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Europa definitivamente, per crescervi i figli e realizzare qui il proprio avvenire. La
sedentarizzazione dei flussi extraeuropei e musulmani ha significato la nascita di un Islam
europeo, finalmente visibile, dopo decenni di trasparenza sociale, ed attivo sulla scena
pubblica. Ed i paesi di immigrazione, con il consolidarsi delle comunità musulmane, sono
divenuti, in un qualche modo, terre di Islam, dove cresce e si sviluppa un Islam nazionale,
compatibile con il contesto di minoranza e frutto della molteplice negoziazione e degli
scontri tra l’Islam magrebino e quello mediorientale, tra ortodossi e innovatori, tra
“orientali” ed “europei”
1
, tra l’Islam dei padri, ereditato dalla realtà di provenienza, e
quello dei figli, assorbito dalla propria ridefinizione.
Il centro del grande cambiamento in corso è la Francia. L’Esagono vanta una comunità
musulmana di oltre quattro milioni di persone, prevalentemente di nazionalità francese. Le
strade delle città transalpine rappresentano perfettamente la sovrapposizione di rapporti che
l’Islam intrattiene con la realtà francese, dove si sommano esclusione ed integrazione, nella
costante ricerca di un equilibrio possibile. Parigi, capitale dell’Islam francese oltre che
della Repubblica, provoca in effetti sensazioni contrastanti di stabilità coabitativa e
sottocutanea insicurezza. Le sue strade raccolgono tutti gli stimoli di una convivenza
spesso difficile tra mondo musulmano ed occidente ed offrono prospettive del tutto
alternative per comprendere gli esiti di tale rapporto. Kebab house, café arabes, bazar,
macellerie halal colorano un panorama dove l’elemento musulmano è costantemente
visibile, percorso da giovani francesi di origine magrebina che vivono Parigi per quella
che è: la loro casa, il loro mondo, lo spazio dei loro affetti. La commistione tipica delle
società multietniche trova a Parigi il suo teatro ideale. Conoscere Parigi, percorrerla, come
ho avuto l’occasione di fare durante cinque mesi di permanenza nel 2003, significa
imbattersi in una realtà polivalente e complessa. Nella metro, nei mercati di periferia, nei
locali notturni si incontrano esempi di assimilazione perfetta, di acculturazione originale
insieme a rappresentanti di un’appartenenza islamica totalizzante, conservata, protetta, a
volte riscoperta. Ricordo una sera, seduti uno accanto all’altro, sul treno della linea A che
porta verso le periferie, due ragazzi di origine nord-africana, probabilmente coetanei. Il
primo vestiva di jeans, calzava scarpe di pelle, osservava il panorama sfuggente dietro un
paio di occhiali scuri, di fattura italiana. Il secondo sedeva rannicchiato all’interno di una
1
Rampoldi, G Islam d’Italia, “La Repubblica”, 4 maggio 2004.
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lunga veste color sabbia. Le mani, poggiate sulle ginocchia, stringevano un piccolo,
piccolissimo corano. E la testa oscillava su quei caratteri minuti, salmodiando
ritmicamente parole afone, con un movimento incessante di labbra sottili circondate da un
accenno di barba.. I due ragazzi, diretti verso una delle tante cités che compongono le
periferie parigine, rappresentavano in modo illuminante le distanze che definiscono il
vivere quotidiano dell’Islam francese. Le banlieues, lontane dai centri città e dai “quartieri
etnici”, dove cultura musulmana e cultura occidentale sembrano trovare la via di una
pacifica convivenza, sono luoghi di marginalizzazione ed esclusione nei quali l’Islam si
configura, al contempo, come viatico di riscatto sociale e come elemento di conflitto, sia
interno che esterno alla comunità musulmana. La vita di periferia innesca dinamiche di
ghettizzazione le cui prime vittime sono i giovani di origine magrebina. In risposta
all’esclusione sociale si è attivato, dalla fine degli anni ottanta, un processo di
reislamizzazione, che spesso ha finito con il configurarsi come un’adesione ad una visione
integralista della religione, percepita da alcuni come unico mezzo efficace di riscatto
individuale e collettivo. La reislamizzazione ed i conseguenti effetti di chiusura
comunitaria, hanno aperto divisioni tra le diverse anime della comunità musulmana ed
innescato una contrapposizione ideologica tra le istituzioni, a difesa del principio di laicità,
e una parte dell’Islam organizzato, portatore di rivendicazioni neo-fondamentaliste.
