310
Per quanto riguarda la scelta di assumere il 1947 come data di inizio della mia analisi, essa
è dovuta al fatto che il varo del Piano Marshall, concepito per la ricostruzione di un’Europa
uscita stremata dal secondo conflitto mondiale, e l’inizio della guerra fredda, segnano una
ulteriore e irreversibile svolta nei rapporti fra Italia e America, che procedono zoppicanti tra
alti e bassi fin dal Settecento e che, da allora, si alternano tra pregiudizi, disinteresse,
diffidenza, incomprensione, odio e amore reciproci.
La scelta del termine entro il quale concludere la mia ricerca, al contrario, è stata più
combattuta. Gli anni Ottanta, infatti, non offrono molte possibilità di operare cesure o ulteriori
periodizzazioni interne, come sarebbe stato possibile, invece, per qualsiasi altro momento
precedente. Probabilmente, avrei potuto interrompere le ricerche dieci anni prima, cioè nel
1977, ma così facendo avrei tagliato fuori una parte di letteratura importante perché il quadro
fosse realmente completo, almeno per ciò che concerne il contributo italiano alla mia ricerca:
sto parlando, in modo particolare, dell’ultimo Calvino e di Umberto Eco, i cui romanzi hanno
impresso una svolta al corso della letteratura italiana tra la fine degli anni Settanta e l’inizio
degli anni Ottanta, inaugurando il cosiddetto postmoderno, un genere (ammesso che lo sia)
che si definisce come compenetrazione e gioco fra i generi letterari tradizionali e che, per
questo, è in grado di attendere le aspettative di un pubblico estremamente composito, da
quello dedito alla letteratura di massa e disimpegnata, a quello con velleità culturali elevate.
Giungere sino al 1987, dunque, mi ha consentito di dare sufficiente respiro alla ricerca,
soprattutto in considerazione dei tempi necessari alle case editrici americane per tradurre e
dare alle stampe le novità letterarie provenienti dal Vecchio Mondo, e di avere ulteriore
conferma dell’interesse che, anche se con sempre minore frequenza, esse continuano a
suscitare oltreoceano.
311
Il mio lavoro si divide in quattro capitoli articolati in una serie variabile di paragrafi, in cui ho
cercato di suddividere il materiale trovato per decadi, in modo da evitare capitoli monografici
su ogni autore recensito dalla Book Review. Ogni capitolo, inoltre, presenta una breve
descrizione delle condizioni dell’editoria e della società italiane che hanno suscitato l’interesse
dei critici americani.
Dal secondo dopoguerra alla fine degli anni ‘80, la presenza della nostra letteratura sulle
pagine di The New York Times Book Review è stata, in generale, costante e si è affidata ai
nomi dei maggiori scrittori italiani degli ultimi cinquant’anni. Il panorama offerto dalla Book
Review, dunque, è molto vario ed articolato, grazie anche alla diversità degli approcci alla
materia letteraria da parte dei critici che hanno firmato quarant’anni di recensioni.
Nel corso di questa lunga incursione nelle pagine della rivista americana, sono stati ricordati
i molteplici percorsi battuti dalla letteratura italiana, con quelle luci e ombre che hanno, nella
maggior parte dei casi, impedito catalogazioni di genere frettolose e improprie e che la critica
statunitense ha seguito diligentemente, a volte apprezzandole, a volte criticandole, ma
sottolineandone sempre il legame con una tradizione culturale millenaria. Da Dante a Moravia
non è stato dimenticato nessuno.
Il numero delle recensioni non è costante, naturalmente.
Negli anni ‘70, ad esempio, la Book Review continua ad assolvere il proprio compito di
osservatrice vigile e presente, anche se con alcune eccezioni. Nei momenti più delicati della
politica americana, estera e nazionale, rintracciare articoli che non facciano esclusivo
riferimento ai recenti avvenimenti, dalla guerra del Vietnam allo scandalo del Watergate,
diventa una vera e propria impresa. Tra il 1974 e il 1981, dunque, non è stato possibile
trovare recensioni sulle pubblicazioni italiane,
312
che si susseguissero secondo un ritmo più o meno costante. A volte non se ne trovavano
proprio.
