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La Tragedia del Linguaggio: messa in scena di un'antropogenesi

I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo?

Analizziamo, seguendo il percorso tracciato da Wittgenstein, la seguente proposizione:

5.6 I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo.

Prima, qualche presupposto: poiché il mondo è la totalità dei fatti, il linguaggio è la totalità delle proposizioni che significano i fatti stessi. Le proposizioni sono a loro volta fatti del mondo, ma godono della particolare proprietà di significare gli altri fatti, i quali invece sono muti e si limitano a mostrarsi mentre accadono. Perché un fatto possa significarne un altro, deve condividere con esso la struttura, la forma logica, cioè l’insieme dei modi determinati di combinare tra loro gli oggetti che costituiscono tanto i fatti atomici (stati di cose, fatti che accadono indipendentemente l’uno dall’altro) quanto, sotto forma di nomi, le proposizioni atomiche (gli elementi costitutivi del linguaggio, che significano i fatti atomici). Lo spettro di combinazioni possibili tra gli oggetti, da una parte, e tra i nomi corrispondenti, dall’altra, garantisce la connessione tra mondo e linguaggio.

La logica, dunque, pervade il mondo e non può travalicarne i limiti. Il linguaggio corrisponde al pensiero, esso è l’immagine logica del mondo: tutto ciò che io posso pensare, e dunque dire, riguarda i fatti che compongono il mondo. Questi fatti sono accidentali, non esistono leggi a priori che regolino l’esperienza (Wittgenstein segue Hume nella disintegrazione del principio di causa); tuttavia, io tendo a materializzare leggi stabili nel mio linguaggio. Non posso accedere ad un mondo che non sia informato dall’immagine logica del mio pensiero/linguaggio. Dove finisce l’immagine logica, lì finisce il mio mondo, l’unico di cui io possa parlare in modo sensato. Di nuovo, eccomi nella cella del mio carcere solipsista:

5.62 (…) Ciò che il solipsismo intende è del tutto corretto: solo, non si può dire, ma mostra sé. Che il mondo è il mio mondo si mostra in ciò, che i limiti del linguaggio (dell’unico linguaggio che io comprenda) significano i limiti del mio mondo.

5.63 Io sono il mio mondo. (Il microcosmo.)

Io sono il mio mondo, dunque, ma io sono proprio ciò che non posso trovare nel mio mondo: così come l’occhio non rientra nel campo visivo che esso vede, il mio io non rientra nel mondo che esso conosce. L’unico senso propriamente filosofico in cui si può parlare di io o di soggetto, dunque, è quello di definirlo non come una parte del mondo, ma come il suo limite: da questo deriva una conseguenza notevole:


5.64 Appare qui che il solipsismo, svolto rigorosamente, coincide con il realismo puro. L’Io del solipsismo si contrae in un punto inesteso e resta la realtà ad esso coordinata.

Ritengo estremamente illuminante pensare all’ipse come ad un limite. Credo però che non ci si possa accontentare di questo: se l’io è un limite, non resta semplicemente la realtà ad esso coordinata, come totalità dei fatti che si manifestano nelle proposizioni. La stessa realtà, a questo punto, non è che un limite. La nozione di totalità che dovrebbe costituirla è, secondo lo stesso Wittgenstein, al di fuori dei fatti del mondo: non osserviamo mai un fatto come la totalità. Ecco che, senza troppe forzature, potremmo spingerci a dire che la realtà è una casella vuota, un punto inesteso, tanto quanto l’io.

Soggetto e mondo, res cogitans e res extensa, proprio qui e là fuori, concepiti come punti inestesi, come limiti, svuotano le monolitiche realtà con cui ci siamo scontrati all’inizio di questo capitolo non solo di ogni rilevanza ontologica, ma anche di valore conoscitivo. Il nostro mondo è situato nel dominio del probabile, nella sfumatura che modula le relazioni tra “dentro” e “fuori”, e forse questa grossolana distinzione non ha nessun motivo per continuare ad essere pensata. Essa ha un’utilità prettamente pratica, non abbiamo ancora trovato una migliore sintesi di quel che percepiamo, tutto qui.

