4
1.1 Coprire o scoprire il volto della donna
Un elemento fondamentale nella pratica del vestire è la
visibilità che cambia a seconda del tempo e della cultura di
appartenenza. Nell’abbigliamento femminile occidentale ed
orientale , infatti, si possono notare delle differenze di visibilità,
perchØ mentre la donna orientale è sottoposta ancora alle regole
rigide della propria cultura e quindi ad un dover essere e un
dover apparire, che nella maggior parte dei casi è un non dover
apparire affatto, dato che appare velata; quella occidentale, in
opposizione, si presenta agli occhi di tutti svelata perchØ si veste
a proprio piacimento secondo un proprio voler essere e apparire
1
.
In passato anche nella cultura occidentale la donna
indossava il velo in occasione delle funzioni religiose, in genere
di due colori differenti: bianco per le ragazze e nero per le donne
adulte; solo dagli anni sessanta del secolo scorso questa regola è
divenuta “arbitraria”
2
perchØ priva di qualsiasi riferimento al rito
della celebrazione eucaristica.
All’interno di due culture tanto distanti come quella
Occidentale e quella Islamica il dato comune è l’oppressione
della donna .
L'oppressione della donna musulmana ha una connotazione
spirituale, mentre nella cultura occidentale, dove i valori
spirituali sono stati accantonati a causa della secolarizzazione e
1
Pozzato, M. P., 2005, “Velature e svelamenti. Un problema di semiotica delle culture”,
in G. Franci, M.G. Muzzarelli, a cura, 2005, Il vestito dell’altro, Milano, Lupetti, p. 46.
2
Ibid. secondo Maria Pia Pozzato il coprire il capo risultava arbitrario sia per le donne
sia per gli uomini, ma con la differenza che l’uomo aveva l’obbligo di togliersi il cappello
come una resa passiva al cospetto delle divinità, mentre la donna copriva il capo come
segno di pudore.
5
della laicizzazione, si assiste ad una materializzazione della
donna stessa. Nell'Occidente, cosiddetto progredito, la donna
diviene un oggetto da usare per il divertimento e da umiliare.
Queste due culture sono davvero tanto distanti come noi
crediamo? Oppure assumiamo un atteggiamento critico nei
confronti dell’Oriente in generale, e dei musulmani nel
particolare, soltanto per renderci superiori?
Esse sono entrambe maschiliste, ma a differenza degli
occidentali che promuovono gli istinti piø bassi per far soldi o
per narcotizzare le coscienze e renderle piø inclini al consumo, la
cultura islamica è piø moralista, piø formale, meno legata al
denaro e al contempo piø primitiva; l'Islam in definitiva prova
repulsione di fronte alla nudità, e nella massima aberrazione
integralista all'esposizione del viso, perchØ considera l'uomo
debole sul piano dell'istinto sessuale.
Il velo sul volto, dunque, risulta estraneo all’abbigliamento
occidentale perchØ ha una cultura che si fonda sulla reciprocità
degli sguardi.
Lo sguardo, però, non è mai diretto, perchØ come dice
Patrizia Calefato:
[…] è sempre mediato, deviato dal « velo» fatto dei nostri saperi, dei nostri
sogni, delle nostre proiezioni sul mondo, immagini al cui incrocio si
costituisce l’io che guarda o che è oggetto di sguardo
3
.
3
Calefato, P., Moda, corpo, mito, Roma, Castelvecchi, 1999, op. cit., p. 51.
6
Secondo lo studioso tunisino Majid El-Houssi il velo
femminile difende l’intimità della donna denominata “awra”
4
,
per questo motivo la cultura islamica fa in modo che lo sguardo
maschile sia rigidamente controllato nei confronti di quello
femminile che deve essere quasi sempre celato.
Scrive poi la Calefato:
Lo sguardo è in Islam la perversione dell’occhio, il suo interdetto, il suo
zinâ, così come la parola è lo zinâ della lingua, il contatto lo è della mani, il
camminare nel senso del desiderio lo è dei piedi
5
.
Il velo ha la possibilità di svolgere due funzioni nel
medesimo momento: una comune, proprio come un rivestimento
che modella il tessuto sul corpo e l’altra peculiare, che esibisce la
nudità nascondendola
6
.
Come dice Patrizia Calefato “intorno al velo c’è sempre una
qualche verità che si rivela”
7
.
Questa verità risiede nel corpo della donna perchØ è lei che
vela o è obbligata a velare il proprio volto e corpo.
