7
Proprio in merito a questo problema, da ricerche personali effettuate
presso tossicodipendenti locali, sono emerse le medesime ragioni messe
in evidenza da Guazzaloca e Pavarini
1
su scala nazionale, vale a dire: a) il
tossicodipendente condannato ad una pena breve preferisce di gran lunga
la detenzione rispetto alla scelta terapeutica di tipo essenzialmente
comunitario; b) il tossicodipendente definitivo in attesa di ulteriori
procedimenti a suo carico, sapendo che non può usufruire della misura
per più di due volte, preferisce non “bruciarsi” subito questa possibilità;
c) i tossicodipendenti che vorrebbero optare per l’opzione terapeutica,
soprattutto quelli di lunga “militanza”, si trovano a non avere alternative
rispetto al carcere in quanto, ad esempio, la comunità terapeutica non
ritiene di dovere “disperdere” energie nei confronti di tali soggetti
ritenuti “irrecuperabili” per dedicarsi interamente ed esclusivamente
verso quei soggetti tossicodipendenti che possano essere più “facilmente”
recuperati
Nel presente studio verranno trattate brevemente anche altre
problematiche quali, ad esempio, la funzione della pena e della misura di
sicurezza, l’imputabilità del tossicodipendente nell’ordinamento italiano
e nella legislazione europea, nonché i risultati ottenuti nella realtà
modenese dalla misura de quo.
Prima di entrare nel merito dell’oggetto dello studio che segue
2
, quale
misura alternativa alla detenzione per i tossicodipendenti condannati ad
una pena detentiva nel limite di quattro anni
3
(anche come residuo di
pena da scontare), che abbiano in corso o che intendano sottoporsi ad un
programma di recupero, è necessario analizzare storicamente
l’evoluzione delle leggi in materia di sostanze stupefacenti.
1
B. Guazzaloca – M. Pavarini, Differenziazione per ragioni terapeutiche, in Giurisprudenza
sistematica di diritto penale, a cura di F. Bricola e V. Zagrebelsky, Torino, Utet, 1995, 391.
2
Art. 94 d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309, già art. “47- bis” dell’ordinamento penitenziario, introdotto dal
d.l. 144/1985, convertito nella legge 297/1985, successivamente modificato dalla legge 663/1986 e
dallo stesso T.U. 309/1990.
3
Tale limite di pena, precedentemente fissato in tre anni, veniva introdotto dal d.l. 14 maggio 1992, n.
132, convertito con modificazioni nella legge 14 luglio 1993, n. 222.
8
Infatti, sotto il profilo storico e politico–criminale è interessante notare
come la materia degli stupefacenti abbia visto nel dopoguerra un intenso
intervento da parte del legislatore penale.
Non è possibile tuttavia intendere appieno il significato e la portata delle
ultime proposte governative in tema di stupefacenti, se non le si mettono
in relazione, in prospettiva storica, con le precedenti esperienze
normative, compreso, naturalmente, il trattamento riservato al
tossicodipendente dal Codice Rocco.
Nel settore degli stupefacenti il diritto penale ha subito nel corso del
tempo vere e proprie “oscillazioni” che lo si può figurativamente
accostare, per usare le parole di Adelmo Manna
4
, “al fenomeno della
marea che avanza o si ritrae a seconda delle stagioni”.
Nel codice penale del 1930, la normativa di carattere ancora fortemente
repressivo e tutto sommato poco incline all’ideologia del trattamento, se
si eccettua il caso del cronico intossicato, denota chiaramente una visione
dell’assuntore di droghe come un “vizioso” da reprimere, in primo luogo,
e solo eventualmente da curare.
Tale prospetto, basato ancora sul convincimento, di matrice
nordamericana, che il miglior modo per estirpare un “vizio” individuale
sia quello di reprimerlo penalmente, assume poi la sua dimensione forse
più compiuta nella legge 22 ottobre 1954, n. 1041, attraverso la quale il
consumatore di quantità anche minime di stupefacenti veniva gravemente
punito e il trattamento era reso più duro dalla carcerazione preventiva
obbligatoria.
Si parla in questo senso di periodo del proibizionismo perché la legge in
questione puniva l’intero ciclo della droga, dal c.d. grosso spaccio al
consumo anche di piccoli quantitativi. Quello che qui preme rilevare è
come ciò avvenisse mediante un’unica fattispecie criminosa che
ricomprendeva tutte siffatte ipotesi, con il risultato di punire allo stesso
modo, tranne l’agire nell’ambito della cornice edittale di pena, condotte
fra loro diversissime.