Gli articoli pubblicati, comunque, hanno riferito con precisione le trasformazioni affrontate
dall’editoria italiana, del perfezionarsi progressivo ed inesorabile del ciclo editoriale in tutte le
sue fasi, dalla scelta dell’autore alla promozione, alla distribuzione sul mercato. Sono, quelli, gli
anni dei premi letterari ripresi dalla televisione, più eventi mondani a cui non mancare per nulla
al mondo e meno momenti culturali; sono gli anni della pubblicità, in cui un passaggio televisivo
sancisce il successo di un autore o di un libro più del favore del pubblico. Si legge l’autore più
che il libro, come se il solo possesso materiale di quel nome fosse in grado di conferire, di
conseguenza, un qualunque status o prestigio irrinunciabili.
Regolarmente lacunosi, infine, sono gli anni ‘80, ma questo è da imputare, in certa misura,
alla creatività dei nostri autori, al cammino percorso in generale dalla letteratura italiana e alle
scelte editoriali che puntano, ormai, sui nomi di grido che garantiscono regolarmente l’uscita di
sicuri successi, continuando una prassi che affonda le radici nella ricerca del favore del
pubblico a prescindere, talvolta, dal reale valore dell’opera. In tal caso, i libri degni di nota
rappresentano l’eccezione; tuttavia, nonostante alcuni momenti bui in cui si teme la scomparsa
della letteratura italiana in America, non si può certo negare la presenza di piacevoli novità, tra
cui il grande successo riscosso dal “Il nome della rosa” di Umberto Eco e la presenza degli
autori della “nuova generazione”, da Massimo Romano a Daniele Del Giudice, ad Antonio
Tabucchi, a Marco Lodoli, a Cinzia Tani.
Ciò che ho realizzato, mi sembra una precisazione doverosa, non pretende affatto di essere
un lavoro di critica letteraria, per il quale sarebbero servite competenze più approfondite da
parte mia e la consultazione di una fonte adeguata; si tratta, piuttosto, dell’osservazione delle
modalità di accoglienza della nostra letteratura presso il pubblico americano (dalla frequenza
313
delle recensioni all’apprezzamento delle opere e degli autori), in modo da riuscire a dare un
volto all’Italia che dagli anni ‘50 percorre le strade d’America.
Fino a questo punto, ho chiarito, o almeno ho cercato di farlo, i termini temporali e le
modalità di svolgimento della mia ricerca, lasciando, però, in sospeso le ragioni che mi hanno
indotta ad affrontarla.
Spesso si parla di “americanizzazione” dei gusti e delle mode in Italia, della presenza
imponente del “gigante americano”, dal cibo alla musica, dalla contaminatio linguistica alla
danza e al cinema. Il popolo italiano si è appropriato, così, di una enorme quantità di modelli
nati oltreoceano: il fulgore del mito sembra aver offuscato la diffidenza nei confronti
di una cultura
fondamentalmente povera e molto giovane. Per questo, approfittando di un’occasione ufficiale,
ho finalmente deciso di soddisfare una mia personalissima curiosità, perfettamente consapevole
dell’eventualità che il mistero offrisse solo se stesso, infinitamente. Comprendere in che modo
e in che misura la cultura italiana è stata accolta all’estero e quali impressioni ha comunicato,
pertanto, non è stato un compito facile e, se una soluzione è stata trovata, essa non è che una
delle tante possibili.
