7
ma a quella trentina di ragazzi il cui impegno all’interno del gruppo stesso ne
garantisce l’esistenza.
Due ordini di obiettivi hanno motivato questo lavoro sul campo: un obiettivo
metodologico ed un obiettivo cognitivo. Dal punto di vista metodologico l’interesse
era vedere se la scelta di effettuare una ricerca etnografica su questo argomento si
sarebbe rivelata una scelta fortunata oppure no. Si voleva capire se strumenti quali
l’osservazione e l’intervista sarebbe risultati adatti per indagare un mondo che le
ricerche esistenti descrivevano come piuttosto chiuso. Inoltre c’era un interesse mio
personale che era vedere come avrei potuto cavarmela nel ruolo di osservatrice ―
avevo ricoperto il ruolo di intervistatrice già in ricerche precedenti a questa. Sempre
dal punto di vista metodologico una sfida che si presentava era quella di vedere come
si sarebbe sviluppata la relazione tra una donna ed un gruppo quasi esclusivamente di
uomini e se questa differenza tra osservatrice ed osservati avrebbe permesso o non
l’inizio della ricerca; inoltre si trattava di vedere se in una situazione simile lo
strumento osservativo si sarebbe rivelato intrusivo.
L’obiettivo cognitivo iniziale era indagare una realtà come quella del tifo
calcistico che, nonostante sia un tema di discussione quotidiano tra l’opinione
pubblica, poche volte restituisce nella letteratura sociologica la voce di coloro che di
questo mondo sono partecipi. Questo era anche l’argomento di ricerca su cui si
pensava di focalizzare la ricerca. Come spesso accade in una ricerca etnografica
l’argomento, e di conseguenza anche l’obiettivo cognitivo, è andato delineandosi con
più precisione nel corso della ricerca stessa e si è spostato sul gruppo e sulle sue
dinamiche. Partendo dall’idea che alcuni membri del gruppo non si definiscono
‘ultras’ (vedi paragrafo 3.4.1) viene da domandarsi per quale motivo questo gruppo
di tifosi continui a costituire una forma di aggregazione giovanile così coinvolgente
per questi ragazzi. È sulla base di queste osservazioni che si è iniziato a pensare al
8
Collettivo come ad un gruppo sociale, ed in particolare ad un gruppo corporato (vedi
paragrafo 3.4.1). Si tratta quindi di interrogativi emersi direttamente sul campo.
Se questi sono gli obiettivi cognitivi che hanno fatto da sfondo alla ricerca allo
stesso tempo occorre sottolineare che l’idea di questo progetto di ricerca nasce da un
mio interesse personale per il fenomeno del tifo calcistico ― anche se non provo una
passione per una squadra di calcio in particolare.
Il capitolo 1 affronta dal punto di vista strettamente metodologico i caratteri di
una ricerca etnografica intesa come sistema di ricerca. Dopo un breve excursus
storico sulla nascita e lo sviluppo di questo sistema di ricerca in antropologia e
sociologia, si passa ad esaminare le caratteristiche degli strumenti che vengono
solitamente impiegati in una ricerca etnografica: l’osservazione, l’intervista, l’uso di
documenti. Una ricerca non ha inizio con la discesa sul campo da parte del
ricercatore; in virtù di questa considerazione abbiamo ripreso la distinzione di
Bruschi (1999, 413) circa le tre fasi della rilevazione: fase pre-campo, sul campo e
post-campo. Fa parte della fase pre-campo la preparazione del ricercatore ― in
questo caso i ruoli di ricercatore, osservatore, intervistatore sono stati ricoperti tutti
da me ― in vista della discesa sul campo, preparazione che consiste nella
consultazione di ogni documento esistente sul fenomeno indagato. Rientra in questa
fase anche la scelta di presentarsi come ricercatore al gruppo che si intende
conoscere, mettendo in atto un’osservazione scoperta, oppure celare la propria
identità e realizzare un’osservazione coperta. Nella fase sul campo avviene l’accesso
fisico e sociale del ricercatore all’interno della comunità in cui si realizza la ricerca:
si instaurano dei rapporti particolari con alcuni membri che ricopriranno i ruoli di
informatore e di testimone privilegiato. Prende così avvio ‘l’immersione’ e la
partecipazione dell’etnografo alla vita del gruppo. In questa fase gli strumenti
9
dell’osservazione, dell’intervista e dell’uso dei documenti, permettono la raccolta
delle informazioni che serviranno, nell’ultima fase, alla stesura del rapporto finale.
