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Socrate e Nagasena - Il problema dell'errore inconsapevole nell'Ippia Minore e nel Milindapañha

È difficile pensare a impresa più ardua per chi voglia occuparsi di storia della filosofia antica – o di qualunque altra disciplina che indaghi intorno al pensiero “classico” (etico, politico, metafisico e scientifico, artistico, insomma: nella molteplicità delle sue dimensioni) – della pretesa di mettere in relazione (per affinità o “concorrenza” culturale) il mondo occidentale greco ed ellenistico con quello Orientale – esteso geograficamente e culturalmente dall’antica Persia all’India, dalla Cina fino al lontanissimo Giappone. Le pur esigue analogie tematiche tra i due mondi risultano sufficientemente sospette perché le si possa soltanto ritenere simili ma casuali frutti di mondi alieni l’uno all’altro, non comunicanti e a “tenuta stagna”; ma d’altra parte troppe, e troppo sostanziali, appaiono le differenze perché si possa credere che sia sufficiente il riscontro di qualche flebile sintonia a giustificare alcune comuni leggerezze di valutazione, dal sapore decisamente poco scientifico, tipiche soprattutto di questi ultimi secoli (già Schopenhauer dimostrò una strenua volontà sintetizzante, frutto di un ascendente più letterario che sinceramente teoretico). È di diverso tempo fa l’ormai celebre massima dell’attuale Dalai Lama tibetano, la quale così recita: «Non si può mettere la testa di uno yak sul collo di una capra». In altre parole è ben poco dignitoso per entrambe queste millenarie culture insinuare che la filosofia greca discenda integralmente dal pensiero tradizionale indo-persiano, o più generalmente “orientale”; così come lo sarebbe se si volesse falsare la storia della riflessione indiana con l’asserto che essa abbia cominciato a concretizzarsi solo dopo le grandi conquiste alessandrine – e dunque a partire dall’epoca ellenistica. È d’altra parte assai ragionevole la convinzione di chi sostiene che è più attraverso le reciproche differenze che non le analogie, che si scopre la profonda e sostanziale unità della storia dell’uomo e del pensiero. Ora, a questo scopo, si possono seguire almeno due diverse vie: quella del senso comune (che “chiacchiera” su malsicure similitudini) e quella scientificamente motivata, che soppesa elementi diversi alla luce di testi e reperti e traccia una – pur sempre ipotetica – mappa dei rapporti tra le due facce dell’antichità. Nel piccolo di questa sede, dunque, cercherò esclusivamente di tracciare un sottile percorso che metta in relazione, tramite l’elaborazione di una medesima argomentazione, due pensieri forti in seno a queste culture: il pensiero socratico/platonico (nello specifico, quello rappresentato dalla fase cosiddetta “aporetica” dei dialoghi di Platone) e quello buddhista (nello specifico, quello della corrente definita del “Piccolo Veicolo”). Lo spunto è offerto proprio da due testi di letteratura primaria i quali trattano, fra i tanti, del seguente problema: la valenza, sia puramente intellettuale che morale, dell’agire in un determinato modo, e più precisamente del “cattivo agire”. Quando, cioè, si è veramente colpevoli di un comportamento negativo? Si è più responsabili (meritevoli o non meritevoli) quando si sia intellettualmente coscienti dell’errore o quando si ignori il valore dell’azione compiuta? Soprattutto: in che modo conoscenza intellettuale e responsabilità morale vengono correlati nei dialoghi aporetici di Platone e nella dottrina paracanonica buddhista? E in entrambi i contesti ha senso parlare di “colpa” o “responsabilità”? L’approfondimento tematico consisterà nello studio dei due testi citati sopra, che sono l’oggetto vero e proprio del confronto: l’Ippia Minore (tradizionalmente inserito nel corpus dei dialoghi di Platone o comunque, come diversamente pensano alcuni studiosi, facente parte delle opere postume redatte dall’Accademia platonica) e il Milindapañha, conosciuto più sovente come Le domande di Re Milinda, il cui autore materiale resta ignoto ma che può essere collocato cronologicamente con una certa sicurezza (almeno per quanto concerne il suo nucleo originario, ovvero i primi tre Libri) nella produzione letteraria buddhista del I secolo a.C., e dunque nel mezzo del dominio post-alessandrino dell’area sub-himalayana. E però, alla fine, la conclusione di questo breve lavoro tenterà di suggerire una sintesi delle posizioni rappresentate o, per meglio dire, un tentativo – il più possibile accurato – di definire con franchezza se vi siano o meno dei concreti punti di “contatto filosofico” tra le trattazioni sviluppate nei due testi. Per essere più precisi: l’analisi qui proposta dà per scontato – e assume come già compiuto dagli esperti – un lavoro di tipo tecnico, filologico e storiografico, sui testi analizzati e intenderebbe piuttosto individuare un percorso di carattere prettamente tematico, specificamente attinente la riflessione in campo etico, che contribuisca, seppure in esigua misura, all’ampio dibattito sulla presunta “osmosi” culturale tra Grecia e India in era precristiana.

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