L’Islam francese si compone oggi di anime diverse, tra le quali spiccano una maggioranza
secolarizzata, che trova nell’Islam un riferimento culturale e privatamente religioso, ed una
minoranza orientata su posizioni fondamentaliste, attiva nelle moschee e nello spazio
pubblico. Un Islam plurale dunque, com’è nella sua natura, che tra esclusione ed
integrazione cerca quotidianamente di definire il proprio spazio all’interno della società
francese.
L’idea alla base di questo lavoro è quella di tentare un confronto tra una realtà, quella
transalpina, esemplificativa, tra conquiste e contraddizioni, del grado di coesione tra Islam
e società europea, e la situazione italiana, caratterizzata da un livello di instabilità piuttosto
elevato della comunità musulmana, ancora prevalentemente straniera, maschile, giovane,
con una relativa padronanza della lingua nazionale ed estremamente differenziata a livello
etnico. Una realtà, quella dell’Islam nostrano, in rapida evoluzione sociale e numerica e
che si avvia ad occupare un posto di assoluto rilievo, considerando che, già oggi,
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rappresenta la seconda religione del paese. Il problema attuale, che persiste anche nei paesi
di più antica immigrazione, è la diffusa ignoranza che circonda l’Islam, spesso ridotto alle
sue espressioni più politicizzate e fondamentaliste e percepito in modo fortemente distorto.
L’idea diffusa, generata dalla rappresentazione mediatica e da un immaginario radicato,
raffigura l’Islam come un blocco monolitico, strutturalmente ancorato ad una visione
integralista ed anti-moderna della società e dei rapporti sociali, incapace di integrarsi nella
realtà dei paesi occidentali. Si conosce, malamente, e si riconosce solo l’aspetto
minoritario ed appariscente dell’Islam, quello che ruota intorno alle organizzazioni e le
moschee e che in realtà riguarda, dati delle ricerche alla mano, solo il 5-10% dei
musulmani. E si ignorano quanti, la grande maggioranza, vivono la religione in modo
privato e secolarizzato, entrando in moschea solo in occasione delle principali ricorrenze
religiose, così come tanti cattolici non praticanti che si recano a messa per Natale e Pasqua.
Nel mio caso, è stato necessario seguire un corso all’università per cominciare a
comprendere la complessità del fenomeno e rendermi conto delle tante semplificazioni che
condizionano la comune percezione dell’Islam. Una “scoperta” che ha coinciso con la
nuova centralità assunta dall’Islam, all’interno dell’agenda mediatica e politica, in seguito
agli attentati dell’11 settembre e agli avvenimenti internazionali che ne sono scaturiti.
Lezioni universitarie ed attualità hanno dunque simultaneamente concorso a stimolare la
mia curiosità e l’esperienza di studio in Francia, a Parigi, nel secondo semestre del 2003,
mi ha infine convinto ad intraprendere questo lavoro di tesi. Ma, al di là della curiosità
personale per l’Islam ed i fenomeni migratori, alla quale ha contribuito, in una qualche
misura, la mia breve esperienza in un paese straniero, la nascita degli Islam nazionali e
l’intensificarsi dei flussi migratori sono fenomeni di rilievo assoluto all’interno delle
complesse dinamiche che regolano la globalizzazione in corso.