Il capitolo 2 è una sorta di resoconto riflessivo sulla mia esperienza di ricerca.
Si è cercato non solo di esplicitare le scelte compiute per realizzare questo studio sul
campo ma anche di vederle sotto una luce critica. Anche la mia relazione con i
membri del Collettivo, i miei stati d’animo, le mie difficoltà vengono proposte agli
occhi del lettore per permettergli di capire come sono state raccolte le informazioni.
Il capitolo 3 è il risultato dell’analisi delle informazioni raccolte sul campo.
Anche in questo caso si è proceduto con un inquadramento storico del Collettivo
Autonomo Viola all’interno della storia del tifo calcistico fiorentino. Dalla nascita
della passione per la Fiorentina si è passati ad illustrare l’ingresso, fisico e sociale,
all’interno di questo club leggendolo come una sorta di rito d’iniziazione. La lettura
di questo gruppo di tifosi proposta in questo capitolo è quella di un gruppo corporato
con un insieme di regole, uno scopo comune, la presenza di ruoli, un senso di
appartenenza, dei legami interpersonali. Si tratta di un gruppo che per le sue
caratteristiche tende a rapportarsi ad un out-group, un insieme di individui o gruppi
che presentano caratteri diversi dal Collettivo stesso. Una particolare attenzione è
stata data alla descrizione di quei luoghi che hanno importanza nella vita di questo
club: la sede del gruppo e lo stadio. Non si tratta solo di una descrizione fisica ma
anche di un tentativo di chiarire quali sono i motivi che spingono i ragazzi di questo
gruppo a frequentarli assiduamente. Un confronto su alcune riflessioni emerse
dall’analisi è stato reso possibile dalla lettura di ricerche sul mondo del tifo calcistico
italiano.
Infine il lavoro si chiude con il tentativo di generalizzare il discorso fin qui
fatto su questo gruppo di tifosi e di metterne in luce le somiglianze con altri gruppi di
subculture giovanili, quali bande, skinheads, bikers, gangs.
10
1- La ricerca etnografica
Etimologicamente il termine ‘etnografia’ significa “ritratto di un popolo”
(ethnos = popolo, graphéin = scrivere, descrivere). La definizione di questo termine
è stata sempre oggetto di controversie. Di solito si riferisce a quelle ricerche sociali
che presentano alcune caratteristiche: forte enfasi ad esplorare particolari fenomeni
sociali; tendenza a lavorare con “unstructured data”; studio dettagliato di un piccolo
numero di casi, alcune volte anche solo un caso; analisi di significati e azioni umane
(Atkinson e Hammersley 1994, 248).
Per Van Mannen “ethnography refers to the study of the culture(s) a given
group of people more or less share. The term is double-edged for it points to both a
method of study and a result of such study. When used to indicate a method,
ethnography typically refers to fieldwork conducted by a single participant observer
–the fabled thought slightly oxymoronic participant observer ― who ‘lives with and
lives like’ those who are studied for a lengthy period of time (usually a year or
more). When used to indicate a result, ethnography ordinarily refers to the written
representation of culture” (1995, 4-5).
L’antropologo De Sardan considera la ricerca etnografica un tipo di ricerca che
permette di avvicinarsi il più possibile alle situazioni naturali dei soggetti, attraverso
un’interazione prolungata tra ricercatore e gruppo studiato, al fine di giungere a
rendere conto del punto di vista dei membri di quest’ultimo (1995, 72).
Dal Lago definisce il lavoro etnografico come la descrizione di un particolare
mondo sociale in base ad una prospettiva non scontata (2002, 10).
11
Per Cardano perché si possa parlare di ricerca etnografica occorre che una
quota non marginale della documentazione empirica sia prodotta con l’utilizzo
dell’osservazione partecipante (2003, 110). Anche Gobo assegna all’osservazione un
ruolo primario nella raccolta delle informazioni all’interno della ricerca di campo
(2001, 27).
‘Etnografia’ è una parola a cui vengono attribuiti molti significati, ad esempio:
1- un particolare processo di ricerca (Malighetti 2000, 91), 2- il risultato dell’attività
di questa ricerca, 3- l’esperienza umana del ricercatore (Marzano 2006, 3).