4
A. Manna, Legislazione “simbolica” e diritto penale: a proposito della recente riforma legislativa, in
La riforma della legislazione penale in materia di stupefacenti, a cura di F. Bricola e G. Insolera,
Padova, Cedam, 1991, 20
9
Successivamente, dopo il constatato fallimento del proibizionismo,
subentrava, con la legge 22 dicembre 1975, n. 685, il periodo
dell’assistenzialismo in cui il consumatore di quantità modiche di
stupefacenti era sottratto alla normativa penale, mentre era massimo lo
sforzo delle istituzioni pubbliche, più teorico che pratico, per fornire
assistenza morale e materiale ai tossicodipendenti.
La legge 685/75, adotta un sistema definito a “forbice”, nel senso che,
partendo dal presupposto che il tossicomane non può più essere
qualificato né un vizioso, né tanto meno un delinquente, bensì solo un
malato
5
, adotta per quest’ultimo non già trattamenti punitivi, riservati
invece al traffico di stupefacenti, in una ottica general-preventiva, bensì
curativi, in una visione più orientata alla prevenzione speciale. La
novità, pertanto, di tale legge consiste in un arretramento del tradizionale
intervento punitivo nei confronti del consumo di modiche quantità di
stupefacenti, il che però non significa affatto che ciò abbia comportato
una sostanziale libertà di drogarsi. Una lettura attenta della legge
dimostra che la detenzione di modiche quantità di stupefacenti, ex art. 80
c. 2, costituisce sempre un atto illecito, per cui la norma in questione
prevede solo una condizione di non punibilità, in quanto la sostanza
stupefacente è soggetta a confisca.
Non va inoltre dimenticato che la legge 685/75 non si limita a non
punire, in senso tradizionale, il detentore di piccoli quantitativi di
stupefacente, bensì ne prevede (artt. 99 ss), il trattamento terapeutico
obbligatorio, il quale, almeno nelle intenzioni del legislatore, avrebbe
dovuto fungere quasi da “misura sostitutiva” della detenzione prevista
nella precedente legge del 1954.
Ciò che comunque appare evidente è che sicuramente la voluntas
legislatoris non era quella di consentire di fatto una diffusa libertà di
drogarsi, per cui, se ciò si è inteso, o si è voluto intendere, è dipeso
soprattutto dalla circostanza per cui la legge 685, nella parte relativa ai
trattamenti riabilitativi, è rimasta sostanzialmente disapplicata.
5
Così la Relazione Commissione Giustizia e Sanità alla legge 22 dicembre 1975, n. 685, in Atti Senato
VI leg., stampato n. 4- 819A.
10
Anche noi aderiamo alla tesi di Adelmo Manna
6
, il quale ravvisa
l’origine della necessità, avvertita dalla maggioranza parlamentare, di
rivedere sostanzialmente la legge 685, nel senso di prevedere ancora una
volta la sanzione penale per il semplice consumo di stupefacenti, in un
mutato clima internazionale dominato, soprattutto, nel settore che qui ci
interessa, dalla politica nordamericana, tendente a combattere con ogni
possibile mezzo, non solo affidato al diritto penale, ma anche all’esercito,
ciò che emblematicamente viene chiamata “lotta alla droga”.
Espressione di questo mutamento di indirizzo internazionale a livello
politico-criminale risulta essere anche la legge 26 giugno 1990, n. 162.
Con tale intervento legislativo si tende infatti di nuovo a reprimere
l’intero ciclo della droga, con una differenza tuttavia assai significativa
rispetto alla legge del 1954. Infatti non si adotta più la pena privativa
della libertà personale per l’assuntore anche di piccoli quantitativi di
stupefacenti, bensì sanzioni diverse e per certi versi sui generis. Il
tossicodipendente non è considerato un malato o un emarginato
bisognoso di cura o di assistenza, ma un soggetto responsabile, titolare di
diritti ma anche di doveri di solidarietà nei confronti della collettività. Di
conseguenza non vi è ragione di sottrarlo alla punizione per gli atti
compiuti contro l’interesse della collettività stessa, anche se il consumo
di minime quantità di sostanze stupefacenti è sanzionato con misure
esclusivamente amministrative e non criminali.