Tutte le previsioni degli anni settanta, circa la fine delle grandi migrazioni verso
l’Europa, provenienti dall’est e dal sud del mondo, sono state smentite. Flussi imponenti
hanno continuato a portare immigrati nel Vecchio Continente, interessando sempre più
quelle nazioni dell’Europa meridionale, tra cui l’Italia, che da paesi di emigrazione sono
diventati negli anni ottanta zone di ricezione. Un processo inarrestabile, nonostante il
susseguirsi di politiche europee volte al controllo delle frontiere e i malumori crescenti
dell’opinione pubblica; un fenomeno del resto necessario a fronteggiare le sfide portate
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dall’invecchiamento demografico e dal crescente bisogno di manodopera straniera in
diversi settori economici.
Su 380 milioni di cittadini europei si contano oggi venti milioni di stranieri, di cui
solamente cinque milioni comunitari. La ripartizione dei flussi nei diversi paesi dipende
spesso da fattori storici o geografici, che spiegano ad esempio la grande presenza
magrebina in Francia e l’elevato numero di albanesi immigrati in Italia.
Le motivazioni dei migranti si inseriscono nella ricerca di benessere economico,
culturale e politico, soprattutto per chi proviene dai paesi del nord e del centro Africa, dove
l’età media è di 25 anni e la situazione politica ed economica lascia poche possibilità di
riuscita. Il profilo del migrante è variabile e spesso non risponde all’immaginario diffuso.
Accanto al giovane poco qualificato in cerca di un lavoro qualsiasi, si trovano
professionisti alla ricerca di spazi di affermazione consoni alle loro possibilità, giovani
diplomati delle classi medie urbane, rifugiati, donne istruite che aspirano all’indipendenza
economica e alla libertà personale. Quello che spesso unisce queste categorie è la voglia di
Europa, l’Eldorado occidentale dove poter realizzare le proprie aspirazioni. Aspirazioni
sovente a lungo termine, che si scontrano con le politiche messe in atto da molti paesi
europei, tra cui l’Italia, che tendono a considerare l’immigrazione come un fenomeno
temporaneo legato unicamente al soddisfacimento dei bisogni del mercato del lavoro, e con
le decisioni prese a livello europeo, volte prevalentemente al controllo, alla lotta
all’immigrazione clandestina e contro l’abuso delle domande d’asilo. Una tendenza
accentuata dagli attentati dell’11 settembre, che hanno centrato l’attenzione sul fattore
sicurezza e favorito l’affermarsi dell’equazione tra immigrazione musulmana e terrorismo
internazionale di matrice islamista.
Se le procedure che regolano l’ingresso procedono verso un’armonizzazione a livello
europeo, le disposizioni relative al soggiorno dell’immigrato restano di competenza dei
singoli stati, con una conseguente disparità tra i diversi paesi di accoglienza riguardo le
carte di soggiorno, l’accesso ai diritti sociali e al mondo del lavoro, le politiche di
raggruppamento familiare e l’accesso alla nazionalità. Queste variabili dipendono dalle
caratteristiche sociali ed economiche dei singoli paesi e dagli orientamenti espressi dalle
opinioni pubbliche nazionali sulle problematiche legate all’immigrazione.
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Si possono comunque individuare tre fattori torno cui si articolano le politiche di
integrazione, che variano a seconda della storia e degli orientamenti
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scelti dai singoli
paesi:
ξ Il diritto di nazionalità, legato al prevalere dello ius soli o dello ius sanguinis, al
variare della durata di residenza necessaria per ottenere la nazionalità e
all’eventuale accesso alla rappresentazione politica degli stranieri e delle
popolazioni di origine immigrata.
ξ La situazione del mercato del lavoro, potenziale veicolo di integrazione e
socializzazione.
ξ Le politiche sociali riguardo la scuola, l’accesso all’alloggio, l’impiego, il sostegno
sociale e culturale all’arrivo e le politiche di lotta contro le discriminazioni razziali.