L’Italia, dunque, ha lasciato qualcosa di sé al di là dell’oceano? Indubbiamente lo ha fatto,
ma non sempre gli Stati Uniti sembrano averne ricevuto un’immagine dignitosa. I pregiudizi
americani nei confronti dell’Italia, infatti, non sono svaniti del tutto nel corso del Novecento,
per quella lontananza culturale e geografica che continua a separare i due popoli, almeno
nell’opinione del cittadino americano medio il quale, in qualche modo, sente ancora quel gusto
per il pittoresco e il terribile del Bel Paese che tanti visitatori, da ogni parte del mondo, ha
attratto fin dal diciottesimo secolo. Molto è stato scritto a proposito delle relazioni
314
italoamericane fin dall’età dei lumi1, quando l’Italia è semplicemente il luogo della bellezza,
della classicità e dell’arte rinascimentale che a quella si è ispirata in tanta parte della sua
produzione. Fin da quel lontano momento, nella mente dell’America il nostro Paese è stato
un’idea, un mito lontano che ha incarnato l’ideale della perfezione artistica, una sorta di museo
all’aperto disponibile per chiunque avesse avuto la possibilità di ammirarlo. E’ l’Italia che
anche gli americani, sull’onda dell’entusiasmo dei giovanotti inglesi di buona famiglia che si
facevano rapire dalle esplorazioni del Grand Tour, raggiungono dopo la conquista
dell’indipendenza dalla madrepatria, interessati particolarmente alle bellezze artistiche e
naturali del nostro Paese, più che alle sue condizioni politiche, sociali o civili. Non c’è un reale
interesse di conoscenza in questi “tour” che diffondono un’immagine fortemente romantica
della nostra penisola attraverso resoconti di viaggio pullulanti di notazioni folcloristiche e sul
carattere passionale delle italiche genti; inoltre, le scarse pagine relative agli aspetti politici ed
economici italiani sono tutt’altro che lusinghiere. In modo particolare, gli osservatori stranieri,
senza distinzione alcuna, lamentano la mancanza di una capitale, di un centro da cui possano
irradiarsi le direttive per un buon governo del Paese, anche se ancora diviso in Stati e
Repubbliche indipendenti. Il moto di ammirazione e di simpatia che l’America sente nei
confronti dell’Italia, a partire dagli anni della Restaurazione, durante il Risorgimento e in
occasione dell’unificazione nel 1861, è tutto rivolto, dunque, all’antica civiltà di cui essa è
erede, alla tradizione letteraria e alla gloria artistica, più che ai suoi comportamenti “pratici”: è
un forte sentimento di rimpianto e nostalgia nei confronti di un passato ormai lontano e forse
1
1. Franco Venturi “L’Italia fuori d’Italia”, in Storia d’Italia. Dal primo Settecento all’Unità (vol.
III), Torino, Einaudi, 1973.
2.Robert Paris, “L’Italia fuori d’Italia”, in Storia d’Italia. Dall’Unità ad oggi (vol. IV, tomo, I),
op. cit., 1975.
3. Ernesto Ragionieri, “Italia giudicata, 1861-1945. Ovvero la storia degli italiani scritta dagli
altri”, Bari, Laterza, 1969.
4. Giorgio Spini (a cura di), “Italia e Stati Uniti dal Settecento all’età dell’Imperialismo”, Padova,
Marsilio, 1976.
315
perduto. Per il resto, l’Italia è solo una marmaglia di poveri miserabili. La soddisfazione
generata dall’unificazione si accompagna, d’altra parte, a giudizi impietosi sul persistere di mali
cronici ulteriormente aggravati dalla effettiva debolezza del nuovo Stato unitario, dalla scarsa
attitudine al governo della classe dirigente italiana e dalla questione meridionale che ne è una
diretta conseguenza. L’Italia è ancora un Paese umile e povero, soprattutto nel Sud che
continua a conservare, agli occhi degli osservatori stranieri, un esotismo tutto particolare, ma
indagato in modo non più frettoloso e compiaciuto. Questa ostilità, allora latente, si manifesta
in tutta la sua violenza alla fine del XIX secolo presso un più ampio numero di osservatori, in
occasione dell’evento che segna la prima svolta importante nelle relazioni italoamericane. Una
massiccia emigrazione di italiani verso la nuova terra promessa costituisce un canale
privilegiato per l’osservazione, senza la mediazione culturale, di una folla anonima e cenciosa,
l’“esatta antitesi dell’immagine letteraria e tradizionale dell’Italia diffusa nei secoli
anteriori.” 2
In generale, dunque, i giudizi espressi sull’Italia di fine secolo
sono incerti, divisi tra l’apprezzamento per il progresso raggiunto con la modernizzazione
dell’economia (vengono inaugurati i primi, grandi istituti bancari, nuovi impulsi sollecitano
l’industria pesante e la nostra penisola sembra ben avviata sulla strada percorsa dai paesi
europei più avanzati) e la desolazione della miseria legata a doppio filo con le misure
protezionistiche e con la mancanza di un solido mercato interno, per non parlare dei forti
contrasti sociali che percorrono l’ultimo decennio del secolo (dai Fasci Siciliani nel 1893, ai
moti della Lunigiana nel 1894, ai tumulti per il pane e alle barricate milanesi nel 1898) e di
quelle povere anime che, dall’altra parte dell’Atlantico, stanno trascorrendo l’obbligatorio
2
Ernesto Ragionieri, “Italia giudicata, 1861-1945. Ovvero la storia degli italiani scritta dagli
altri”, op. cit., Introduzione, p. XLVII.