Rispetto al primo significato il riferimento va alla “descrizione di un
particolare mondo sociale” (Dal Lago e De Biasi 2002, 10) esito di una
partecipazione diretta e prolungata. Il lavoro etnografico per eccellenza è il lavoro sul
campo. La ricerca etnografica permette di ricostruire dall’interno il profilo culturale
della società ospite (Cardano 2003).
C’è stata e persiste ancora la tendenza ad identificare la ricerca etnografica con
l’osservazione partecipante, ma la ricerca sul campo fa proprio un eclettismo delle
fonti che si fonda su molti modi possibili di raccolta di dati; a questo proposito
possiamo ricordare un saggio di Jean-Pierre Olivier de Sardan, del 1995, in cui la
ricerca sul campo viene presentata come una combinazione di quattro forme di
produzione di dati: l’osservazione partecipante, l’intervista, i procedimenti di
recensione, le fonti scritte. Il vantaggio di affidarsi a diverse tecniche permette di
tenere meglio in considerazione la stratificazione della realtà sociale.
Per ovviare al problema che nasce quando si usano i termini ‘etnografia’ ed
‘osservazione’ come sinonimi sarà utile avvalersi della distinzione proposta da
Bruschi (1999) tra sistema di rilevazione e strumento di rilevazione. Il sistema di
rilevazione consiste nell’organizzazione degli strumenti di rilevazione per estrarre da
un insieme di casi dell’universo l’informazione necessaria a soddisfare gli obiettivi
12
della ricerca. Gli strumenti, invece, sono i mezzi che permettono l’esecuzione pratica
del progetto di ricerca rendendo possibile la rilevazione dell’informazione. In una
ricerca etnografica gli strumenti di cui di solito ci si avvale sono l’osservazione,
l’intervista, la raccolta di documenti.
La seconda accezione del termine ‘etnografia’ si riferisce al fatto che
“l’etnografia si origina nell’oralità e viene trasposta nello scritto” (Fabietti 2000,
151): la versione della realtà che ci fornisce l’etnografia è una rappresentazione
testuale. L’esperienza del ricercatore viene quindi presentata in saggi e monografie
scritte dopo il ritorno dal campo. Non esiste alcuna etnografia senza scrittura (Geertz
1973/1988). Occorre tenere comunque in considerazione il fatto che, così come ogni
altra forma di scrittura, anche quella etnografica è il risultato di una selezione di
eventi, fatti, circostanze, fatta dal ricercatore (Marzano 2006).
Con il terzo significato si rimanda al fatto che nel processo di ricerca si
mettano in campo delle qualità umane, la voglia di scoprire “altri mondi”, di stare in
compagnia, per mesi, con persone sconosciute. L’etnografia, come afferma Rahola
(2002), è prima di tutto un’esperienza diretta e, di conseguenza, è anche la
trascrizione di questa presenza. Per molto tempo l’esperienza personale del
ricercatore non è stata inserita nel processo di scrittura: è quello che Berreman (1962,
27) ha definito la “cospirazione del silenzio”, per cui i testi etnografici non
raccontano come il materiale è stato raccolto, quasi come se questo fosse tirato fuori
dal cappello del prestigiatore. La tendenza a non raccontare la storia della ricerca e
l’esperienza personale del ricercatore deriva dalla convinzione che ciò potesse
inficiare le presunta ‘oggettività’ dei risultati. Come afferma Rabinow (1977, 5) nel
processo di scrittura si è esclusa l’esperienza dell’etnografo considerando solo i “dati
oggettivi” in virtù dello sforzo positivistico di applicare il metodo delle scienze
13
naturali alle scienze sociali e di eliminare la parte soggettiva che caratterizza la
ricerca sul campo.
Non raccontare come l’etnografia è stata prodotta significa non prendere in
considerazione gli errori, i fraintendimenti, le difficoltà, ma anche i rapporti di
amicizia, i sentimenti, che caratterizzano il lavoro sul campo. Se l’etnografia è
dunque anche la trascrizione di una presenza, non può mancare un resoconto
riflessivo sulle condizioni che hanno portato a produrre proprio quei risultati.