I principi della riforma del 1990 si rivelano una scelta di compromesso
tra l’assistenzialismo della soluzione adottata nel 1975 e il
proibizionismo della formula del 1954.
La legge 162/1990 (poi integrata con la precedente disciplina dal d.p.r.
9 ottobre 1990, n. 309, Testo Unico delle leggi in materia di stupefacenti,
alla cui normativa faremo riferimento nel corso di questa dissertazione),
si caratterizza per l’inasprimento delle previsioni sanzionatorie e,
soprattutto, per la sostituzione della causa di non punibilità della modica
quantità (art. 80 l. 685/1975), con la nozione di dose media giornaliera
(art. 75) a cui corrisponde, come detto in precedenza, una gamma di
6
A. Manna, Legislazione “simbolica” e diritto penale, cit., 1991, 22.
11
sanzioni amministrative, un complesso “patto terapeutico” (coatto), con
sullo sfondo, comunque, l’inflizione di una pena ex art. 76 ult. comma
(ora abrogato a seguito di referendum abrogativo).
Secondo i riformatori del 1990, dal punto di vista repressivo la legge del
1975 aveva anzitutto fallito perché la causa di non punibilità della
modica quantità da un lato aveva indotto nei consumatori la convinzione
della sostanziale liceità dell’uso voluttuario, dall’altro aveva consentito la
copertura dell’attività di spaccio, se accortamente frazionata.
Ecco quindi la soluzione di fornire parametri sottratti alla discrezionalità
giudiziale, adattabili, nella loro elaborazione governativa, alle muscolose
intenzioni dell’esecutivo.
Proprio su questo punto si manifestò immediatamente la reazione, in
particolare della giurisprudenza di merito, che sottopose la questione
della dose giornaliera ad un reiterato vaglio della Corte Costituzionale.
La Consulta, con tre sentenze (nn. 333 del 1991, 133 e 308 del 1992),
pur non contrastando le scelte del legislatore del 1990, fu costretta
tuttavia ad estendere, anche a questo campo, quel discutibile ricorso
all’art. 49 cpv. c.p. Rimaneva così “precipuo dovere del giudice di
merito- nelle ipotesi peculiari in discorso- apprezzare, alla stregua del
generale canone interpretativo offerto dal principio di necessaria
offensività della condotta concreta, se l’eccedenza eventualmente
accertata sia di modesta entità così da far ritenere che la condotta
dell’agente – avuto riguardo alla ratio del divieto di accumulo e tenuto
conto delle particolarità delle fattispecie – sia priva di qualsiasi idoneità
lesiva concreta dei beni giuridici tutelati e conseguentemente si collochi
fuori dall’area del penalmente rilevante (così come già affermato da
questa corte nella sentenza 62/86)”
7
.
In questo modo, ad opera della Corte costituzionale si riattribuiva al
momento dell’accertamento giudiziale quel margine di discrezionalità,
rinnegato invece dai riformatori del 1990: discrezionalità basata, tuttavia,
su di un paradigma di concreta offensività, in vero incerto, se non
suscettibile di applicazioni arbitrarie.
12
All’accertamento giudiziale era riattribuito un margine, quanto meno
equitativo, per attenuare la inflessibilità di scelte che si erano rivelate
improntate ad un rigorismo difficilmente gestibile e non circondato da un
adeguato consenso sociale: basti ricordare l’impennata dei tassi di
carcerizzazione per reati di droga, non certo ascrivibile ai successi nella
lotta al narcotraffico, con la connessa, dolente realtà, delle alte
percentuali di detenuti tossicodipendenti.
Ciò impose, già nei mesi immediatamente successivi all’entrata in
vigore della legge, il varo di modifiche che confermavano, da un lato, la
scarsa ponderazione delle sue scelte, animate più da finalità di
propaganda politica che da una razionale strategia di intervento (penale
ed extrapenale), dall’altro, le incertezze e le labilità della stessa
maggioranza che l’aveva sostenuta in un lungo e combattuto dibattito
parlamentare. In questo senso, non è privo di significato che si sia
dovuto adottare lo strumento del decreto legge per affrontare l'urgenza di
contrastare gli effetti di una disciplina appena approvata. Così il d.l. 8
agosto 1991, n. 247, che modificò l’art. 73 (e 380 c.p.p.) a seguito
dell’ondata emotiva provocata dal suicidio in carcere di giovani
consumatori arrestati per la detenzione di piccole quantità di stupefacenti
che, però, eccedevano la nozione rigida di dose media giornaliera.