A questi fattori se ne aggiunge un quarto, legato alle politiche adottate nei confronti
dell’Islam. L’Islam è un elemento centrale nel fenomeno migratorio europeo e richiama
politiche di integrazione specifiche, attraverso il riconoscimento delle strutture associative
e la spinta verso la sua nazionalizzazione. Il percorso verso la creazione di un Islam
nazionale è stato intrapreso sia in Francia che in Italia, due paesi che per diverse ragioni
sono fortemente legati al mondo musulmano: l’Italia per la sua posizione geografica,
protesa nel Mediterraneo di fronte ai paesi del Nord Africa, la Francia per la sua lunga
storia coloniale, che ne ha fatto un referente naturale per molti paesi islamici. Ma se l’Italia
solo recentemente, a partire dagli anni ottanta, ha assunto le caratteristiche di un paese di
immigrazione, la Francia ha accolto i primi flussi già all’inizio del secolo scorso,
provenienti dall’Europa meridionale e dalle colonie del Maghreb. Il numero degli algerini,
soprattutto, è cresciuto fortemente durante gli anni dei conflitti mondiali e della
ricostruzione, quando sono diventati fonte insostituibile di manodopera per l’industria. Da
allora, tra politiche più o meno restrittive, a seconda dei momenti, il numero degli
immigrati e dei musulmani ha continuato a salire fino a raggiungere le quote attuali. Le
politiche di ricongiungimento familiare hanno infine accompagnato e favorito la
sedentarizzazione e la progressiva visibilizzazione dell’elemento islamico. In Italia il
consolidamento della comunità musulmana, che oggi conta, secondo le stime, tra gli
ottocentomila ed il milione di rappresentanti, è invece cominciato tra gli anni ottanta e
2
De Wenden, C.W., L’Union européenne face aux migrations in “Ramses” 2004.
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novanta, parallelamente allo sviluppo di un associazionismo islamico attivo sulla scena
pubblica.
La diversità storica ed attuale delle realtà italiana e francese è un dato evidente, che
poggia su una pluralità di elementi. Ma l’Italia, con il crescere delle nuove generazioni di
musulmani italiani ed i costanti arrivi di immigrati dal mondo musulmano si avvia ad
assomigliare sempre più, fremo restando le sue peculiarità, alla Francia ed ai paesi di
antica immigrazione, dove l’Islam è un elemento diffuso nel panorama sociale. In tale
prospettiva la Francia, forte di una lunga esperienza, è spesso assunta, nel dibattito
mediatico e politico italiano, come il modello cui fare riferimento per comprendere le
dinamiche attivate dalla presenza islamica ed elaborare le proprie soluzioni ai problemi che
essa inevitabilmente pone. Anche se le politiche finora adottate riflettono una concezione
dell’Islam ancora subordinata ai termini di sicurezza, criminalità e terrorismo, l’attenzione
è destinata a spostarsi verso le priorità di convivenza ed integrazione dei musulmani.
Tentare un confronto tra Francia e Italia, nel loro rapporto con l’Islam, può servire ad
evidenziare le grandi distanze che oggi esistono e, al contempo, individuare le zone dove
l’esempio francese può porsi come valido battistrada per l’esperienza italiana. Senza voler
fornire soluzioni a problemi estremamente complicati, questo lavoro di tesi si limita ad
operare un confronto, per trarre alcune considerazioni circa le caratteristiche di due realtà
che, nonostante tutto, si configurano come tasselli aderenti di quel puzzle in costruzione
che è oggi l’Islam europeo.
Nella convinzione che per comprendere il presente occorra ripercorrere il passato, la
prima parte del lavoro si concentrerà sulla storia coloniale dei due paesi e sulle
conseguenze che essa ha prodotto nelle terre di Islam che sono state coinvolte,
soffermandosi poi sugli eventi della decolonizzazione e sui rapporti intrattenuti, dopo la
perdita degli imperi, con i principali territori ex-coloniali.
Il primo capitolo si soffermerà sulla storia del colonialismo italiano, dalle prime
conquiste alla fine del XIX secolo, fino alla perdita dell’impero nel corso della seconda
guerra mondiale. Senza poter essere esaustivo di tutti gli avvenimenti che hanno segnato il
periodo coloniale, il capitolo ricostruirà le tappe che hanno portato alla formazione di un
impero comprendente la Libia ed i territori dell’Africa orientale: Eritrea, Somalia ed
Etiopia.