316
periodo di quarantena a Ellis Island. Ad ogni modo, l’Italia descritta nelle cronache di inizio
Novecento non è più, o almeno non solo, il bel museo all’aperto. Non c’è più posto per i
rimpianti, ormai.
Un ulteriore momento-chiave nell’evoluzione delle relazioni tra Italia e Stati Uniti, anche per
quel che riguarda il punto di vista italiano, è certamente la crisi seguita al primo conflitto
mondiale. Mentre in Italia si è diffuso un sentimento di delusione e di diffidenza, in seguito agli
accordi di pace presi durante la Conferenza di Parigi del 1919, che raggiunge il suo apice con
l’impresa fiumana di Gabriele D’Annunzio, “interprete di una vecchia tradizione di
retorica, di vacuità, di vanterie nazionalistiche”, nonché “consumato commediante e
pittoresco scocciatore” 3, la crisi offre agli Stati Uniti l’occasione di una penetrazione
commerciale in Italia, come del resto in molta parte dell’Europa da ricostruire. E’ proprio
l’avvento di Mussolini e del fascismo a rendere possibile il consolidarsi delle relazioni
economiche italoamericane. Il regime viene salutato positivamente dalla stampa statunitense,
non solo da coloro che, conservatori e strenui sostenitori della dottrina di Monroe, dallo
sbarco degli “straccioni meridionali”, hanno identificato l’Italia con l’indolenza, la sregolatezza
e la scarsa disciplina. Il fascismo, da questo punto di vista, rappresenta un promettente destino
per l’Italia, altrimenti avviata sulla strada della totale decadenza, e le testimonianze lusinghiere
nei confronti di Mussolini si sprecano, soprattutto nelle corrispondenze di Anne O’Hare
McCormick, famosa columnist di The New York Times, e nelle parole “ispirate” di Richard
W. Child, allora ambasciatore americano in Italia.
In generale, la stampa mantiene un atteggiamento di attesa nei confronti del regime4 (anche
nei difficili momenti della marcia su Roma e dell’assassinio di Giacomo Matteotti) e del suo
3
Franco Venturi, “L’Italia fuori d’Italia”, op. cit., pp. 471, 487.
317
capo carismatico, benché il fascino emanato da quella figura di self-made man sia pressoché
irresistibile. Le relazioni economiche tra Italia e Stati Uniti procedono pacifiche, a parte alcune
riserve sulla politica estera del regime (trasformatesi in timori fondati con l’invasione
dell’Etiopia), fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, soprattutto perché in
confronto alla minaccia rappresentata dal comunismo e dal nazismo, il fascismo sembra il male
minore.
Un altro motivo non trascurabile dell’atteggiamento amichevole degli U.S.A. nei confronti del
regime, è il favore di cui il fascismo gode presso gran parte delle comunità italoamericane,
ormai orgogliose del nuovo volto dell’Italia, grazie alla propaganda svolta da Generoso Pope
attraverso i suoi giornali, Il Progresso Italo-Americano e Il Corriere d’America.