Il velo, dato che vieta al corpo femminile di esser visto, non
fa che attirare ed eccitare gli sguardi maschili. Questo è un
timore che le donne sentono e così esse inculcano alle proprie
figlie, fin da piccole, l’idea che la loro esistenza è una minaccia
per l’altro sesso, perchØ se i ragazzi scorgono anche solo un
4
Ivi, p. 53. Questo termine letteralmente significa «perdita di un occhio», infatti
secondo Calefato il termine richiama il rapporto tra sguardo proibito e perdita dello
sguardo.
5
P. Calefato, op. cit., p. 53.
6
Ivi p.52.
7
Calefato, P., Che nome sei?, Roma, Meltemi, 2006, op. cit., p. 63.
7
pezzo della loro pelle o una ciocca di capelli possono perdere
ogni controllo di sØ
8
.
Una persona la si può riconoscere dal volto perchØ è l’unica
parte del corpo che si può presentare come nuda anche quando è
truccata.
Scrive LØvinas:
Il volto è presente nel suo rifiuto di essere contenuto. In questo senso non
potrebbe essere compreso e quindi inglobato. NØ visto nØ toccato perchØ
nella sensazione visiva o tattile, l’identità dell’io nasconde l’alterità
dell’oggetto che diventa contenuto. L’Altro resta infinitamente trascendente,
infinitamente estraneo, ma il suo volto in cui si produce la sua epifania e che
fa appello a me, rompe con il mondo che può esserci comune e le cui
virtualità si inscrivono nella nostra natura e che sviluppiamo anche
attraverso la nostra esistenza
9
.
Per LØvinas il volto non può rifiutarsi di esprimere
significati perchØ l’identità di una persona la si riconosce proprio
dalle caratteristiche del suo viso. Manifestarsi attraverso il volto
significa poter domandare e rispondere alle richieste di un altro
individuo; in questo modo l’essere si esprime e nel medesimo
momento si impone involontariamente come possibilità di
apparenza.
Il volto parla anche con il silenzio perchØ: “apre il discorso
originario la cui prima parola è un obbligo che nessuna interiorità
8
Djavann, C., Bas le voiles!, Paris, Editions Gallimard, 2003; trad. It. A cura di Giarriti,
M., Giø I veli!, Torino, Lindau s.r.l., 2004, p. 19.
9
LØvinas, E., Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Milano, Jaca Book, 1986, op. cit.,
p. 199.
8
consente di evitare, fondando così la vera universalità della
ragione”
10
.
Secondo LØvinas, quindi, il volto è l’evidenza che rende
possibile l’evidenza. Infatti, esso si presenta anche come estraneo
all’alternativa di verità e non-verità, evitando in questo modo
l’ambiguità del vero e del falso. Inoltre, dal volto non si riesce a
capire se ciò che esprime attraverso il silenzio sia vero o meno
dato che ognuno può leggere il volto secondo il proprio punto di
vista.
Il volto è davvero una parte del corpo importante?
Sicuramente si, perchØ la vera essenza dell’uomo viene trasmessa
dal suo viso; infatti, la soggettività di una persona la si può
individuare grazie ad esso
11
.
Ma prima di continuare a parlare del volto, è bene chiedersi
cosa si intende per soggettività. Secondo Rey Chow la
soggettività diventa un modo per cambiare “l’immagine corrotta,
l’immagine denudata, quell’immagine ridotta a nudità,
mostrando la verità che è dietro/al di sotto e intorno ad essa”
12
.
Negare il volto con un velo, allora, significherebbe secondo
LØvinas negare all’individuo quell’esteriorità, quell’apertura
all’esterno che è l’inizio del dialogo con l’Altro. Il faccia a faccia
– che mira a cogliere il campo soggettivo della verità – si
instaura a partire da un punto che è l’io, ed è proprio da questo
punto che qualunque relazione deve cominciare.
LØvinas, infatti, scrive che:
10
Ivi, p. 206.
11
Ivi, p. 299.
12
Chow, R., Il sogno di Butterfly, Roma, Meltemi, 2004, op. cit., p. 26.
9
[…] la presentazione del volto mi mette in rapporto con l’essere. L’esistere
di questo essere – irriducibile alla fenomenicità intesa come realtà senza
realtà – si attua nell’indifferibile urgenza con la quale esige una risposta
13
.
Sulla base di questa conoscenza del mondo attraverso il
volto gli intellettuali e le femministe che studiano la questione
del velo lo considerano come segno di: “sottomissione femminile
e di cancellazione della fisicità della donna, attraverso
l’occultamento di parti del corpo come i capelli, e nel caso delle
donne afghane, col volto coperto, anche del viso”
14
.