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Possedimenti che hanno spinto il regime liberale prima e quello fascista poi a candidare
l’Italia al ruolo di potenza musulmana, in ragione del suo dominio su popoli e terre
d’Islam. Un dominio caratterizzato dalla violenza e da una diffusa e profonda ignoranza
nei confronti dei colonizzati, delle loro usanze e delle società sulle quali la dominazione è
andata ad intervenire; ignoranza che ha coinvolto anche l’elemento islamico e le sue
strutture tradizionali, verso le quali l’atteggiamento ufficiale ha sempre oscillato tra il
coinvolgimento limitato e la mancanza di interesse, in assenza di convenienze contingenti.
Il secondo capitolo ripercorrerà brevemente le vicende della storia coloniale francese,
dalla conquista dei primi territori in Senegal fino all’acquisizione di un controllo, diretto o
indiretto, dei paesi del Maghreb. Nell’enorme impero, comprendente quasi la totalità del
Nord Africa e sconfinati territori subsahariani, divisi tra Africa Occidentale Francese ed
Africa Orientale Francese, molti colonizzati si riconoscevano nell’Islam e nelle diverse
espressioni del culto musulmano, diversificate a seconda delle zone e dei gradi di
sincretismo che questo aveva raggiunto con le diverse credenze tradizionali.
Ciononostante, si vedrà come l’amministrazione coloniale francese non dimostrasse una
conoscenza appropriata dei culti e delle usanze dei colonizzati e come l’Islam sia stato di
volta in volta considerato come elemento da appoggiare in funzione di controllo sociale o
potere da arginare nelle situazioni in cui si poneva come elemento di disturbo.
Il terzo capitolo sarà dedicato, inizialmente, alla decolonizzazione e alle ampie
dinamiche che hanno determinato la caduta e lo smembrarsi degli imperi italiano e
francese. Nel caso italiano la decolonizzazione ha coinciso con la sconfitta nella seconda
guerra mondiale e il conseguente affidamento all’ONU delle decisioni riguardanti le sorti
delle ex-colonie. La decolonizzazione dei territori francesi è stato un processo
maggiormente articolato e nel testo si ripercorreranno le tappe fondamentali che hanno
portato all’indipendenza dei territori subsahariani e di quelli nordafricani, con una
particolare attenzione per la guerra di liberazione algerina che a lungo ha pesato, e ancora
pesa, sui rapporti tra la Francia e larga parte dei suoi immigrati. La seconda parte del terzo
capitolo riguarderà i rapporti che Italia e Francia hanno intrattenuto, nel periodo successivo
alla decolonizzazione, rispettivamente con Somalia e Algeria, le due ex-colonie più
importanti in termini di contatti politici ed economici e, soprattutto nel secondo caso, di
contributi forniti ai flussi migratori in direzione delle ex-metropoli.
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La seconda parte della tesi, divisa anch’essa in tre capitoli, si occuperà invece di
fotografare la realtà attuale della convivenza tra l’Islam e le società dei due paesi presi in
considerazione. All’interno di una struttura per quanto possibile speculare, si affronteranno
i nodi del rapporto nei due contesti, considerando l’eredità del passato coloniale nel
fenomeno immigratorio, gli aspetti quantitativi e qualitativi dell’immigrazione islamica, il
ruolo dell’associazionismo islamico ed i tentativi di istituzionalizzazione del culto, i
rapporti ed i possibili contrasti tra Islam e le diverse concezioni di laicità affermatesi in
Francia ed in Italia e, infine, tentando di evidenziare le tante variabili che concorrono alla
definizione delle identità dei musulmani immigrati e di quelli che, nei due versanti delle
Alpi, sono nati e cresciuti: i rappresentanti delle cosiddette “seconde generazioni”.