D’altra parte, mancherebbe qualcosa alla cronaca di quegli anni se non si ricordasse l’azione
dell’antifascismo presso l’opinione pubblica americana. Nella prima metà degli anni ‘30 il
movimento antifascista italoamericano riceve nuova linfa dall’arrivo dei fuoriusciti italiani, prima
nel 1938, dopo la pubblicazione della Carta della Razza, e poi nel 1940, in seguito
all’occupazione tedesca della Francia. La presenza di un numero così elevato di uomini di
cultura (Carlo Sforza, Giuseppe Antonio Borgese, Gaetano Salvemini, Alberto Tarchiani,
Alberto Cianca...) ispira l’idea, nel 1939, di fondare la Mazzini Society, priva di una
determinata linea di partito e di orientamento liberal-democratico, per “convincere gli Stati
4
Per quanto riguarda le relazioni italoamericane a partire dagli anni del fascismo, si fa riferimento ai
seguenti testi:
1. Pier Paolo D’Attorre (a cura di), “Nemici per la pelle. Sogno americano e mito sovietico
nell’Italia contemporanea”, Milano, Franco Angeli, 1991.
2. John P. Diggins, L’America Mussolini e il fascismo, Bari, Laterza, 1972.
3. Gian Giacomo Migone, Gli Stati Uniti e il fascismo. Alle origini dell’egemonia americana in
Italia, Milano, Feltrinelli, 1980.
4. Gaetano Salvemini, L’Italia vista dall’America, Milano, Feltrinelli, 1965, voll. I-II.
318
Uniti che essere antifascisti non implica necessariamente essere comunisti.” 5
L’associazione antifascista, attraverso i due settimanali Mazzini News e Nazioni Unite,
agisce in due direzioni, ma con l’unico scopo di difendere la causa italiana, per una pace più
giusta, e promuovere iniziative di aiuto all’Italia. Da una parte, dunque, diffonde l’immagine di
un’Italia che combatte contro il fascismo presso l’opinione pubblica americana, mentre
dall’altra cerca di convincere le comunità italoamericane che l’unico modo per essere fedeli
all’Italia non è non tradire Mussolini, ma far sì che essa si allontani dall’Asse e abbracci gli
ideali democratici di cui l’America è portatrice.
La caduta del fascismo e lo sbarco alleato in Sicilia costituiscono un momento di ulteriore
approfondimento della conoscenza reciproca fra Italia e America. In modo particolare per gli
Stati Uniti, il primo impatto dei G.I. con l’Italia liberata ripropone i vecchi pregiudizi nei
confronti degli italiani, plebe ignorante, sporca, ladra, pronta a vendersi per una barretta di
cioccolata o per una stecca di sigarette. Le cose, fortunatamente sono destinate a cambiare in
modo graduale a partire dal 1947, con il varo dello ERP. E’ l’inizio di una nuova era nelle
relazioni italoamericane, in un clima di collaborazione reciproca che si protrarrà fino ai nostri
giorni, pur senza abbandonare gli ormai naturali pregiudizi che da entrambe le parti avvolgono
l’immagine dei due Paesi.
• Dalla parte degli italiani
Pregiudizi e diffidenza fanno parte anche della particolare percezione nostrana dell’America,
nonostante spesso si parli di American Dream e americanizzazione, soprattutto, delle abitudini
culturali italiane.
5
Maddalena Tirabassi, La Mazzini Society (1940-1946): un’associazione degli antifascisti italiani
negli Stati Uniti, in “Italia e Stati Uniti dalla Grande Guerra alla Seconda Guerra Mondiale”, a
319
Per molti italiani l’America non è precisamente una realtà, ma piuttosto una terra esotica, il
Paese mitico delle praterie e degli spazi sconfinati, delle immense risorse economiche, delle
metropoli, dei banditi, degli avventurieri e di William Frederick Cody, ovvero Buffalo Bill che,
dopo aver combattuto nella Guerra di Secessione, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del
Novecento, gira l’Europa con il circo Barnum. Il nostro interesse, dunque, per lungo tempo
resta confinato entro limiti puramente esotico-letterari, pertanto non deve suscitare sorpresa la
facilità con cui si diffonde il mito americano della Terra Promessa6 per
molti emigranti che cercano migliori condizioni di vita.