“L’etica etnografica impone agli etnografi di dimostrare la fondatezza delle loro
interpretazioni e dei loro risultati con un resoconto riflessivo riferito a loro stessi e al
processo della loro ricerca” (Altheide e Johnson 1994, 489). Sempre Altheide e
Johnson sostengono che attraverso questo resoconto l’etnografo può fondare
“l’obiettività della propria rappresentazione dell’oggetto”
2
(ivi).
“Una confessione metodologica è utile a conferire una sorta di credibilità
etnografica; in questo caso l’autocritica, oltre a denunciare i punti deboli
e ad invitare il lettore alla cautela, dimostra anche il respiro, la profondità
e l’implacabile ricerca della verità di un’analisi etnografica così incisiva
e potente da applicare le proprie armi critiche più devastanti proprio a se
stessa” (Kunda, in Marzano 2004, 153).
La riflessione su come la ricerca ha avuto luogo ed una lettura critica delle
informazioni raccolte permette inoltre di individuare eventuali distorsioni generate
dalle emozioni o dalla “reazione all’oggetto” del ricercatore: “significa dare un
resoconto abbastanza personale di come il ricercatore ha vissuto durante quel
medesimo periodo di tempo” (Whyte 1955/1968, 359). Per De Sardan (1995) dare
testimonianza delle modalità del coinvolgimento personale dell’etnografo agevola
nel controllo della soggettività di quest’ultimo che inevitabilmente è entrata nella
2
Nel lavoro di ricerca presentato in questa tesi si preferisce parlare di ‘plausibilità’ del resoconto
etnografico e non di ‘obiettività’ in considerazione del fatto che, sia in una ricerca con questionario,
sia in una ricerca con osservazione, nessun risultato può essere obiettivo in quanto sarà sempre il
risultato di scelte fatte dal ricercatore.
14
ricerca. Ritengo, inoltre, che riferire le condizioni nelle quali la ricerca si è svolta sia
doveroso nei confronti del lettore e, più in generale, della comunità scientifica, e che
questo possa figurarsi come un contributo all’evolversi della ricerca etnografica in
generale; descrivere l’accesso al campo, la permanenza, la relazione etnografo-
osservati può essere utile per chi si vuole cimentare in uno studio sul campo.
1.1- La ricerca etnografica in antropologia
Nel corso dell’Ottocento, l’etnografia intesa come descrizione di una cultura,
era messa in contrasto con l’antropologia, intesa come elaborazione teorica. La
descrizione era cronologicamente, gerarchicamente e logicamente subordinata alla
formulazione teorica. Questa separazione tra etnografia e antropologia era il riflesso
del positivismo che concepiva l’esperienza e la teoria come momenti distinti.
La separazione tra etnografia ed antropologia ha portato anche ad una divisione
di ruoli: da una parte, i raccoglitori-osservatori vale a dire funzionari del governo,
missionari, esploratori, commercianti, dall’altra parte l’antropologo armchair che
disponendo dei dati raccolti da quest’ultimi elaborava teorie.
La ‘rivoluzione’ etnografica ha come iniziatore Bronislaw Malinowski. Già
prima di lui altri studiosi si erano impegnati nella ricerca sul campo, in un soggiorno
prolungato tra i nativi, nella raccolta in prima persona del materiale etnografico: a
questo proposito possiamo citare, come esempi, i lavori di Cushing fra gli zuni dal
1879 al 1884, le spedizioni allo stretto di Torres e gli interessi per l’etnografia da
parte di Haddon, Rivers, Seligman.
Malinowski è considerato il primo sistematizzatore della ricerca etnografica.
Nell’introduzione alla sua monografia “Argonauti del Pacifico occidentale”, frutto
15
della ricerca condotta nelle isole Trobriand fra il 1916 e il 1918, Malinowski
(1973/1978, 33) espone i principi metodologici della ricerca sul campo che
raggruppa in tre categorie:
“innanzitutto, naturalmente, lo studioso deve possedere reali obbiettivi
scientifici e conoscere i valori e i criteri della moderna etnografia; in
secondo luogo, deve mettersi in condizioni buone per lavorare, cioè,
soprattutto, vivere senza altri uomini bianchi, proprio in mezzo agli
indigeni. Infine, deve applicare un certo numero di metodi particolari per
raccogliere, elaborare e definire le proprie testimonianze”.