Il sesto e conclusivo capitolo chiuderà questo lavoro operando un confronto tra Italia e
Francia nel loro rapporto con l’Islam, sulla base degli elementi precedentemente
considerati. Saranno messe in luce le tante differenze tra due realtà a volte incomparabili,
evidenziando, al contempo, gli spazi di convergenza prospettica, dove la strada percorsa in
Francia può utilmente porsi come esempio e modello per le problematiche italiane. Sarà
poi il turno delle convergenze, dei punti, cioè, dove già ora si notano paralleli e
similitudini nella struttura dell’immigrazione islamica e nel percorso di formazione degli
islam nazionali, piani convergenti di un cristallo cui si può dare il nome di Euroislam.
Gli ultimi due paragrafi affronteranno, sempre all’interno di una logica comparativa, il
discorso della rappresentazione mediatica dell’elemento islamico e dell’auto-
rappresentazione mediatica, operata dai musulmani tramite i mezzi a loro disposizione, e il
problema dei modelli di integrazione, termini di una scelta che la Francia, tra difficoltà ed
adattamenti contingenti, ha compiuto e che l’Italia sembra non voler ancora affrontare.
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PARTE I
ITALIA E FRANCIA:
ESPANSIONE COLONIALE,
DECOLONIZZAZIONE E RAPPORTI
POST-COLONIALI
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1 Il Colonialismo Italiano Dagli Esordi All’ Impero.
1.1 LE PREMESSE
Le premesse allo sviluppo di un vero e proprio imperialismo colonialista italiano sono
da identificarsi in una serie di specifici fattori. Sul piano ideologico svolse un’importante
funzione l’eredità del risorgimento e l’assunzione da parte dell’ imperialismo di alcune
delle sue idee-base: il passato glorioso da riportare alla luce, la missione civilizzatrice
dell’Italia (di cui Mazzini parlava, ma in altri contesti), l’esaltazione dell’immagine mitica
dell’eroe nazionale. Il periodo risorgimentale fu anche il teatro nel quale si svilupparono
una serie di elementi di diversa natura che sarebbero stati poi rilevanti per l’avvenire del
colonialismo italiano. Lo sviluppo della marina sarda aveva moltiplicato a partire dal 1830
gli interessi commerciali nel mediterraneo e, nel tempo, gli sforzi di penetrazione
commerciale nelle coste dell’Africa del Nord e nel Vicino Oriente. Altrettanta importanza
ebbero i viaggi di esplorazione e l’azione dei missionari, soprattutto in Etiopia, già nel
1837. Le esplorazione vennero portate avanti da organizzazioni e associazioni di vario
genere, prima fra tutte la “Società geografica italiana” fondata nel 1867, che si
impegnavano in spedizioni collocabili tra la penetrazione coloniale su piccola scala e la
scoperta geografica
3
La spedizione più importante dell’epoca fu forse quella di Cecchi e
Chiarini nello Scioà, dove giunsero forti dell’appoggio del Ras locale Menelik. Nel
contempo le relazioni tra i missionari ed il governo sardo rimanevano strette e costanti, a
dimostrazione di come i primi fossero senza dubbio agenti dell’influenza italiana in quella
parte di Africa.
Il periodo appena successivo all’unificazione non fu certamente favorevole al
rafforzamento del movimento coloniale. Il nuovo stato unitario era gravato da profondi
problemi di carattere economico, l’esercito era debole e mal equipaggiato, la classe
politica apatica ed assenteista, le masse popolari restavano ignoranti ed affatto interessate
ai problemi che travalicassero il quotidiano. I governi, sia di destra che di sinistra, si
preoccuparono di mantenere un atteggiamento prudente che dimostrasse all’Europa, ed in
primis a Francia e Gran Bretagna, il carattere pacifico del nuovo regno. Solamente alcuni
armatori, qualche funzionario degli Esteri a Roma ed isolati consoli all’estero
3
Aruffo, A., Storia del colonialismo italiano:da Crispi a Mussolini, Datanews, Roma 2003.