Lo shock dell’impatto con quel Paese sul quale erano state proiettate le speranze di uomini,
donne e bambini, è forte anche per i nostri emigranti per i quali l’America si trasforma ben
presto da Eldorado in “America amara”, come scrive Emilio Cecchi. La situazione si fa ancora
più critica quando, negli anni ‘20, Harding approva una serie di leggi restrittive che fissano una
quota sull’immigrazione e che colpiscono soprattutto gli emigranti dell’Europa meridionale, gli
italiani in modo particolare. Il miraggio di un benessere che aveva attratto tanta povera gente
da ogni parte del mondo, si rivela in tutta la sua vacuità. E’ proprio la falsa civiltà del
benessere il bersaglio delle polemiche antiamericaniste in Italia, specialmente negli anni ‘307. Il
regime, pur avendo la necessità di mantenere buoni rapporti con gli Stati Uniti, è impegnato
nella promozione, presso gli italiani, di un’immagine positiva, “buona”, umana, dello stato
corporativo e del tipo di società che esso si propone di fondare sui solidi valori della latinità e
della romanità e sul genio italico, legati indissolubilmente alla nostra storia millenaria, contro la
cura di Giorgio Spini, Gian Giacomo Migone, Massimo Teodori, Padova, Marsilio, 1976.
6
1. Pier Paolo D’Attorre, “Nemici per la pelle. Sogno americano e mito sovietico nell’Italia
contemporanea”, Milano, Franco Angeli, 1991.
2. Allan Nevins, Henry Steele Commager, “Storia degli Stati Uniti”, Torino Einaudi, 1982, pp.
336-341.
3.Sergio Romano (a cura di), “Gli Americani e l’Italia”, Milano, Libri Scheiwiller, 1993, pp. 11-
26, realizzato per il Banco Ambrosiano Veneto.
320
disumana e meccanica civiltà americana, foriera di “corruzione spirituale, superficialità,
infantilismo, incultura di massa, ...materialismo.” 8
Parte dell’opinione pubblica del Vecchio Mondo pronuncia decisa la condanna del sistema di
valori della cultura barbara e ancora troppo giovane delle terre d’oltreoceano, di
quell’american way of life che ha sostituito la vera cultura con i più superficiali svaghi di
“panem et circenses” 9, dice Michela Nacci, della culla dell’automatismo standardizzato che
ha condotto al conformismo dei consumi e, di conseguenza, al livellamento delle opinioni. E’
convinzione diffusa che l’America abbia ciecamente trascurato come il benessere materiale e il
lusso capillarmente diffuso conducano all’indebolimento dello spirito e, dunque, alla rovina e al
crollo della propria civiltà non più sostenuta da stimoli di rinnovamento o da energia creativa.
Anche Mario Soldati, Carlo Levi ed Emilio Cecchi, per quanto attirati verso la terra
della libertà, si sentono invece respinti dall’aridità dei contatti umani, dalla tristezza della vita
nelle gelide metropoli statunitensi e dall’involgarimento del gusto prodotto dalla “barbarie del
comfort” 10.
In quegli anni, i contatti “culturali” tra Italia e Stati Uniti avvengono attraverso i fumetti, la
letteratura d’appendice, la musica e, soprattutto, il cinema, la principale fonte di informazione
su atteggiamenti e valori della società americana che ha definito su basi originali un nuovo
canale per la proiezione della propria immagine all’estero, al di là della potenza militare o
dell’abilità diplomatica tradizionali 11.
7
Michela Nacci, “L’antiamericanismo in Italia negli anni Trenta”, Torino, Bollati Boringhieri,
1989.
8
Michela Nacci, op. cit., p. 88.
9
Michela Nacci, op. cit., p. 101.
10
Michela Nacci, op. cit., pp. 36-45.
11
Cfr. David W. Ellwood, “Il cinema e la proiezione dell’America”, in “Nemici per la pelle. Sogno
americano e mito sovietico nell’Italia contemporanea”, op. cit., pp. 335-348.
321
Hollywood, in qualità di primo ambasciatore, più o meno criticabile, degli Stati Uniti in Italia,
sembra il principale responsabile della crescita di sentimenti ostili verso le terre d’oltreoceano.
Le pellicole commerciali made in U.S.A. sono lo strumento della diffusione di un’immagine
distorta della realtà americana con il solo scopo di produrre sensazioni artificiali per un popolo
fagocitato da una vita che poco o nulla concede alla creatività. I successi cinematografici
americani sono giudicati grossolani, stereotipati, infantili, ma comunque in grado di corrompere
gli italiani attraverso i modelli di vita e di comportamento di una “cultura primitiva”.