Secondo la teoria femminista la donna può entrare in
contatto con il “sociale”
15
solo se ribalta la sua potenziale natura
di oppressa conquistando una sua indipendenza. Se così non
fosse, il sociale, per le femministe, sarebbe sempre caratterizzato
dalla disuguaglianza tra gli uomini e le donne, una
disuguaglianza tradotta nel patriarcato
16
.
Le femministe non vogliono solo incoraggiare la donna
islamica oppressa dalla propria cultura ad essere piø indipendente
ma soprattutto renderla attiva e capace di esprimere le sue idee
agli altri.
A tal riguardo, qual è il significato che le donne
appartenenti alla cultura islamica danno al velo? ¨ un significato
positivo o negativo?
13
LØvinas, E., op. cit.., p. 217.
14
Chow, R., op. cit., p. 26.
15
Per Freud la socialità, invece, è qualcosa a cui gli esseri umani sono sottomessi
indipendentemente se siano uomini o donne; cfr. Chow, R., “Sessualità e migrazione
delle donne”, in L.Curti, a cura, La nuova Shahrazad. Donne e multiculturalismo, Napoli,
Liguori, 2004, p. 37.
16
Chow, R., op. cit., p. 150.
10
Per la maggior parte di loro il velo indica l’appartenenza
alla comunità dei fedeli dimostrando in tal modo la purezza e la
sottomissione non all’uomo bensì a Dio
17
.
Riprendendo la questione del volto, il celarlo agli altri vuol
dire negare la propria identità femminile; mentre se si occulta
solo una parte di esso, la fisionomia del volto femminile si
presenta in chiave antiseduttiva.
Scrive Pozzato:
Coprire i capelli, elemento di seduzione per eccellenza, o rendere invisibili il
sotto mento e il collo, che costituiscono lo sviluppo naturale del viso
inducendo l’osservatore a dirigere lo sguardo verso il resto sottostante del
corpo, tutto questo aumenta l’effetto di sbarramento dello sguardo maschile
sulla donna
18
.
La nostra visione orientalista ci fa interpretare gli abiti degli
altri come un’azione legata fortemente all’identità culturale
marcando, così, una netta distinzione tra il vestire occidentale che
segue i ritmi della moda ed è improntato al continuo
cambiamento, e un vestire orientale che raggruppa tutte le culture
vestimentarie che si trovano a Est e a Sud dell’Europa
19
.
Dunque, parlando di abbigliamento orientale la prima cosa
che viene in mente è il velo che indossano le donne appartenenti
alla cultura islamica.
17
Saracgil, A., “Interno versus esterno. Il velo nella Turchia contemporanea”, in L.Curti,
a cura, La nuova Shahrazad. Donne e multiculturalismo, Napoli, Liguori, 2004, p. 73.
18
Pozzato, M. P., 2005, “Velature e svelamenti. Un problema di semiotica delle culture”,
in G.Franci, M.G. Muzzarelli, a cura, 2005, op. cit. p. 42.
19
Giannone, A., Calefato, P., Manuale di comunicazione, sociologia e cultura della
moda. Volume V. Performance, Roma, Meltemi, 2007, p. 114.
11
Secondo Maria Pia Pozzato la donna orientale si può velare
in differenti modi:
- con un semplice velo sul capo senza che sia annodato sotto il mento come
faceva la leader pakistana Benazir Bhutto;
- con un velo annodato ma che lasci la fronte libera;
- con un velo annodato e che copra la fronte;
- con il rusari, tipico velo indossato dalle donne dell’Iran, una veste di colore
nero, che avvolge l’intero corpo e il capo lasciando, però, scoperto il viso;
- con il chador o hijab simile al rusari, diffuso nei paesi persiani, che può
anche nascondere la bocca;
- con il niqab, presente nei paesi musulmani sunniti come il Medio Oriente,
il Nord Africa, il Sud-Est asiatico e l’India che lascia scoperti solo gli occhi
grazie a una fessura orizzontale;
- con il burqa – obbligatorio in Afganistan – che copre integralmente la
figura femminile e anche gli occhi attraverso una grata di tessuto molto
fitta
20
.
Fig. 1.1. Donna iraniana che indossa il rusari.
20
Pozzato, M. P., 2005, “Velature e svelamenti. Un problema di semiotica delle culture”,
in G.Franci, M.G. Muzzarelli, a cura, 2005, op. cit., p. 41.