Si consentì, quindi, di far rilevare la sussistenza dell’attenuante del fatto
di lieve entità (art. 73 c. 5) già ai fini dell’arresto obbligatorio in
flagranza
8
.
Ma è in questo contesto che si inserisce anche la vicenda del
referendum abrogativo proposto contro le norme penalizzanti l’uso
personale: forse, in ordine di tempo, l’ultima consultazione che espresse
appieno il valore di quello strumento di democrazia diretta, destinato a
far esprimere l'elettorato su questioni di fondo, coinvolgenti scelte etiche
o di costume, al di fuori degli schieramenti di partito.
7
Corte Cost., 11 luglio 1991, n. 333, in Giur. cost., 1991, III, 2647 ss.
8
G. Insolera, Introduzione, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale, a cura di F. Bricola e V.
Zagrebelsky, Torino, Utet, 1998, XVIII
13
Occorre ricordare come, nell’ammettere il referendum valutandone la
legittimità sotto il profilo dell’art. 75 c. 2. Cost., la Corte costituzionale
9
non rinvenisse obblighi assunti dallo Stato italiano, per effetto di trattati
internazionali, riguardanti le norme sottoposte a consultazione in tema di
uso personale di stupefacenti.
Nella motivazione di tale sentenza, infatti, si può leggere che: “In
relazione al limite relativo alle leggi di autorizzazione alla ratifica dei
trattati internazionali o psicotrope per uso personale […] non si pone in
contrasto né con la Convenzione di New York del 1961 (che, con gli
artt. 33 e 36 si limitava a stabilire che dovesse essere vietata la
detenzione non autorizzata di stupefacenti, senza nulla specificare in
ordine alla nature delle sanzioni da comminare per le infrazioni), né con
la Convenzione di Vienna del 20 dicembre 1988, ratificata e resa
esecutiva in Italia con la legge 5 novembre 1990, n. 328: è pur vero che
l’art. 3 di quest’ultima Convenzione stabilisce, al paragrafo 2, che “fatti
salvi i propri principi costituzionali ed i concetti fondamentali del proprio
ordinamento giuridico, ciascuna parte adotta le misure necessarie per
attribuire la natura del reato conformemente alla propria legislazione
interna […], alla detenzione e all’acquisto di stupefacenti e di sostanze
psicotrope, alla coltivazione di stupefacenti destinati al consumo
personale […]”; ma la convenzione stessa […] lascia espressamente alla
scelta discrezionale degli Stati contraenti la possibilità di prevedere, per i
casi in esame, misure diverse dalla sanzione penale; infatti, il successivo
paragrafo 4, alla lettera c), stabilisce che “nonostante le disposizioni dei
capoversi precedenti, in casi adeguati di reati di minore entità le parti
possono in particolare prevedere in luogo di una condanna o di una
sanzione penale, misure di educazione, di riadattamento o di
reinserimento sociale, nonché qualora l’autore del reato sia un
tossicomane, misure di trattamento terapeutico e di assistenza sanitaria
post-ospedaliera”; e il successivo punto d) precisa che le misure suddette
possono essere previste non solo in aggiunta, ma anche in sostituzione
della condanna o della pena; infine, il paragrafo 11 dello stesso art. 3
9
Corte Cost. 4 febbraio 1993, n. 28, in Giur. cost., 1993, I, 199 ss.
14
espressamente dichiara che “Nessuna disposizione del presente articolo
pregiudica il principio secondo il quale la determinazione dei reati che ne
sono oggetto ed i mezzi giuridici di difesa relativi sono di esclusiva
competenza del diritto interno di ciascuna parte”, né il principio “in base
al quale i predetti reati sono perseguiti e puniti in conformità con detta
legislazione.”
10
.
Dopo avere sottolineato che il sistema penale deve essere considerato
l’extrema ratio di tutela dei beni giuridici, la Corte conclude stabilendo
che “In virtù della salvaguardia disposta dal paragrafo 2, tale principio, in
quanto “concetto fondamentale” del nostro ordinamento giuridico
interno, sarebbe comunque idoneo a condizionare contenuto ed efficacia
della clausola e ad escludere che con essa lo Stato italiano si sia vincolato
a configurare come reato la detenzione di stupefacenti per uso personale,
senza possibilità di orientarsi verso altre misure, ove ritenute idonee e
sufficienti per perseguire le finalità di controllo, di tutela e di recupero
collegate al fenomeno in questione”
11
Cadeva così uno degli argomenti, per altro ancora oggi ricorrentemente
proposto in modo mistificante: quello dei vincoli internazionali che
imporrebbero obblighi di penalizzazione anche di condotte riferibili al
c.d. uso voluttuario.