D’altra parte, non si può certo negare, anche negli anni ‘30 e in quelli seguenti, l’esistenza
del mito americano come una parte importante dell’antifascismo espresso attraverso le lettere,
basti pensare a Vittorini e a Pavese che, però, l’America l’hanno solo bramata, ma anche allo
stesso Soldati, che in America è stato davvero, e a Cecchi. E se per Cecchi e Soldati, la
rudezza della vita sociale americana si è tradotta in un meccanico e basso materialismo, per gli
altri si è rivelata come la manifestazione di un primitivismo vitale e incontaminato. Tuttavia, è
anche vero che, almeno fino al secondo dopoguerra, l’americanismo resta intraducibile nella
realtà italiana.
Dopo lo sbarco in Sicilia, le percezioni reciproche, ormai dirette, non più mediate da élites
culturali, politiche e religiose, cambiano radicalmente e, benché in Italia non sia ancora
scomparso un sentimento fortemente ambivalente, a partire dal 1947, con il varo dello
European Recovery Program, quasi tutta la nostra penisola si ritrova a sognare un sempre
meno lontano American Dream i cui simboli sono diffusi capillarmente con la pubblicazione,
in collaborazione con la casa editrice Mondadori, di Selezione dal Reader’s Digest 12.
12
Chiara Campo, L’America in salotto: il Reader’s Digest in Italia, in “Nemici per la Pelle. Sogno
americano e mito sovietico nell’Italia contemporanea”, op. cit., pp. 416-426. Secondo l’autrice,
Selezione ha portato a termine con successo l’americanizzazione dei ceti medi italiani che, da quel
322
Non più riconducibile in alcun modo al mito americano degli intellettuali antifascisti, il sogno
americano è un autentico fenomeno di massa che ha, di nuovo, nel cinema il principale
promotore, tanto più che i film americani del dopoguerra sopravanzano di gran lunga la
produzione neorealista italiana.
Ed ecco che, ancora negli anni ‘60, si ripropone l’annosa polemica sulla degradazione
culturale causata dalla diffusione di modelli facili, della cultura del benessere e del consumismo,
che concorrono alla “ diffusione di una filosofia della
<materialità>... e di una irrimediabile volgarità.” 13
La questione americanismo-antiamericanismo è ben lungi dall’essere risolta e, inoltre, non è
questa la sede più adatta in cui gettare luce su un mistero che, forse, tale deve rimanere.
• “All the news that’s fit to print”
Questo è il credo di The New York Times, un importante richiamo per tutti coloro che
hanno sempre desiderato leggere un giornale serio, ben curato e poco incline al pettegolezzo
fine a se stesso, ricco di notizie attendibili dall’America e dall’estero, insomma, un esempio del
migliore giornalismo americano.
The New York Times rappresenta il punto d’arrivo della rivoluzione del giornalismo
americano inaugurata dalla penny press (i giornali sono venduti al prezzo di un penny e non
più sei cents) a partire dagli anni Trenta dell’Ottocento 14.
momento, saranno i protagonisti del boom economico e i principali sostenitori dell’alleanza con gli
U.S.A. contro il comunismo.
13
Maria Malatesta, Il rifiuto dell’americanizzazione nella cultura italiana degli anni ‘60, in “Nemici
per la pelle”, op., cit., p. 292. L’autrice sta citando le riflessioni di Ennio Flaiano, “Diario degli
errori”, in M. Corti e A. Longoni (a cura di), Opere. Scritti postumi, Milano, 1988 (1966, 1968,
1969), pp. 372, 374.
323
Il primo penny paper è The New York Sun di Charles Dana, nel 1833. Altri importanti
penny papers di New York sono l’Evening Transcript, The New York Herald di James
Gordon Bennett (1835) e The New York Tribune di Horace Greeley (1841). E’ il “trionfo
della <notizia> sull’editoriale e dei <fatti> sull’opinione, un cambiamento plasmato
dalla democrazia e dal mercato [...].” 15
The New York Daily Times esce per la prima volta il 18 settembre 1851. Nel 1857 la
parola Daily è eliminata dal titolo. Il merito dell’iniziativa spetta a Henry Raymond
(direttore), già collaboratore di Horace Greeley al Tribune , a George Jones, vecchio collega
di Raymond al Tribune (direttore commerciale), e ad un altro abile giornalista, E.B. Wesley.