12
Fig. 1.2. Donna che indossa un niqab.
Fig. 1.3. Donna con burqa.
Gran parte delle donne che porta ancora il burqa ha così
tanto interiorizzato l’idea che la sicurezza dipenda
dall’annullamento del proprio corpo da non riuscire proprio ad
abbandonarlo
21
.
21
Sgrena, G., Il prezzo del velo. La guerra dell’Islam contro le donne, Milano, Feltrinelli,
2008, p. 32.
13
Questo indumento non deve essere visto solo da un lato
negativo, perchØ, ad esempio, in Afghanistan è stato usato contro
i suoi fautori; infatti, grazie ad esso si potevano incontrare donne
che lavoravano clandestinamente per gli organismi internazionali
riuscendo a confondersi con le vedove che andavano a chiedere
aiuti, erano dei “fantasmi che si muovevano come fagotti azzurri
elettrici”
22
.
Purtroppo, in Occidente il velo ancora non riesce ad entrare
nel circuito della moda perchØ è considerato come il simbolo
della sottomissione femminile ai voleri maschili, anche se per la
donna islamica, come detto prima, velarsi significa sottomettersi
solo a Dio. Quindi, la maggioranza della popolazione occidentale
vede il velo solo come un fattore negativo, ed è proprio per
questo che difficilmente le donne vogliono indossarlo per
adornare il proprio capo. Per questo è necessario indagare il
significato socio-culturale del velo ma soprattutto la sua
percezione nell’immaginario “orientalista” dell’Occidente.
22
Ibid.
14
1.2 Chador e burqa: la questione dell’identità
Il chador, termine persiano, letteralmente significa “tenda”
ed ha anche le sue stesse funzioni perchØ copre il capo e una
parte del viso come una tenda. In origine il chador non aveva
questa funzione in quanto era usato per coprire il seno che le
donne, prima della nascita della religione islamica, portavano
scoperto
23
.
L’obbligo di usare il velo sul capo inizialmente era adottato
esclusivamente dalle mogli del Profeta per indicare il proprio
status sociale, ma con il passare del tempo si estese anche a tutte
le donne delle classi alte urbane.
In arabo è chiamato “hijab”
24
che sta a significare il vestire
modestamente; inizialmente, invece, stava ad indicare il
tendaggio, la copertura o il velo che separava il sovrano dal resto
dei cortigiani. La sua funzione principale è quella di segnare il
confine tra interno ed esterno consacrando la purezza e
l’intoccabilità della donna.
Nella cultura musulmana l’interno, concepito come luogo
della purezza e dell’ordine, è lo spazio di vita delle donne; invece
l’esterno, luogo di impurità, caos e disordine, è riservato
esclusivamente agli uomini, ma essi hanno anche la possibilità di
23
Cfr. Chador, su http://dellamoda.it/dizionario_della_moda/c/chador.php.
24
L’associazione semantica tra segregazione domestica (hijab)e indumenti da indossare
(jilbab) risultò nell’uso del termine hijab per indicare indumenti coprenti che le donne
dovevano indossare fuori casa; in Salih, R., Musulmane rivelate. Donne, islam,
modernità, Roma, Carocci, 2008, op. cit., p.34.
15
vivere in entrambi i luoghi per un funzionamento corretto e per il
benessere della società
25
.
E’ evidente, dunque, l’intento di sottrarre la donna alla vista
del mondo esterno, di mantenerla chiusa dentro le mura
domestiche anche quando esce di casa, di impedirne la
socializzazione come persona e di controllarne soprattutto la sua
vita sessuale.
Se gli uomini entrano negli spazi femminili lo manifestano
trascinando i piedi e rischiarandosi la gola per indicare alle donne
di abbandonare le posizioni indisciplinate che prendono i corpi in
libertà, invece se sono le donne ad entrare negli ambiti maschili
devono umiliare il proprio corpo incurvandosi e celando i propri
connotati sessuali con il velo
26
.
L’hijab diviene, quindi, fin da subito, una sorta di
protezione portatile per le donne musulmane.
Le studentesse chiamano il velo in un altro modo e cioè
“tesettür”
27
che sta ad indicare l’azione del coprirsi, del velarsi,
del nascondere la propria intimità agli sguardi altrui.
Il tesettür non deve essere considerato come un’uniforme
perchØ la donna può scegliere liberamente i colori e le stoffe del
velo che vuole indossare
28
.
25
Saracgil, A., 2004, “Interno versus esterno. Il velo nella Turchia contemporanea”, in
L.Curti, a cura, 2004, op. cit., pp. 74-75.