Con l’abrogazione delle norme di cui all’art. 72 c. 1 e di una serie di
altre disposizioni che ruotavano attorno al concetto di dose media
giornaliera, era completamente ribaltata la prospettiva che intendeva
annullare la discrezionalità giudiziale nell'identificazione delle condotte
non punibili, in quanto estranee al traffico.
Nel nuovo quadro, al contrario, la questione è totalmente rimessa al
giudice. Ciò avviene con la valutazione di un mero connotato
intenzionale, costituito dalla finalità di uso personale.
E, come vedremo nel prosieguo del presente studio, è proprio attorno ai
suoi criteri di accertamento che oggi si manifestano i principali problemi
interpretativi, con la riacquisita centralità del momento giurisprudenziale.
10
Ibidem, 203.
11
Ibidem, 204.
15
Ma, a ben vedere, anche nell’impianto originale della legge il “sospetto”
nei confronti della discrezionalità giudiziale riguardava solo la nodale
questione dell’uso personale: ad essere temuta dalla maggioranza
dell’epoca, per altro con fondamento, era una giurisprudenza non
allineata con la politica governativa di rigore su questo argomento.
Il Testo Unico in materia di sostanze stupefacenti (d.p.r. 309/1990), pur
modificando alcune norme contenute nel codice penale o in leggi
speciali, nulla dice in merito al delicato problema dell’imputabilità del
soggetto assuntore di sostanze stupefacenti che commetta un reato in
relazione, in conseguenza o a causa dell’uso delle sostanze stesse. Ecco
perché non possiamo fare a meno di trattare la materia, pur limitandoci
alle sole ipotesi di assunzione volontaria, abituale e cronica, la cui
normativa (artt. 93, 94, 95 c.p.) è rimasta immodificata nonostante il
trascorrere degli anni, il mutare della società, le nuove acquisizioni delle
scienze mediche e il dilagare del fenomeno, soprattutto a partire dalla
metà degli anni sessanta.
La carenza da parte del legislatore era già stata evidenziata nel corso dei
lavori preparatori alla legge di riforma
12
, osservandosi tra l’altro che il
tossicodipendente può essere spinto al delitto senza rendersi conto del
disvalore sociale dei suoi atti e che l’ipotizzabilità di nuove misure di
sicurezza, sostenute da adeguate strutture socio-sanitarie, avrebbero
potuto fornire strumenti più utili rispetto all’applicazione della pena
detentiva.
12
G. Ambrosini, Un problema trascurato: l’imputabilità del tossicodipendente, in Droga,
tossicodipendenza e legge. Riflessioni in magistratura democratica, a cura di Pepino, Milano, Giuffrè,
1989, 144.
16
CAPITOLO I
IMPUTABILITA’ E SANZIONI
1. L’imputabilità
La nozione di imputabilità ci è data dall’ art.85 c.p. il quale dopo aver
sancito che “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla
legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era
imputabile”, stabilisce. che “è imputabile chi ha la capacità di intendere
e di volere”.
Nella sua duplice specificazione di capacità di intendere e volere,
l’imputabilità costituisce una qualità, un modo di essere dell’individuo in
riferimento alla sua maturità psichica e alla sua sanità mentale; essa si
distingue naturalisticamente e normativamente dalla colpevolezza la
quale fa riferimento più propriamente alla volontà concreta del fatto. Se
le condizioni di maturità psichica e sanità mentale esistono, e quindi, lo
sviluppo intellettuale appare sufficiente, l’ulteriore livello intellettuale è
irrilevante: in una sentenza, la Suprema Corte ha annullato la decisione
della Corte di merito che aveva assolto per insufficienza di prove
l’imputato, perché non brillava per intelligenza, pur avendolo
riconosciuto capace di intendere e di volere.
