potrebbe dire che “i suoi effetti si estesero all'Uomo” inteso come idea e concezione, e al suo
concetto parallelo: quello di Città.
Nei 27 anni di conflitto, lo scontro e la frattura interna alla Grecia si radicalizzarono sempre
più, andando a caratterizzare profondamente l'ideologia di ognuno dei due schieramenti: da un
lato la dinamica e democratica Atene, dall'altra la tradizionale e oligarchica Sparta. La
coalizione di polis capeggiata dall'Atene di Pericle, nonostante fosse l'esempio più compiuto
di democrazia in Grecia, fondava il suo potere, il suo prestigio e il suo splendore artistico e
culturale su un imperialismo spregiudicato e un sistema politico mai visto prima. Tuttavia,
proprio tale imperialismo e il sistema di riscossione dei tributi che essa imponeva agli alleati
ne aveva messo in pessima luce la fama, facendola diventare da salvatrice della Grecia (nelle
guerre persiane a Maratona e poi a Salamina), a dominatrice oppressiva. Sparta di contro si
trovava a capo della Lega del Peloponneso, un'insieme di poleis molto eterogenee (e molto
più libere e indipendenti all'interno della Lega rispetto agli alleati di Atene) e dagli
ordinamenti politici interni tradizionali (ma soprattutto autodeterminati e non eterodotti come
per i componenti della Lega Delio- Attica). Nonostante la struttura del potere politico spartano
fosse tutt'altro che l'esempio di un sistema aperto e libero, le simpatie esplicite delle città non
soggette al potere ateniese e ben presto anche quelle segrete di molti alleati ateniesi non
tardarono a polarizzarsi su Sparta e il suo progetto di liberazione dal giogo attico di tutta la
Grecia.
Atene, chiamata allo scontro dalla dichiarazione di guerra spartana, si trovò subito costretta a
combattere, messa di fronte alle colpe del proprio imperialismo, tanto che Pericle dirà:
Non potete abdicare oggi dal vostro potere, anche se in questa ora critica qualche galantuomo,
che desidera la vita quieta, va suggerendo una tanto nobile azione. Il vostro impero, di fatto, è
una tirannide: certo illegale a conquistarsi, ma rischiosissima a deporsi2.
Nonostante avesse un tesoro enorme, accumulato in decenni di riscossione del tributo degli
alleati, da poter spendere nell'organizzazione della guerra e fosse nettamente la polis più
influente e potente di Grecia, non poteva permettersi dunque il lusso di essere anche pacifica.
Anzi, proprio perché aveva deciso di costruire un impero dalle caratteristiche nuove
nell'ambiente greco, molto più strutturato di qualsiasi altra Lega fosse mai stata istituita
precedentemente, ora non poteva che incrementare questo potere, pena in caso contrario la
2 Tucidide, op. cit., (II, 63) p. 130.
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perdita di tutto. E in breve il conflitto divenne un test di resistenza per lo stesso concetto di
democrazia. La polarizzazione ideologica che si venne a creare tra i due schieramenti
coinvolse direttamente l'assetto stesso della polis, e all'interno di ogni singola città innescò
una rottura fra la componente oligarchica e la componente democratica. Un vero e proprio
duello tra due visioni di città e uomo, una visione tradizionale, rappresentata da Sparta e dalla
libertà di autodeterminazione (per lo meno propugnata) di cui si fece alfiere durante il
conflitto, e la nuova visione di Atene, basata su libertà civiche fino a quel momento inaudite e
un relativismo etico- politico rappresentato perfettamente da un campione dell'età di Pericle
quale fu Protagora. Relativismo che, tuttavia, fu il principale imputato sia dopo la fine della
guerra sia nei momenti difficili di questa, si veda la vicenda dello stesso Protagora, costretto a
fuggire dalla città in seguito allo “scandalo delle Erme”, o, come verrà analizzato
successivamente, al caso di Socrate. La guerra, infatti, scompaginò completamente le carte,
confondendo i ruoli e coinvolgendo il tessuto sociale di tutta la Grecia, dalla piccola polis
nelle mire di uno dei contendenti per la posizione strategica o per la presenza di una flotta (ad
esempio Melo) fino a grandi città come Tebe e Corinto, dando inizio a un conflitto endemico
tra fazioni politiche. Il principale imputato, dunque, alla fine del conflitto, fu la democrazia,
intesa alla maniera di Pericle, con tutta la sua struttura di libertà morali, viste come pericolose
e rischiose per la stessa convivenza civile. Non a caso, infatti, ogni rivolgimento politico
successivo alla morte del condottiero fu segnato da una fortissima carica morale (o, meglio,
moralista).
