi durante l’inno, anche se poi cercò di correggersi dicendo che la sua protesta riguardava la guerra del Vietnam.
Anche nei giorni più recenti la Lega si è schierata in difesa dei diritti degli afroamericani. Nel 2014 espulse Donald Sterling, il proprietario dei Los Angeles Clippers, obbligandolo a vendere la squadra in seguito all’ennesima esternazione razzista. Questo gesto lanciò un segnale forte e fece guadagnare consensi alla NBA.
Però non tutti i giocatori afroamericani si schierarono in difesa dei pari diritti e dell’uguaglianza. Michael Jordan, per esempio, fu uno di questi. Quando gli venne chiesto di sostenere il democratico Harvey Gantt, candidato a diventare il primo senatore afroamericano nella storia degli Stati Uniti, rispose con la celebre frase “Anche i Repubblicani comprano le mie scarpe”, esprimendo la sua volontà di tenere separati sport e politica. Il giocatore affermò poi che si trattava di un commento scherzoso, e che non si immaginava come un attivista, ma come un giocatore di basket.

Questo brano è tratto dalla tesi:

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Informazioni tesi

  Autore: Rebecca Vigevani
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2021-22
  Università: Università degli Studi di Pavia
  Facoltà: Scienze della Comunicazione
  Corso: Scienze della comunicazione
  Relatore: Legnante Guido
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 112

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