3
INTRODUZIONE
Pensare al futuro è qualcosa che da sempre ha portato l’uomo a provare emozioni contrastanti.
Oggi, a maggior ragione, gli sguardi verso il futuro generano da un lato un immenso fascino
per l’esponenziale crescita tecnologica che la nostra società sta vivendo, dall’altro lato paure e
preoccupazioni verso orizzonti incerti ed incontrollabili, di cui il cambiamento climatico è solo
uno dei tanti campanelli d’allarme. Questo rapporto di “amore ed odio” verso il futuro è un
tema che, non a caso, ha trovato molto spazio nel cinema, nella scrittura e in molte altre
produzioni artistico-culturali moderne, ma non solo. Molto meno spesso, tuttavia, la letteratura
stessa si è fatta strumento d’indagine per meta-analizzare sé stessa in una proiezione futura:
quest’illuminante idea è stata messa in pratica nel 1953 da Ray Bradbury in Fahrenheit 451.
Ad essere indagati qui sono gli effetti del progresso tecnologico sulla letteratura e la cultura in
generale, in una proiezione prospettica costruita in maniera minuziosa ed eloquente dallo
scrittore statunitense, seguendo un principio ben preciso: il progresso incontrollato distrugge la
cultura. Il libro nella sua forma classica, nel mondo di Fahrenheit 451, è proibito e, in quanto
tale, dato alle fiamme. Tutto il romanzo si regge infatti su un’attentissima impalcatura legata al
fuoco in cui le figure dei pompieri, invece di spegnere incendi, li appiccano per bruciare la carta
stampata. La mia analisi prende spunto da una personalissima osservazione che, senza troppi
giri di parole, sfocia in quello che io definirei come “Il paradosso di Fahrenheit 451”: il punto
centrale è che in un mondo, quello odierno, che ha subito un enorme accelerata dal punto di
vista dello sviluppo tecnologico in ogni suo ambito, il fulcro stesso del romanzo di Bradbury
sarebbe crollato su sé stesso e il suo stesso concepimento sarebbe stato fisiologicamente
irrealizzabile. Oggi, infatti, i libri, per essere distrutti, non possono più soltanto essere bruciati,
in quanto il progresso stesso ha fornito gli strumenti per porre rimedio a ciò e favorirne la
preservazione: gli ebook su smartphone, tablet, pc, il cloud, gli audiolibri, strumenti di
archiviazione personali e vari altri meccanismi di digitalizzazione e conservazione. Oggi il
progresso digitale non minaccia la cultura letteraria, ma le fornisce, a mio parere, nuove
possibilità. Partendo da questo “paradosso”, il mio metodo d’indagine sarà dunque quello di
analizzare in profondità questo delicato rapporto tra censura e progresso, in un percorso in cui
bisognerà prima di tutto comprendere cosa significa parlare di “censura”, cercando di indagare
quando essa nasce, dove si manifesta e come si presenta nella produzione letteraria; in secondo
luogo, bisognerà analizzare il modo in cui l’odierna espressione letterario-culturale è stata
influenzata dalle più recenti novità tecnologiche, i vantaggi che ne ha tratto e le eventuali
4
problematiche. Analisi che faremo rientrare, rispettivamente nel primo e nell’ultimo capitolo
dell’elaborato. Invece, al centro tra questi due poli, prima della vera e propria analisi del
romanzo di Bradbury, tratteremo in maniera approfondita una preziosa declinazione del tema
della censura offertaci dal romanzo La morte di Virgilio di Hermann Broch, in cui istanze di
carattere politico, letterario ed esistenziale si intrecciano in una complessa quanto affascinante
riflessione metaforica sull’arte nella sua totalità.
Il mio obiettivo, tuttavia, non è quello di proporre una visione illusoriamente idealizzata del
progresso digitale, in opposizione alla distopica realtà costruita, proprio a causa di quest’ultimo,
da Bradbury. Piuttosto, il mio scopo è quello di dimostrare come la censura sia un fenomeno
molto complesso che può essere sì incentivato dal progresso (e lo vedremo nel caso della nascita
e diffusione della stampa), ma che sarebbe alquanto riduttivo, se non puramente ottimistico,
ridurre soltanto ad una sistematica declinazione del genere. Questo perché ci sono anche aspetti
positivi che, per esempio in termini di fruizione, preservazione e diffusione del contenuto, i
nuovi media hanno offerto alla letteratura.