Fu dunque anche e soprattutto un conflitto fra tradizione e novità, almeno alle apparenze, e la
sconfitta di Atene segnò la fine non solo del secolo d'oro della Grecia classica, quel V secolo
a. C. che fu occupato per quasi un terzo dal conflitto, ma anche della Grecia delle poleis. Era
fallito il progetto imperialista democratico di Atene, questo era certo, ma anche il progetto
tradizionalista di gestione autodeterminata delle singole poleis propugnato da Sparta si era
scontrato ed era naufragato nelle difficoltà crescenti del conflitto, affrontato con molti meno
mezzi economici rispetto ad Atene. L'aiuto chiesto all'avversario di sempre, la Persia, non
sarebbe stato, ovviamente, gratuito e disinteressato, e la tanto osannata vittoria della
tradizione, nonché il conseguente ritorno della libertà di autodeterminazione delle città
greche, si sarebbe rivelata un'illusione. Sparta, infatti, non riuscì a costituire una valida
alternativa ad Atene, la corruzione iniziò ad insinuarsi pesantemente nelle sue istituzioni
granitiche, grazie all'enorme afflusso di finanziamenti da parte dello scomodo alleato persiano
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e l'esercito, impegnato a controllare un territorio improvvisamente gigantesco, non riuscì a
opporre la resistenza necessaria prima a Tebe e poi all'arrivo di Alessandro e del dominio
macedone. Il risultato del conflitto fu non solo un enorme vuoto di potere, lasciato da Atene e
che Sparta non seppe colmare a dovere, ma anche la sensazione che la stasis, fosse destinata a
divorare per sempre la polis dal suo interno.
Tucidide e Platone operano dunque in un ambiente politico- culturale in costante ebollizione e
devono fare i conti con la crisi di valori, lo spaesamento di una Grecia post-bellica che
cercava in ogni modo di ristabilire l'equilibrio precedente il conflitto senza riuscirvi, con la
minaccia di una stasis perenne. La loro opera indagherà con strumenti e da angolazioni molto
differenti il vero protagonista che si era proposto alla ribalta dopo la guerra del Peloponneso:
l'uomo, inteso come individuo, con tutte le sue problematiche nuove, legate ai rapporti di
potere, che la vecchia concezione della polis non poteva più armonizzare a dovere. La storia
della filosofia della politica, intesa come pensare ai fondamenti stessi del concetto di
convivenza e di individuo, inizia proprio come conseguenza di questo periodo di timori e
sommovimenti, ed ha i suoi fondatori e primi protagonisti in Tucidide e Platone.
Tucidide scrisse La guerra del Peloponneso a conflitto appena terminato e morì
probabilmente prima del 396 a. C. Visse tutta la giovinezza nell'Atene prebellica di Pericle e
dei sofisti e combatté in prima persona per la causa della sua città nel conflitto, esercitando
anche l'incarico di stratega ad Anfipoli, dove la superiore abilità tattica del generale spartano
Brasida stroncò la sua carriera militare, e in seguito alla quale egli fu esiliato dalla sua città
natale. La sua opera, un capolavoro della storiografia, è ormai a pieno titolo riconosciuta
come opera di profondo interesse per quanto riguarda il pensiero politico, anche grazie
all'analisi di Leo Strauss in The City and Man. La visione filosofica di Tucidide passa
attraverso l'intelaiatura solidamente storica e il più possibile oggettiva del narrato, filtrando
dagli unici spazi lasciati almeno in parte liberi alla reinterpretazione, integrazione e
rielaborazione dell'autore: i discorsi delle personalità coinvolte nel conflitto. Come delle vere
e proprie scene madri di un dramma, in queste “zone franche” Tucidide può riscrivere un
discorso, sottolineando o mettendo in secondo piano i temi affrontati, a seconda del
messaggio da veicolare e dell'ideologia di cui si faceva latore il personaggio protagonista.