Il giornale è modellato sul London Times, pertanto si propone come serio divulgatore di
notizie. Non intendendo diventare un cieco organo di propaganda, si mantiene indipendente
rispetto a partiti o a gruppi politici, con una propria condotta politica e un atteggiamento
conservatore che, tuttavia, non gli impediscono di essere più aperto sulle questioni sociali.
Iniziato come giornale whig, ben presto sostiene il movimento dei Free-Soilers e poi appoggia
i repubblicani. Raymond, infatti, assiste alla nascita del partito Repubblicano di cui scrive la
prima piattaforma nel 1856. La sua inclinazione per la politica e la sua abilità oratoria gli
valgono l’incarico di vicegovernatore dello stato di New York dal 1854 al 1856. In quello
stesso anno, Raymond rifiuta la nomina a governatore, ma, con il tempo, la sua passione per la
cosa pubblica lo costringe a dedicarsi sempre meno al Times.
La storia di The New York Times dalla morte di Raymond,
avvenuta nel 1869, al suo acquisto da parte di Ochs, nel 1896, è la storia del declino di un
prestigioso e redditizio giornale. Per gran parte di quel periodo, la gestione del Times passa
14
Cfr. Frank Luther Mott, “American Journalism: A History 1690-1960”, New York, Macmillan,
1962, pp. 229-252.
324
nelle mani di George Jones, principale azionista che alla sua morte (1891) possiede quasi
tutto il giornale (nel 1876 rischia di perderne il controllo, così decide di acquistare anche le
quote del defunto Raymond, amministrate dalla vedova).
Jones, unico proprietario, con l’appoggio di Louis J. Jennings, capo redattore, e di John
Ford, chief assistant, conduce battaglie di successo, tra il 1871 e il 1881, contro la banda di
Tweed (proprio in questa occasione rischia di perdere il giornale), contro gli abusi della New
York Life Insurance Company e le frodi del Ministero delle Poste, guadagnando prestigio e
denaro. Tuttavia, con l’arrivo di Pulitzer e di Hearst sulla scena, con il World e il Journal, le
cose peggiorano. La circolazione subisce cali preoccupanti e a nulla vale abbassare i prezzi. Il
giornale ha un’impostazione ancora “old fashioned”, non si è adeguato alle nuove esigenze
editoriali. Paradossalmente, dato il coinvolgimento del Times in battaglie dall’esito più che
incerto, il motivo del fallimento di Jones non è politico. Nuovo editore del giornale, dal 1883, è
Charles R. Miller, che acquista il giornale dagli eredi di Jones per la modica cifra di $
1,000,000. Laureato, uomo di cultura dagli interessi più vari, non è, tuttavia, il più adatto a
quel compito. La sua gestione si rivela pressoché fallimentare e il grande panico del 1893 non
aiuta di certo. Tutto sembra destinato alla rovina, fino al momento in cui un uomo del
Tennessee, Adolph S. Ochs 16, fa tornare The New York Times agli antichi fasti. Corre
l’anno 1896. Ochs è un energico trentottenne professionalmente cresciuto al Knoxville
Chronicle come garzone e apprendista tipografo, al Louiseville Courier-Journal come
tipografo e al Chattanooga Dispatch come agente commerciale. Giornalista piuttosto
15
Michael Schudson, “La scoperta della notizia. Storia sociale della stampa americana”, Napoli,
Liguori Editore, 1987, p. 25.
16
Quando Ochs ne prende in mano le redini, The New York Times ha una circolazione di sole 9.000
copie, contro le 430.000 del Journal di Hearst (The Morning Journal: 300.000 copie; The Evening
Journal: 130.000 copie) e le 600.000 copie del World di Pulitzer (The Morning World: 200.000
copie; The Evening World: 400.000 copie).
Cfr. Mayer Berger, “The Story of The New York Times. 1851-1951”, New York, Simon &
Schuster, 1951, p. 112.