15
conservavano l’ideale di espansione. Mancava l’appoggio dell’opinione pubblica ed un
disegno politico del governo. Questo almeno fino al 1876, quando una serie di fattori,
agenti su tutte le potenze europee ed il verificarsi di condizioni particolari in Italia,
portarono al rilancio di quel idea imperialista e coloniale che condizionò la politica italiana
e del continente nei decenni seguenti. Il ruolo delle società geografiche divenne qui come
ovunque assolutamente rilevante. La “Società geografica italiana” venne rilanciata e nel
1877 venne fondato “L’esploratore”, primo periodico veramente coloniale, che divenne
nel 1879 l’organo ufficiale della neonata “Società d’esplorazioni commerciali in Africa”.
Alla fine degli anni ‘70 l’economia italiana conobbe un nuovo sviluppo, e la borghesia del
nord cominciò ad interrogarsi sulla convenienza di una politica coloniale di espansione.
Industriali e commercianti crearono quindi nel 1880 la prima società rivolta
specificatamente all’Africa equatoriale e all’ Abissinia, la “Società italiana di commercio
con l’Africa”. Insieme alle diverse spedizioni esplorative che si avvicendarono in Africa
ed altrove, prese corpo un diffuso interesse per l’esotico. Sempre più erano gli italiani che
sognavano di trovare nell’ emigrazione i mezzi per una vita più agiata. Il numero degli
italiani che nel 1880 lasciò l’ Italia per cercare fortuna superò le centocinquantamila unità
e negli anni successivi la media annua dei patenti comprese un numero sempre maggiore
di emigranti definitivi. Politici e letterati vedevano l’emigrazione di massa come un
tradimento degli sforzi risorgimentali, come un fenomeno contrario alle ambizioni
dell’Unità ed in tal senso auspicavano un emigrazione nazionale verso terre divenute
italiane.
Vi era poi la “questione tunisina” e gli interessi italiani nella Reggenza, sviluppati
dopo il trattato del 1868. Gli sforzi del governo e della stampa per affermare l’influenza
italiana sul territorio tunisino furono grandi e vani al contempo. L’intervento militare
francese del 1881 segnò la fine delle speranze italiane e provocò grande frustrazione nella
penisola. La crisi ebbe conseguenze sia sul piano esterno, con un riavvicinamento alla
Germania e all’Austria, sia su quello interno, con la caduta del governo Cairoli nel 1882.
Lo smacco diede comunque nuovo slancio all’ideologia coloniale ed allo spirito
rivendicativo all’origine di alcune delle azioni coloniali italiane.
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1.2 LE PRIME CONQUISTE E LA NASCITA DELL’IDEOLOGIA COLONIALE
Dopo un mancato intervento in Egitto su richiesta dell’Inghilterra (che manteneva
buoni rapporti con l’Italia in funzione anti-francese) il 10 Marzo 1882 l’Italia ottenne il
suo primo territorio coloniale comprando dalla società Rubattino la baia di Assab. Ormai
la strada era intrapresa e tre anni dopo, nel febbraio ‘85, un corpo di spedizione italiano
occupò il porto di Massaua in territorio egiziano, con il lasciapassare degli inglesi.
L’apparizione dell’Italia in Africa avveniva proprio all’indomani della conferenza di
Berlino (1884-1885), che aveva sancito l’inizio della spartizione del continente. L’Italia si
lanciava nell’avventura coloniale decisa a progredire nella sua espansione per ottenere un
posto tra le potenze d’Europa. Gli interessi legati alla prospettiva coloniale riguardavano
diversi ambiti. Accanto alla retorica del prestigio nazionale vi era la necessità di risolvere
la questione demografica e la crisi finanziaria che colpiva l’Italia.
Dopo l’occupazione di Massaua iniziò la penetrazione verso l’Etiopia che si interruppe
nel gennaio 1887 quando un intera colonna venne distrutta a Dogali dall’esercito del Ras
Alula. In quest’occasione emerse chiaramente l’impreparazione italiana a svolgere una
politica coloniale all’altezza delle potenze europee. Il disastro di Dogali ebbe ampie
ripercussioni sulla politica interna, segnò l’ascesa di Crispi alla carica di Primo Ministro
(luglio ’87) e determinò un nuovo ruolo nella vita politica dell’azione e del pensiero
colniali.