L’obiettivo finale della ricerca etnografica è “quello di afferrare il punto di
vista dell’indigeno, il suo rapporto con la vita, di rendersi conto della sua visione del
suo mondo” (ivi, 49, corsivo dell’autore). Per raggiungere questo obiettivo è
opportuno che l’etnografo osservi i fenomeni nel suo concreto manifestarsi cercando
di penetrare l’atteggiamento mentale che vi si esprime e lasciando che i fatti parlino
da soli. Malinowski sottolinea anche l’importanza di annotare tutti questi fenomeni
su un diario etnografico.
Se si guarda alle figure principali della recente antropologia il riferimento va a
Clifford Geertz ed al suo approccio interpretazionista. La sua collezione di saggi, dal
titolo The Interpretation of Cultures (1973), sposta l’enfasi dall’analisi del
comportamento e della struttura sociale verso lo studio dei simboli e dei significati
(Malighetti 2000, 139). Per Geertz “fare etnografia è come cercare di leggere (nel
senso di ‘costruire una lettura di’) un manoscritto — straniero, sbiadito, pieno di
ellissi, di incongruenze, di emendamenti sospetti e di commenti tendenziosi, ma
scritto non in convenzionali caratteri alfabetici, bensì con fugaci esempi di
comportamento strutturato” (1973/1988, 17). Questo antropologo sostiene che
l’etnografo ha sempre a che fare con dell’interpretazioni, quelle dei suoi
interlocutori, e con delle interpretazioni di interpretazioni; infatti ciò che i ricercatori
16
chiamano i loro “dati sono in realtà le [loro] interpretazioni delle interpretazioni di
altri su ciò che fanno loro e i loro compatrioti” (ivi, 143).
E’ opportuno ricordare le considerazioni che Geertz fa a proposito della
distinzione tra thin description e thick description
3
. Per chiarire i termini di questa
distinzione si può riportare il confronto di Geertz tra tic involontari e ammiccamenti:
i primi sono un semplice comportamento, una thin description, mentre i secondi sono
comportamenti significativi, una thick description, e costituiscono l’oggetto specifico
dell’etnografia.
1.2- La ricerca etnografica in sociologia
In ambito sociologico l’interesse per la ricerca etnografica fu raccolto
soprattutto dalla Scuola di Chicago
4
. La figura più rappresentativa del dipartimento
era Robert Ezra Park.
In un suo articolo The City: Suggestions for The Investigation of Hunam in The
Urban Environment, pubblicato per la prima volta nel 1916, Park descrive il ruolo
del ricercatore come di colui che, nello stare sul campo, non solo si deve sporcare le
mani ma anche i pantaloni; bisogna scendere direttamente sul campo armati di un
taccuino ed osservare tutto quello che avviene lì intorno. Queste sue indicazioni sono
influenzate, in parte, dalla sua precedente attività di giornalista.
Park e gli altri studiosi della Scuola di Chicago avevano un forte orientamento
pratico che li portò ad interessarsi ai mutamenti della città avvenuti tra gli anni Venti
3
La distinzione tra thin description e thick description è stata formulata, come riferisce lo stesso
Geertz, da Gilbert Ryle in un saggio del 1968 intitolato Le Penseur: Thinking and Reflecting.
4
La Scuola di sociologia di Chicago nasce nel 1892 nel Dipartimento di Sociologia dell’Università di
Chicago.
17
e Trenta, ai suoi problemi sociali ed urbani; si trattava dunque di ricerche che a
differenza dei lavori dei primi antropologi si svolgevano nella società di cui
l’etnografo faceva parte e una delle difficoltà consisteva proprio nello studiare se
stessi con gli occhi di un estraneo. Il loro approccio fu definito “ecologico” in quanto
focalizzava la propria attenzione sulle connessioni tra i vincoli ambientali e la
struttura sociale creando delle vere e proprie mappe; molti studiosi aspiravano a
produrre indagini che potessero aiutare ad affrontare e risolvere i problemi legati alle
contraddizioni della metropoli, con i suoi effetti di disorganizzazione sociale,
marginalità, devianza.
Le tecniche di raccolta delle informazioni impiegate nell’ambito di questa
Scuola furono diverse e tra queste possiamo ricordare l’osservazione, l’intervista, la
storia di vita, l’analisi di documenti primari e secondari.