Dunque, cosa significa censurare? Cos’è l’autocensura? Come il progresso tecnologico si
interfaccia con le modalità di libera di espressione? A queste domande proveremo a dare le
adeguate risposte nel corso di questa trattazione.
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CAPITOLO 1: LA CENSURA: UN FENOMENO COMPLESSO E
V ARIEGATO
1.1 LA CENSURA LIBRARIA: ORIGINI E SVILUPPO
Nel corso dei secoli, l’uomo ha sempre avvertito il bisogno di esprimere i propri pensieri, le
proprie credenze, le proprie idee. La storia dei supporti scrittori (dalle tavolette di argilla, ai
rotoli di papiro e pergamena, fino ai codici e agli odierni supporti digitali), al di là di mere
esigenze pratiche, dimostra la persistente esigenza di questa necessità: mettere per iscritto i
propri pensieri non è solo un modo per dare loro concretezza, ma anche per divulgarli, facendo
in modo che altra gente li recepisca o li faccia propri. Accanto a questa esigenza, tuttavia,
altrettanto antica è la tendenza a voler limitare questa pratica, a porre un freno alla diffusione
di idee avvertite spesso come lontane dal proprio punto di vista: siamo soliti definire questa
pratica “censura”. Appare significativo il fatto che l’etimologia del termine ci rimandi all’antica
magistratura romana del censore, colui il quale, in età repubblicana, era in particolar modo
adibito al controllo dei costumi, «vigilando dunque sui modelli di comportamento e facendo sì
che una “nota’’, un biasimo, potesse far decadere ogni cittadino dal proprio status»
1
.
Episodi di censura libraria ci sono testimoniati infatti sin dall’antichità romana, ad esempio il
caso di Cremuzio Cordo che «al tempo di Tiberio imperatore fu accusato di un delitto nuovo e
inaudito. Aveva pubblicato scritti in cui esprimeva il rimpianto verso le antiche virtù
repubblicane e aveva definito Cassio l'ultimo dei romani. […] Il Senato decretò che i suoi libri
fossero dati alle fiamme»
2
. Oppure il caso dei «falsi libri» di Numa Pompilio, «opere che
rispecchiavano la filosofia di Pitagora, scoperte per caso cinque secoli dopo la morte dello
stesso Numa nel 181 a.C., e che per ordine del Senato vennero completamente distrutte.»
3
, In
seguito, tale pratica prese piede in maniera sempre più sistematica in età medievale ma esplose,
soprattutto, in età moderna.
Bisogna però, innanzitutto, tener conto di un aspetto rilevante: gli episodi di censura libraria
del Medioevo risultano più complessi da rintracciare rispetto a quelli dell’età moderna. Tra le
1
Pani M., Todisco E., Società e istituzioni di Roma antica, Carocci editore, Roma 2018, p.34
2
Infelise M.: I libri proibiti: da Gutenberg all'Encyclopédie, Laterza, Bari 2008, p. 3.
3
Gatta M., L'incredibile storia dei libri di Numa: falsi, roghi e plagiari dall'antica Roma al '900, Biblohaus,
Macerata 2013, p. 99.
6
motivazioni di ciò, bisogna prima di tutto escludere il dubbio legittimo per cui si possa arrivare
ad immaginare che nei secoli medievali ci fosse una libertà di parola ed espressione tale da
garantire una circolazione libraria svincolata da opposizioni: non mancano, infatti, episodi di
censura anche in questi secoli, partendo sin dall’imperatore Costantino, il quale «nel corso del
Concilio di Nicea (325) chiese la distruzione dei libri di Ario (tra i quali Thalia)»
4
, passando
dai roghi dei libri di Pietro Abelardo e di Arnaldo da Brescia fino ad arrivare a quelli di Wycliff
e Huss. Il punto è che si tratta di episodi piuttosto isolati, episodi che, anziché prendere di mira
l’opera in quanto tale, minacciano piuttosto l’esistenza del singolo manoscritto che la riproduce.