13
L’imputabilità non può mancare nell’individuo che si trovi in normali
condizioni psichiche e nell’ipotesi dell’adulto essa è presunta iuris
tantum, a differenza dell’imputabilità del minore degli anni diciotto e
maggiore degli anni quattordici che deve essere accertata di volta in
volta. L’obbligo della motivazione pertanto va sempre osservato nel caso
del minore, mentre nell’ipotesi dell’adulto nasce solo se emergano
elementi valevoli a porre in discussione la presunzione di cui sopra.
L’art. 85 c.p. fissa i presupposti dell’imputabilità nella “capacità di
intendere e di volere”.
13
Cass., sez. III, 21 maggio 1984, Di Mario, Giust. pen. 1985, II, 219.
17
Si è detto che la capacità di intendere, quale facoltà intellettiva, può
continuare ad essere definita come la capacità di comprendere il
significato del proprio comportamento e di valutarne le possibili
ripercussioni positive o negative sui terzi
14
. La possibilità di sapere di
trasgredire una norma, o di apprendere il disvalore giuridico del fatto o
comunque, di violare un dovere è estraneo al contenuto di quella facoltà:
il rendersi conto del valore sociale del proprio comportamento non ha
nulla a che vedere con la coscienza dell’illiceità penale del fatto.
La capacità di volere consiste, invece, nel potere di controllare gli
impulsi ad agire e di determinarsi secondo il motivo che appare più
ragionevole o preferibile in base ad una concezione di valore: in altri
termini, è attitudine a scegliere in modo consapevole tra motivi
antagonistici
15
.
Affinché sussista l’imputabilità occorre il concorso dell’una e dell’altra
capacità: se una sola manca il soggetto non è imputabile.
L’imputabilità deve sussistere in tutti e tre i momenti in cui si sviluppano
il reato e le sue conseguenze: quello attuativo, quello del suo
accertamento, quello della esecuzione della relativa sanzione penale
(detentiva); la sua mancanza produce conseguenze diverse a seconda del
momento in cui interviene: se nel primo momento, si ha la non punibilità
dell’autore per mancanza di imputabilità; se nel secondo, la sospensione
del procedimento; se nel terzo, il differimento o la sospensione
dell’esecuzione della pena.
16
Sussistendo le condizioni richieste dall’art. 85 c.p. (capacità di
intendere e di volere), è irrilevante che l’agente ignori le conseguenze
penali della sua attività, dato che l’ignoranza della legge penale è
inescusabile,
17
indipendentemente dall’età del soggetto e con la sola
limitazione che egli sia capace di intendere e di volere la propria
14
G, Fiandaca – E. Musco, Diritto penale. Parte generale, Bologna, Zanichelli, 1996, 3° ed., 289.
15
ibidem, p. 289.
16
Cass., sez. I, 16 dicembre 1983, Avignone, in Riv. pen. 1984, 845.
17
L’art 5 c.p., infatti, ci dice che: “ Nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge
penale”. Occorre comunque ricordare che la Corte cost. con sentenza 24 marzo 1988, ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 c.p. nella parte in cui non esclude dalla inescusabilità della legge
penale l’ignoranza inevitabile.
18
condotta, cioè determinarsi liberamente ad una specifica azione,
comprendendone appieno il significato.
18
Coerente con queste premesse è la soluzione data al problema del
malore improvviso che si pone spesso in tema di reati colposi nella
circolazione stradale, e che in passato è stato oggetto di controversie. Il
malore improvviso è uno scompenso, prevalentemente collegato ad una
alterazione organica, oppure di natura funzionale, che insorge
repentinamente senza essere preceduto da alcun segno premonitore,
determinando la perdita o il grave perturbamento della coscienza, con
conseguente impedimento o notevole compromissione della funzione
motoria.
19
Di conseguenza, anche se deve riconoscersi che non sempre
risulta così chiaro, esso dovrebbe essere ricondotto sotto il profilo
dell’imputabilità e non sotto quello dell’esimente del caso fortuito; il
relativo onere della prova non si può dunque porre a carico
dell’imputato.
20
Il disposto dell’art. 85 c.p. vincola l’imputabilità ai soli presupposti
della capacità di intendere e volere, pertanto si deve ritenere che
unicamente queste capacità abbiano rilevanza per l’imputabilità stessa,
cosi da escludere che si pongano tra i suoi presupposti altri aspetti della
personalità dell’agente. Infatti, come ha rilevato anche la
giurisprudenza,
21
purché quella capacità di intendere e volere sussista,
ogni altra e diversa facoltà psichica, e le relative anomalie non spiegano
alcuna influenza sull’imputabilità.