I principali temi indagati furono le minoranze etniche (The Polish Peasant in
Europe and America di William I. Thomas e Florian Znaniecki, opera pubblicata tra
il 1918 e il 1920; The Ghetto di Louis Wirth del 1928), le categorie emarginate e i
problemi sociali (The Hobo, Sociology of Homeless Man di Nels Anderson 1923; The
Unadjustell Girl di Thomas 1923; The City di Park e Burgess 1925; The Gang di
Frederic M. Thrasher 1927; The Gold Coast and The Slum di Harvey Warren
Zorbaugh 1929).
Sempre all’interno della Scuola di Chicago, nel secondo dopoguerra, gli
interessi per la ricerca sul campo vengono portati avanti dai neo-chicagoans, studiosi
interessati al livello micro-sociologico delle procedure quotidiane, come Howard
Becker, Edwin Lemert, Raymond Gold, Edwin Schur.
Al di fuori della Scuola di Chicago possiamo ricordare altre due opere che sono
il risultato di due ricerche etnografiche: una è la ricerca dei coniugi Robert e Helen
Lynd, Middletown, uno studio di comunità realizzato tra il 1924 e il 1925; l’altra è
18
una ricerca di William Foote Whyte, pubblicata con il titolo Street Corner Society
(1943), ritratto di Little Itlay, un quartiere di Boston. Per raccogliere il materiale i
Lynd utilizzarono tecniche diverse: l’osservazione, la partecipazione alla vita locale
annotando tutto ciò che accadeva, la raccolta di materiale documentario, come dati
provenienti da censimenti, documenti dell’amministrazione comunale, quotidiani,
diari personali, la raccolta di documentazione registrata per la compilazione di
statistiche, diversi tipi di intervista ed infine i questionari. Whyte si avvalse
dell’osservazione e dell’intervista: nell’appendice alla seconda edizione (1955)
5
,
intitolata “Storia di una ricerca”, Whyte fa riferimento soprattutto all’osservazione
che, nel corso della ricerca, passò da un osservazione non partecipante ad una
partecipazione senza osservazione
6
.
1.3- Gli oggetti della ricerca etnografica
“L’etnografia nasce come metodo di osservazione e di conoscenza
dell’alterità. La percezione di una distanza, di una diversa
rappresentazione del mondo e delle regole del suo funzionamento,
l’impegno a prendere sul serio questa differenza e provare a tradurla da
un universo simbolico alieno al proprio costituiscono le basi che
promuovono e legittimano l’osservazione etnografica. […] Le culture ―
le rappresentazioni, le narrazioni, i rituali, le credenze, le classificazioni
― costituiscono l’oggetto specifico dell’etnografia, nel tentativo di
illustrare come individui diversi rendono conto, […], delle loro
esperienze e delle loro relazioni sociali” (Colombo 2001, 206).
5
La prima edizione di Street Corner Society fu pubblicata nel 1943. Nel 1955 fu pubblicata la seconda
edizione con l’aggiunta dell’appendice sulla storia della ricerca.
6
Sulla distinzione tra osservazione non partecipante ed osservazione con gradi diversi di
partecipazione vedi paragrafo 1.6.3.3.
19
Secondo Marzano la ricerca etnografica può essere utilizzata principalmente
per due scopi: per rendere familiare l’ignoto, descrivendo ambiti della vita poco
conosciuti, come la ricerca di Festinger del 1964 su come ci si prepara alla fine del
mondo, o per defamiliarizzare il già noto, considerando aspetti inediti di fenomeni
che si ritiene essere già conosciuti, come il tifo calcistico (Dal Lago 1990)
7
, la vita
sociale nella stazione centrale di Milano (Colombo e Navarini 1999)
8
. Fare
etnografia significa anche non accettare le definizioni di senso comune dei fenomeni
sociali.