Insomma, censurare non era un’operazione semplice poiché mancavano tutti quei meccanismi
produttivi che, invece, in materia libraria, caratterizzeranno l’età moderna. Su questo aspetto
torneremo a breve.
È ora necessario infatti considerare che buona parte della censura è avvenuta, nell’Alto
Medioevo, in una maniera che potremmo quasi definire “silenziosa” e un importante banco di
prova per la valutazione di questo processo può essere l’analisi della trasmissione dei testi
classici: «ad eccezione dei pochi codici tardo-antichi e dei frammenti papiracei, pressoché
l’intera letteratura latina classica conservata presuppone un recupero operato in età
medievale.»
5
Sarebbe alquanto ottimistico dunque ipotizzare che la scelta dei testi destinati ad
essere copiati, ovvero trasmessi ai posteri, non risentisse della diversa percezione culturale e
religiosa che caratterizzava i responsabili di queste operazioni, in particolare gli abati dei
monasteri. Più realistico invece sarebbe sostenere che fosse operata una distinzione tra opere
che potremmo definire “degne di essere ricopiate” ed opere “meno degne di essere ricopiate”
e, di conseguenza, da censurare. Al primo gruppo possiamo rimandare, per esempio, l’Eneide
di Virgilio («l’autore meglio testimoniato da codici tardo-antichi»
6
), al secondo il Satyricon (di
cui si hanno dubbi persino sull’autore dell’opera), del quale oggi possediamo solo alcuni stralci:
nel primo caso, come testimoniano le varie riletture dell’opera virgiliana in chiave cristologica,
era avvertito un senso di autorità formale e morale da preservare, nel secondo caso un senso di
scabrosità ed oscenità da condannare, destinando l’opera all’oblio.
L’idea che abbiamo oggi della censura libraria, tuttavia, è per certi tratti profondamente
differente da quella medievale. Da un certo punto in poi, infatti, essa assume una fisionomia
nuova, più precisa, organica e una natura che potremmo definire “pubblica’’, per cui:
-
Tende a propagarsi non più a macchia di leopardo, ma a macchia d’olio;
4
Ivi., p. 100.
5
Stok F., I classici dal papiro a Internet, Carocci editore, Roma 2012, p. 125.
6
Ivi, p. 43.
7
-
È legata alla volontà di precise ed importanti autorità politiche e religiose (i sovrani e i papi);
-
Avviene in serie e in maniera sistematica (nascono delle istituzioni specializzate nella
sorveglianza dei testi).
Questa visione della censura nasce e si sviluppa proprio in Età moderna ed è legata a tre
rispettivi fattori che caratterizzano questi secoli (in particolare XVI e XVII):
-
L’emergere degli Stati moderni;
-
La riforma protestante e le conseguenti “lotte” religiose;
-
La diffusione della stampa a caratteri mobili.
Questi tre avvenimenti non vanno tuttavia analizzati in maniera separata tra loro, poiché sono
tutti fenomeni concomitanti alla nascita e alla consapevolezza della censura come un vero e
proprio strumento. In ogni caso, un ruolo decisamente trainante lo ebbe soprattutto la diffusione
della stampa: «fu soprattutto nel corso dell'età moderna, tra gli inizi del secolo XVI e la fine del
XVIII, che in Europa nacque, si sviluppò ed entrò in crisi un sistema di controllo sulla
produzione, la circolazione e l'uso del libro, inteso come naturale complemento di una società
ben organizzata.»
7
Così afferma Mario Infelise ne I libri proibiti, sottolineando poi, in particolar
modo, il fatto che la contemporaneità della diffusione della stampa a caratteri mobili e quella
della riforma protestante sia stata probabilmente alla base di un’improvvisa accelerata dei
meccanismi di censura: il libro a stampa inizia ad essere visto come un vero e proprio pericolo
dalla Chiesa di Roma, da fronteggiare in maniera netta e perentoria sfruttando tutti i mezzi
possibili a propria disposizione, ma, soprattutto, inventandone di nuovi. La censura libraria
viene dunque a configurarsi come una vera e propria battaglia, una crociata da compiere per
difendere il cattolicesimo da ogni tipo di deviazione a cui protestantesimo, eresie e non solo
potevano portare. Si lavorò, difatti, ad un vero e proprio apparato di controllo che «nelle
intenzioni doveva abbracciare il continente e che servi da modello per qualsiasi organizzazione
di controllo poliziesco del pensiero del futuro, con inevitabili ripercussioni sulla vita degli
individui, sul loro rapporto con la realtà e con i poteri, sul progresso delle scienze e del sapere
in generale.»