Sì, dunque: i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo. Questi limiti si possono chiamare io e realtà esterna, il mio mondo, che è un mondo di pensieri e di parole (ma prima di tutto di impressioni, direbbe Hume), è uno yoyo che oscilla indefinitamente tra questi due inconoscibili.

Al di là di essi c’è quello che Wittgenstein chiama il Mistico, l’indicibile e impensabile, ciò che si mostra. Osserviamolo di passaggio, almeno per ora: la definizione che il viennese dà di Mistico è sorprendentemente simile a quella che Ionesco delinea riguardo all’assurdo:

6.44 Non come il mondo è, è il Mistico, ma che esso è.

Sostituendo in questa proposizione “il Mistico” con “l’assurdo”, si ottiene uno dei tarli più tenaci del pensiero del nostro teatrante rumeno. Curioso, no? Forse non tanto. Il Mistico crea molti problemi alla logica ferrea dell’apparato wittgensteiniano. Cosa vuol dire, esattamente, che il Mistico c’è e si mostra, ma non è dicibile? Dove collocare in modo legittimo questo Mistico, se i limiti del linguaggio e del mondo coincidono? Fuori dal linguaggio, fuori dal mondo, come posso dire di qualunque cosa che c’è, e addirittura che si mostra? Sembrerebbe assurdo, davvero. Questo ineffabile, questo Mistico, questo assurdo, è ciò su cui vertono le domande di senso che la filosofia si pone da sempre.

L’etica è indicibile, le domande di senso sono precisamente le domande senza senso di cui un’analisi rigorosa del linguaggio dovrebbe liberarci, in modo che nessuna domanda sensata rimanga senza risposta. La filosofia deve tendere a mettere a tacere se stessa, il silenzio sarebbe il suo compimento. Prospettiva inquietante, ad essere sinceri. Per fortuna Wittgenstein non si impegna, di fatto, a realizzare questo obiettivo (disumano), e, nelle sue Ricerche filosofiche, cambia strategia. Si dedica ad un gioco (molto umano), anzi, a tanti giochi…di società: i giochi linguistici. Torneremo più avanti al tavolo da gioco di Wittgenstein, lo stesso a cui ci aspetta anche Saussure con i suoi scacchi.

Abbiamo finalmente attraversato la strada. A questo punto la nostra cella solipsita ci appare un po’ diversa. L’ergastolo si rivela meno rigido di quel che sembrava, i contorni sono più sfumati. Il linguaggio, in effetti, aggancia il mondo, se non altro perché ne condivide la struttura. Ma cosa agganciano le nostre proposizioni, quale struttura condividono, quella del vero mondo? È possibile saldarle insieme per costruire uno stabile ponte levatoio che ci conduca trionfanti là fuori? No, la cosa-in-sè è l’ineffabile (l’assurdo, ad essere irriverenti). La struttura che rende il linguaggio significante è quella di un mondo umano e condiviso, un mondo fluido e sempre al limite, lo stesso mondo che abbiamo assunto tacitamente come sfondo fin dalla prima pagina del primo capitolo, insomma, lo stesso mondo triangolabile che interessa a Davidson. Che senso ha, allora, la distinzione di tre tipi fondamentali di conoscenza che lo stesso Davidson delinea, e, soprattutto, come interpretare la first person authority? Anche Davidson, d’un tratto, cade nel solipsismo, almeno parzialmente?

Questo brano è tratto dalla tesi:

La Tragedia del Linguaggio: messa in scena di un'antropogenesi

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Informazioni tesi

  Autore: Gaia Barbieri
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2009-10
  Università: Università degli Studi di Milano
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Filosofia
  Relatore: Carlo Montaleone
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 112

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