Riprendendo la periodizzazione proposta da Marzano circa la storia
dell’etnografia (2006), che in parte ricalca quella proposta da Denzin e Lincoln
(2000), possiamo vedere come il primo periodo individuato, il “periodo tradizionale”
(Marzano 2006, 9), dal 1900 al 1945, sia caratterizzato dai lavori di antropologi,
come Malinowski (1922) e Evans-Pritchard (1940), e di sociologi, come quelli che
fanno capo alla Scuola di Chicago (vedi paragrafo 1.2)
9
. Interessante è il confronto
tra queste due tradizioni di ricerca proposto da Marzano, secondo il quale la distanza
che separava la vita degli Hobo descritta da Anderson (1923) da quella dei lettori di
queste opere è la stessa distanza che intercorre tra quest’ultimi e i Nuer di Evans-
7
La ricerca di Dal Lago a cui si fa riferimento è quella pubblicata nel 1990 con il titolo Descrizione di
una battaglia. I rituali del calcio. La principale tesi di questo studio è che “il calcio è soprattutto un
rito, ovvero una forma di attività collettiva che condensa e trasfigura significati sociali profondi” (Dal
Lago 2001, 8). Scopo di questo lavoro è la descrizione della sottocultura del tifo calcistico; esso
quindi “rientra nell’etnografia sociale” (ivi, 25). Gli strumenti di rilevazione usati sono l’osservazione,
l’intervista, l’analisi di documenti scritti, visivi e sonori. Il lavoro si basa soprattutto su osservazioni
svolte principalmente allo stadio.
8
La ricerca etnografica di Colombo e Navarini è stata realizzata tra il 1996 ed il 1998, mediante la
frequentazione e l’osservazione della Stazione Centrale di Milano e delle piazze limitrofe. Interesse
principale da cui è nato questo lavoro è la descrizione delle pratiche e delle reazioni sociali che si
instaurano tra i frequentatori di questa stazione. La scelta di utilizzare gli strumenti etnografici per
realizzare tale ricerca sono dipesi dal fatto che questi permettono di “essere lì, scendere sul campo e
confrontarsi con la diversità, cercare di tradurre in un altro linguaggio ciò che si sente o si osserva”
(Colombo e Navarini 1999, 164). Si è trattato di un lavoro che ha imposto di “osservare un luogo che
già ‘conoscevamo’, ma che era a noi noto come uno spazio visto-ma-non-riconosciuto” (ivi, 164).
9
Il lavoro di Malinowski ha come tema centrale il kula, una forma di relazione commerciale
intertribale tra gli abitanti della Nuova Guinea; anche se l’aspetto economico è il principale, continui
sono i riferimenti agli aspetti sociali, culturali e psicologici della comunità in studio. L’opera di
Evans-Pritchard, The Nuer, si concentra sulla struttura sociale e politica dei Nuer.
20
Pritchard: “in entrambi i casi, l’obiettivo delle ricerche era di rendere accessibile allo
sguardo dei lettori occidentali l’esistenza quotidiana, gli aspetti, i rituali, gli stili di
vita, i valori, in una parola la cultura di popolazioni ‘lontane’ ed esotiche (dell’Africa
centrale o semplicemente del ghetto sotto casa)” (Marzano 2006, 10). I campi di
applicazione della ricerca etnografica erano, dunque, già diversificati allora come
oggi: l’interesse non è rivolto solo all’esotico, alle comunità lontane, all’altro da sé,
ma potenzialmente ogni ambito dell’esperienza umana può diventare oggetto di
interesse.
L’antropologo Duranti (1997/2005, 88) sostiene che la ricerca etnografica ha
come interesse “la costituzione della società e della cultura” ed ha come obiettivo
quello di rispondere a due interrogativi: 1- come si costituisce l’ordine sociale e cosa
rende un gruppo un’unità funzionante, 2- in che modo i membri di un gruppo danno
senso al loro modo di vivere
10
.
La ricerca etnografica permette, inoltre, di guadare lo stesso fenomeno in modi
diversi: il fenomeno della violenza degli ultrà di calcio è stato, così, letto ed
interpretato da taluni come la manifestazione di rituali di gruppo (Dal Lago 1990,
Bromberger 1998, Moscati 1992, De Biasi 1998), da altri come un comportamento
irrazionale o deviante (Roversi 1992), da altri ancora come l’espressione di
sottoculture di classe o di ceto (Marchi 1994).
10
Duranti (1997/2005, 88) riporta in una tavola l’elenco degli argomenti verso cui gli etnografi
volgono il proprio interesse: cosa fanno le persone nella vita quotidiana, quello che costruiscono ed
usano, chi controlla l’accesso a beni e tecnologie, quello che le persone conoscono, pensano, provano,
come comunicano, come prendono decisioni, quali classificazioni adottano, come sono organizzate la
divisone del lavoro e la vita della famiglia. Si tratta di una rassegna che lo stesso Duranti definisce
non esauriente.