8
Non è da escludere che i germi di questa esigenza fossero da tempo insiti nel
cuore della Chiesa e che, paradossalmente, sia stata proprio l’invenzione della stampa a
garantire, in maniera molto più efficace, la possibilità di limitare la circolazione dei volumi
propugnanti idee contrastanti con quelle cattoliche. Il punto infatti è che nell’età del
7
Infelise M.: I libri proibiti: da Gutenberg all’Encyclopédie, op. cit., p. 4.
8
Ibidem.
8
manoscritto, come accennavamo, non mancavano le proibizioni di libri, ma era molto più
complesso e, per certi versi, impossibile rintracciare e controllare il flusso di riproduzione dei
testi, nonostante fosse più limitato. Invece, dal XVI secolo, le copisterie diventano dei veri e
propri punti di riferimento, gli usci da cui entravano ed uscivano le opere destinate alla
pubblicazione. Significativo è il fatto che anche autorità civili, come i sovrani francesi,
iniziarono ad intuire i pericoli che un libro potesse assumere con la grande diffusione che la
stampa gli permetteva, in particolare Francesco I che, «colpito dalla diffusione di alcuni scritti
a lui contrari, aveva emanato un inapplicabile divieto assoluto di stampa in tutto il regno»
9
. La
censura libraria assunse dunque un nuovo modo di manifestarsi: non più un’azione che colpiva
in maniera singola e diretta i manoscritti di un monastero o di una diocesi, ma un’azione che,
partendo da un’autorità centrale (il Papa o il sovrano) si espandeva a macchia d’olio nei territori
su cui tale autorità estendeva la propria influenza: siamo dinanzi al concetto odierno di censura,
una censura che potremmo definire “statale”.
Passiamo ora a delineare, nel concreto, le modalità con cui, soprattutto da parte della Chiesa,
questo scopo è stato perseguito. Infelise costruisce una vera a propria cronologia di eventi che,
partendo dal 1452 (anno in cui Gutenberg avvia la stampa a caratteri mobili) e arrivando al
1966 (abolizione da parte di Paolo VI dell’indice dei libri proibiti)
10
, ci fornisce un articolato
quadro d’insieme delle modalità con cui la censura fu messa in pratica, rimodulata e poi
demolita. Qui ci soffermeremo principalmente sulle prime disposizioni che la Chiesa di Roma
mise in atto in termini di censura libraria, operazioni che mostrano un importante cambio di
rotta con i secoli precedenti. Innanzitutto, già nel 1487, il papa Innocenzo VIII iniziò a temere
l’impatto dell’attività tipografica tra i fedeli e ordinò a tutti i vescovi di vigilare all’interno delle
diocesi affinché non si diffondessero libri contrari alla religione e alla morale cristiana. Il
fenomeno della circolazione, intanto, assumeva una portata sempre più ampia al punto che nel
1501 Alessandro VI dovette emanare la bolla Inter multiplices, con cui si fissavano i princìpi
della censura preventiva: essa gettò difatti le basi per un «controllo generalizzato e
centralizzato», in particolare dopo che la bolla Inter sollicitudines (1515) di Leone X ribadì ed
estese questi principi a tutta la cristianità. Un ruolo importante ebbe anche l’azione di
Ferdinando di Aragona e di Isabella di Castiglia, i quali contribuirono a rendere la Spagna uno
dei terreni più fertili per la censura: una prammatica del 1502 imponeva il bisogno di un
permesso di circolazione per i libri di “nuova impressione’’ e per le importazioni dall’estero,
mentre una nuova figura, il «censore», ovvero un «un letterato fedele e di buona coscienza» fu
9
Ivi, p. 6.
10
Cfr. Ivi, pp. 139-143.