Questo per altro verso conferma che il difetto anche di uno solo di quei
due presupposti della imputabilità rende impossibile in concreto,
l’applicazione della pena all’autore di un fatto previsto dalla legge come
reato.
22
18
Cass., sez. IV, 19 dicembre 1975, Ceredi, in Giust. pen., 1976, II, 525.
19
A. Brancaccio, Esposizione di giurisprudenza sul codice penale, Giuffrè, Milano 1988 – 1992.
20
Cass., sez. IV, 6 dicembre 1982, Messa, in Arch. Circolaz. 1983, 640.
21
Cass., 17 novembre 1967, in Cass. pen. Mass. ann., 1968, 1089, ove si precisa che dalla nozione di
vizio di mente esulano tutte quelle anomalie che, pur influendo nel processo di determinazione, non
siano conseguenti ad uno stato patologico suscettibile di escludere o diminuire la capacità di intendere
e volere, intesa appunto quale attitudine del soggetto a valutare il significato e gli effetti della propria
condotta e ad autodeterminarsi nella selezione dei molteplici motivi.
22
A. Crespi, voce Imputabilità, in Enc. dir., XX, Milano,Giuffrè, 1970 p.772.
19
Naturalmente la presenza dei presupposti richiesti dall’art. 85 c.p.
(capacità di intendere e di volere) non esclude che, oltre alla pena, sia
applicata altresì la misura di sicurezza, così come non esclude che possa
essere applicata esclusivamente quest’ultima qualora il soggetto non
imputabile o non punibile sia ritenuto socialmente pericoloso:
l’espressione “non punibile”, contenuta negli artt. 85 e ss., va intesa nel
senso di “non assoggettabile a pena” e non già nel più ampio, e generico,
significato di “non assoggettabile a sanzione penale”, senza pregiudizio
quindi, della possibilità di sottoporre l’autore del fatto ad una misura di
sicurezza.
A conclusione del breve quadro fatto in materia di imputabilità, occorre
aggiungere che in tema di accertamento si è consolidato l’orientamento
per cui la capacità di intendere e volere può essere desunta,
indipendentemente da un accertamento tecnico, dall’esame congiunto
della condotta e della personalità dell’imputato, nonché delle modalità e
della natura dei fatti commessi
23
.
23
Cass., sez. VI, 12 febbraio 1980, Aloisio, Giust. pen. 1981, II, 25.
20
1.1. La colpevolezza
Molto si è discusso sull’essenza della colpevolezza e a contendersi il
campo sono due teorie. La prima, che si riallaccia alle dottrine
tradizionali e va sotto il nome di “concezione psicologica”, ravvisa
l’elemento della colpevolezza nel nesso psichico tra l’agente e il fatto
esteriore. Questa concezione non può ritenersi completa perché ha avuto
il torto di non aver dato il necessario risalto ad un aspetto che pure è
essenziale alla colpevolezza, e cioè il carattere antidoveroso della
volontà.
Il Mantovani ritiene che merito della teoria psicologica sia quello di
aver posto in luce «l’imprescindibile base naturalistico psicologica della
colpevolezza e, quindi, della responsabilità penale, la quale postula
innanzitutto un atteggiamento della volontà»
24
. Egli però non si nasconde
che essa presenti anche alcuni limiti che individua nel fatto che «è
fallita nello sforzo dogmatico di costruire la colpevolezza come concetto
di genere, astraendo gli elementi comuni del dolo e della colpa,
trattandosi dal punto di vista psicologico di due realtà irriducibili: il dolo
è una entità psicologica reale (coscienza e volontà) e la colpa una entità
psicologica potenziale »
25
.
Il secondo limite che il Mantovani rileva nella concezione psicologica è
dato dal fatto che anche quando non respinge programmaticamente
ogni gradualità della colpevolezza, tuttavia la gradua non secondo criteri
di valore, ma secondo inadeguati criteri meramente psicologici, da cui i
«motivi interni» restano estranei e che si incentrano, per il dolo, nella
maggiore o minore «spontaneità» dell’atto o nella intensità e persistenza
della deliberazione criminosa e, per la colpa, nella maggiore o minore
prevedibilità dell’evento
26
24
F. Mantovani, Diritto penale., Padova, Cedam, 1992, 294
25
Ibidem, 294.
26
Ibidem, 294