Questa metodologia “permetteva allo storico di rendere più efficaci gli argomenti
effettivamente usati, e se l'oratore aveva tralasciato qualcuna delle cose che sarebbe stato
necessario dire o fare in una data circostanza, lo storico poteva aggiungerle”3. In aggiunta a
3 Thomas A. Sinclair, Il pensiero politico classico, Laterza, Bari, 1961, p.132.
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questo, analizzerò anche alcuni punti della parte storica pura, per vedere se sarà possibile
rinvenirvi tracce di una visione personale anche nell'uso strumentale di alcuni episodi, come
ad esempio la peste di Atene, per avvallare un'opinione politico- filosofica. In ogni caso,
l'affresco che Tucidide dipinge nel suo capolavoro è sicuramente a tinte molto fosche, e vi si
può leggere una profonda sfiducia sulla natura più profonda dell'essere umano. La guerra,
infatti, smaschera la “natura necessaria” dell'uomo, una natura fatta di “volontà di potenza”
innata, tenuta a freno in tempo di pace, e a fatica, dalla coercizione delle leggi. Il conflitto era
stato in grado di “vanificare l'illusione (alla maniera protagorea) di una città per sempre
pacificata e coesa grazie all'acquisizione della <virtù politica>”4. Dunque “l'impresa propria
dell'intera civiltà greca, culminata nell'esperienza ateniese, di costruire una comunità politica,
la polis, omogenea al proprio interno, esente da conflitti […] sembrava giunta al fallimento”5.
Una conflittualità endemica avrebbe per sempre afflitto l'umanità, e sarebbe stata causata dalla
pleonexia, il desiderio di prevaricazione e di “avere di più”, insito nell'individuo.
Su questo punto Platone e Tucidide convergono, ma mentre per lo storico la pleonexia è un
tratto naturale insito nel carattere dell'uomo, con cui si dovrà sempre venire a patti, per il
filosofo è semplicemente un prodotto storico dell'educazione. La natura umana non è un dato
di fatto immutabile, ma anzi, può essere plasmata e corretta grazie all'opera benefica di una
giusta educazione. Tale giusta educazione avrebbe avuto il compito principale di correggere il
“peccato originale” della natura umana: la concezione che solo la pleonexia avrebbe potuto
assicurare la felicità all'uomo (una volta raggiunto il proprio oggetto). Compito dei “medici
della città” sarebbe dunque stato quello di dimostrare che l'autentica felicità, nonché la tanto
agognata pace sociale avrebbe potuto essere garantita non dalla pleonexia ma dalla giustizia.
Al tema della giustizia è dedicata l'intera Repubblica, l'opera di Platone cui farò maggiore
riferimento, vero e proprio cuore nevralgico del pensiero politico di Platone, nonché punto di
raccordo e di svolta nella sua opera. Nella possente struttura del dialogo i temi già trattati in
precedenza da altri dialoghi trovano il loro posto in un gigantesco puzzle che andrà a costruire
la visionaria kallipolis. La Repubblica sembra infatti svelare per la prima volta quale fosse
realmente lo scopo del pensiero platonico: la rifondazione completa della città e dell'uomo
sulla base di una rinnovata concezione di giustizia. Non solo, l'elaborazione della città e
dell'uomo giusto, sono il frutto di un pensiero che abbandona la confutazione socratica, un
porre domande e insinuare il dubbio fine a sé stesso, senza che vi fosse alcuna visione
4 Mario Vegetti, Quindici lezioni su Platone, Einaudi, Torino, 2003, p.87.
5 Mario Vegetti, op. cit., p.86.
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alternativa, per abbracciare un pensiero positivo e propositivo, segno che per Platone,
kallipolis non fosse solo il frutto della sua immaginazione, ma il vero scopo cui tendeva il suo
agire. La fondazione dell'Accademia e il progetto educativo che cercò di compiere a Siracusa
con Dionisio il Giovane dimostrano chiaramente che la sua concezione politica fosse ben
lontana dall'essere una mera utopia: era un vero e proprio atto di fondazione di un nuovo
progetto politico, cui l'Accademia stessa avrebbe dovuto contribuire concretamente, cercando
di diffondere e difendere la nuova concezione di giustizia sociale. Per la città giusta di
Platone, dunque, “non vi sono ostacoli in natura che si frappongano a tale realizzazione, ma
solamente delle circostanze storiche”6.
A questo punto si potrebbe dire che se Tucidide da un lato non vede la possibilità concreta di
un'uscita dallo stato di stasis perenne a causa di un vizio di forma della natura umana, Platone
sia invece certo che questa uscita vi sia, sebbene talmente difficile da essere quasi impossibile.
Tuttavia ora è opportuno andare ad analizzare più in profondità l'opera dei due autori per
individuare se realmente per Tucidide non vi siano vie di scampo, e quale fosse più in
profondità la sua visione politica, da un lato, e in che modo fosse attuabile la costituzione
della città giusta di Platone, e che forma avrebbe dovuto avere, dall'altro.
6 Giovanni Giorgini, in Giulio M. Chiodi e Roberto Gatti (a cura di), La filosofia politica di Platone, Franco
Angeli, Milano, 2008, p.47.
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