9
creata per proibire le opere considerate «apocrife, superstiziose, condannate, nonché le cose
vane e inutili»
11
. Anche in Inghilterra e Francia ci furono primi timidi tentativi di censura
12
, ma
la questione fu destinata presto a cambiare con l’esplosione del fenomeno protestante. Tra il
1517 e il 1530, infatti, gli scritti di Lutero furono diffusi in oltre trecentomila copie: un risultato
clamoroso che rese obbligatoria un’accelerazione dell’organizzazione di istituzioni censorie. Il
21 luglio del 1542, con la bolla Licet ab initio di papa Paolo III, nacque dunque l’Inquisizione
romana, un tribunale centralizzato dotato di vari rappresentati sparsi nelle diverse diocesi, con
l’obiettivo principale di combattere le eresie e di conseguenza la circolazione libraria, tant’è
che «si stima che almeno la metà dei processi di Inquisizione abbia qualche relazione con la
presenza di testi scritti o con la loro lettura»
13
. Non deve sorprenderci il fatto che, di lì a poco,
dagli anni ’40 del Cinquecento, iniziò ad emergere l’esigenza di creare dei veri e propri
repertori, meglio noti come “indici”, che dovevano racchiudere al loro interno tutte quelle opere
la cui divulgazione o lettura fosse ritenuta illegale e dunque proibita. Risale però al 1559 il
primo, nonché più severo, indice romano, meglio noto come “indice paolino” (dal papa Paolo
IV che l’aveva promulgato): con esso, in primo luogo si mettevano da parte i vescovi nella lotta
censoria per poter affidare pieni poteri agli inquisitori, sotto il cui controllo doveva confluire
l’intera produzione intellettuale; in secondo luogo si obbligava i fedeli a riconsegnare i libri
“proibiti” direttamente al Sant’Uffizio, con delle condanne molto più radicali e indiscriminate
rispetto al passato per chiunque si opponesse. L’indice subì diversi aggiustamenti e
rimodulazioni nel corso degli anni successivi
14
, tuttavia ciò che salta agli occhi è il fatto che
esso rappresenti una vera e propria istituzionalizzazione dell’attività censoria senza precedenti.
In ultima analisi, è lecito chiedersi quali siano i libri che, più di tutti abbiano risentito di tali
vicende censorie. Infelise sottolinea infatti come l’azione di controllo mirasse a estirpare
11
Ivi, p. 8.
12
«In Inghilterra i primi provvedimenti censori emersero più tardi: Enrico VIII, inizialmente acerrimo nemico
della pubblicistica luterana, emanò disposizioni rigorose circa i libri di argomento religioso solo nel 1526,
pubblicando tuttavia precocemente una lista di 18 opere proibite (tra le quali figuravano cinque scritti di Lutero).
Tre anni più tardi il catalogo si era già dilatato a 85 titoli (ben 22 di Lutero e 11 di Zwingli).
Le prime iniziative
in proposito erano state peraltro prese in ambito ecclesiastico, in ossequio alle prime bolle pontificie di condanna
degli scritti dell'agostiniano. Il vescovo di Londra nel 1520 aveva infatti prescritto il divieto di importazione di
libri dall'estero e l'obbligo della licenza rilasciata da una commissione presieduta dall'arcivescovo di Canterbury
per ogni nuova richiesta di pubblicazione […] In Francia Francesco I istituì la censura delle opere teologiche
affidata alla Sorbona di Parigi già tra 1520 e 1521; quando nel 1542 sarà esplicitamente rivolta anche a scritti di
medicina, giurisprudenza, letteratura, storia e geografia la sorveglianza sul mercato librario sarà affidata alla
competenza di funzionari statali. Al pari della Spagna non si accettarono i sistemi di controllo romani e
originariamente fu la politica del privilegio di stampa a consentire alla monarchia la sorveglianza sul mercato
editoriale, che tuttavia rimase a lungo piuttosto effimera.» (Paris A., Dissenso religioso e libri proibiti nel
Principato vescovile di Trento tra fine Quattrocento e inizio Seicento, Università di Trento, 2011, pp. 15-16)
13
Infelise M.: I libri proibiti: da Gutenberg all’Encyclopédie, op. cit., p. 12.
14
Cfr. Ivi, pp. 34-42.