26
Salih, R., p. 90.
27
Saracgil, A., 2004, “Interno versus esterno. Il velo nella Turchia contemporanea”, in
L.Curti, a cura, 2004, p. 78.
28
Ibid.
16
Scrive Saracgil:
Il velo veniva posto da un lato come un forte simbolo visivo della società
musulmana e la sua rinuncia diventava condizione essenziale
dell’integrazione della nazione turca con la civiltà occidentale. Dall’altro
canto esso diventava una questione riguardante il rapporto privato tra uomini
e donne. Non è infatti un caso che, mentre la sostituzione dei copricapi
maschili tradizionali (turbante) con il cappello di foggia occidentale fu
imposta per legge, rispetto al velo il regime si mostrò molto piø timoroso, si
limitò a osservazioni e discorsi, a incoraggiamenti e apprezzamenti,
lasciando la soluzione del problema ad una graduale negoziazione nella sfera
privata
29
.
Fig. 1.4. Bambine con il chador.
Si deduce, quindi, che per la cultura islamica la qualità
principale che rappresenta l’identità di una donna è proprio il
vestire modesto con il capo coperto e a volte anche il viso, abiti
senza forma lunghi fino ai piedi e scarpe bassissime. Nonostante
29
Saracgil, A., op. cit., p. 76.
17
ciò sotto gli abiti molte donne indossano la biancheria intima
occidentale perchØ le restrizioni che l’Islam impone
all’abbigliamento femminile riguardano solo le relazioni che la
donna ha con estranei alla propria famiglia e non quelle relative
al rapporto con il proprio marito
30
.
Scrive Calefato:
Il velo delle donne musulmane si origina allora in ragioni culturali
ambivalenti, che se da un lato negano lo sguardo, dall’altro lo richiamano
evocando tutto il fascino del nascosto, tutta la letteratura, scritta o
immaginata, che sorge intorno agli harem profumati di gelsomino
31
.
Il velo in Occidente, richiamando tradizioni cristiane,
ebraiche, greche, romane ed etrusche, era indossato dalla donna
sopra l’abito nuziale perchØ indicava da una parte la sua castità e
il suo pudore, ma dall’altra uno svelamento come perdita di
verginità. Oggi le spose, invece, lo indossano solo per un puro
aspetto estetico e non come simbolo di purezza
32
.
Ritornando a parlare della donna islamica, un altro tipo di
velamento che ella adotta è il burqa; ma a differenza del chador,
copre integralmente il corpo celandolo agli sguardi altrui.
Esso può essere di due tipi: il primo è caratterizzato da un
velo che copre l'intero capo lasciando scoperti solo gli occhi
attraverso una piccola fessura; il secondo, chiamato anche burqa
completo o burqa afghano, è un abito, solitamente di colore blu,
che cela l’intero corpo, persino gli occhi attraverso una retina che
30
Segre, S., Manuale di comunicazione, sociologia e cultura della moda. Volume IV.
Orientalismi, Roma, Meltemi, 2006, p. 180.
31
Calefato, P., op, cit., p. 53.
32
Calefato, P., p. 54.
18
permette alle donne di poter vedere senza che altri vedano i loro
occhi. Entrambi i burqa, però, annullano l’identità della donna,
perchØ la omologano ad un segno generico.
Le donne appartenenti alla cultura islamica, in particolar
modo quelle afgane, sono obbligate dallo Stato a velarsi.
Presentandosi al mondo esterno come prigioniere dei propri abiti,
non hanno alcuna possibilità di costruirsi un’immagine e di
conseguenza sono private della propria identità.
Per Freud, affinchØ la donna possa avere una propria
identità socialmente accettabile e quindi una versione normale
dell’essere donna, deve saper imitare una sessualità che non le
appartiene abbandonando la propria
33
.
Il socio-semiotico Eric Landowski afferma, invece, che
l’identità si costruisce dal confronto con l’Altro che ha abitudini
e modi di vestire differenti, trovando un punto d’incontro che può
sfociare sia nell’assimilazione, sia – nei casi peggiori –
nell’esclusione e nella segregazione.
33
Chow, R., 2004, “Sessualità e migrazione delle donne”, in L.Curti, a cura, 2004, op.
cit., p. 25.
34
Cfr. Landowski, E., in
Pozzato, M. P., 2005, “Velature e svelamenti. Un problema di
semiotica delle culture”, in G.Franci, M.G. Muzzarelli, a cura, 2005, p. 37.