Tra il 1884 ed il ‘90 prese corpo l’ideologia coloniale italiana sostenuta dagli abituali
argomenti in favore dell’espansione: il bisogno di materie prime, la necessità di aprire
nuovi mercati, la politica di prestigio, la missione civilizzatrice. La propaganda
colonialista italiana fece anche appello ad argomenti originali; vennero rievocati la
“romanità”, il “destino mediterraneo” e lo storico ruolo di tramite tra oriente ed occidente.
Furono poi la spinta demografica e l’ampiezza sempre maggiore dell’emigrazione ad
essere adottati come argomenti a sostegno della propaganda coloniale
4
.
4
Miège, J.L. L’imperialismo coloniale italiano dal 1870 ai nostri giorni, Biblioteca universale Rizzoli,
Milano 1976
17
L’Africa apparve come una comoda soluzione per soddisfare il bisogno di terre che
affliggeva il meridione in mancanza di una riforma agraria che i governi post-unitari non
avevano la forza di attuare. Tanto più che gli anni nei quali Crispi fu al potere furono
segnati da una grave crisi economica, in special modo tra il 1888 ed il ’93, una crisi che
coinvolse in special modo il mondo agricolo del Mezzogiorno.
Sostenuto nel Mediterraneo dall’appoggio inglese e in Europa dall’alleanza con
Germania e Austria, Crispi si lanciò in una decisa politica di espansione che dopo i primi
anni di successi si risolse con il disastro di Adua.
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1.3 LA RIPRESA DELL’ESPANSIONE VERSO L’ETIOPIA
Non potendo agire nel Nord Africa a causa dell’inimicizia francese, l’Italia orientò i
suoi sforzi e le sue ambizioni verso il Mar Rosso. L’esplorazione e l’espansione dalla
costa di Massaua verso l’interno riprese. Il generale Baldissera fu il protagonista della
ripresa ed a lui si deve la creazione di truppe coloniali adeguate all’ambiente, quei
battaglioni di ascari eritrei (volontari con ferma annuale inquadrati da ufficiali italiani) che
subito seppero mettersi in luce per mobilità e fedeltà, sopportando il maggior numero di
perdite nelle battaglie che seguirono. Baldissera fu inoltre abile nel servirsi delle rivalità
tra i capi abissini per espandere l’influenza italiana in modo efficace, primariamente
tramite un ponderato traffico d’armi
5
.
Per dare un’idea di come fosse organizzata la società etiopica nell’800 si è soliti
ricorrere al paragone con la società feudale del medioevo. L’altopiano abissino, fertile solo
in rapporto alle aride terre che lo circondano, viveva di un’economia agricola ai limiti
della sussistenza. L’asprezza del territorio e le difficoltà di comunicazione che ne
conseguivano impedivano la formazione di un commercio regolare e di un potere
centralizzato. Ne derivava la suddivisione de territorio in regioni largamente autonome,
rette secondo un’organizzazione di tipo feudale che riuniva in un solo uomo il potere
politico, militare e giudiziario avvalendosi di una stretta alleanza con la chiesa copta. Ras
era il nome che contraddistingueva il capo di una regione; degiac, fitaurari, degiasmac
erano i suoi vassalli; un ras molto potente poteva divenire un negus (re) mentre
l’imperatore d’Etiopia godeva del titolo di negus neghesti (re dei re). Queste cariche
potevano essere ereditarie, conferite dall’alto o conquistate con le armi visto che l’autorità
di ogni capo, imperatore compreso, era determinata dalla sua forza misurata in uomini e
armi. Poiché in Etiopia non vi erano fabbriche d’armi è evidente come il controllo dei
rifornimenti di fucili fosse un efficacissimo strumento di pressione in mano agli europei.
Crispi approfittò della situazione assicurandosi l’alleanza di Menelik, il negus dello
Scioà, contro l’imperatore Giovanni. Quando quest’ultimo cadde in battaglia nel 1889
contro i Dervisci, Menelik si auto-proclamò imperatore con l’appoggio dell’Italia.
5
Aruffo, 2003 op. cit.