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Capitolo 1
IL CULTURE JAMMING E I FENOMENI CHE NE FANNO PARTE
1.1. Contesto socio-culturale
Per parlare di Culture Jamming e di tutti i fenomeni a questo annessi risulta necessario fare
una breve digressione introduttiva su quelle che sono le radici storiche di un movimento
tanto diffuso quanto sconosciuto, di modo da comprendere meglio gli intenti sovversivi di
cui si fa portatore.
Ci troviamo all'inizio degli anni Ottanta quando alcune delle più potenti industrie al
mondo iniziarono a vacillare: possedevano troppo, avevano troppi dipendenti ed erano
oberate dalle responsabilità complesse dei processi di produzione.
Il potere e il centro delle economie industrializzate erano stati considerati fino ad allora
l’industria stessa, ossia la generazione di oggetti: all’aumento di produzione corrispondeva,
secondo la dottrina industriale, un aumento del guadagno in maniera direttamente
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proporzionale. Tale dottrina venne messa in discussione durante la crisi energetica del 79,
rivelandosi poi totalmente fallace.
Giunti a questo punto si fece spazio la consapevolezza che la produzione di beni non
poteva più essere considerata una via sicura per il successo, ma solamente una parte
secondaria dell'attività aziendale; è allora che alcuni precursori decisero audacemente di
invertire la rotta e appaltare la fabbricazione dei prodotti a terzi. È proprio come esigenza
dell’era industriale infatti che nacque il branding: la produzione seriale e su larga scala di
merci tra loro pressoché identiche necessitava di un lavoro di diversificazione basato
sull’immagine.
Le lungimiranti aziende, non più impegnate nella creazione di beni materiali,
iniziarono così a sfornare prodotti ben più preziosi: le immagini dei loro marchi. Il cuore del
lavoro da produzione divenne marketing, i grandi brand nel giro di pochi anni si trovarono
a competere in una corsa al peso zero
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dove i vincitori erano coloro che possedevano meno
e con meno dipendenti fissi, ossia coloro che erano stati capaci di sostituire ai prodotti le
immagini.
Tuttavia, se da una parte le grandi aziende iniziavano rapidamente a conformarsi alla
dottrina del marketing, dall'altra si doveva pur sempre fare i conti con quella che era la
limitante peculiarità del processo produttivo, ossia il fatto che esso non poteva mai essere
del tutto abbandonato: restava comunque necessario che qualcuno si sporcasse le mani per
la realizzazione di quei prodotti su cui i marchi sarebbero andati poi ad applicare la propria
immagine.
È a questo punto che emersero come indispensabili le zone industriali di esportazione:
Indonesia, Cina, Messico, Vietnam, Filippine e qualsiasi altro territorio esente da dazi di
import/export e da imposte su reddito o proprietà. Territori dove tutt’oggi i salari degli operai
sono direttamente proporzionali ai loro diritti e dove frodi e usurpazioni rendono i costi di
produzione smodatamente bassi.
Ma non è ai territori sfruttabili dei paesi in via di sviluppo che si limitarono le
conseguenze dell’emergente dottrina; questa nuova strada per il successo palesò rapidamente
il suo prezzo anche al mondo occidentale: una serie di condizioni necessarie al marchio i cui
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Klein N., No Logo. Economia globale e nuova contestazione, Milano, Baldini & Castoldi, 2001, p. 26.
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effetti deleteri sulla società e l’ambiente urbano sono considerati oggi normalità. Per prima
cosa la nuova strategia richiede che il marchio possa estendersi senza limiti, che la sua
immagine sia costantemente rinnovata, ma soprattutto richiede una continua ricerca di nuovi
spazi in cui far penetrare il messaggio del marchio.
Inoltre il brand ha bisogno di un investimento pubblicitario in costante crescita per
mantenere la propria posizione; questo comporta che all’aumento della pubblicità
corrisponda una maggiore necessità del marchio di muoversi aggressivamente sul mercato a
garanzia della propria visibilità.
David Lubars, dirigente pubblicitario di Omnicom Group, enunciò senza peli sulla
lingua quello che è il principio cardine delle politiche industriali: «i consumatori sono come
scarafaggi, dopo un po’ il solito insetticida non basta più, li devi spruzzare con roba più
forte»
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. Tale massima riassume il concetto precedentemente espresso secondo il quale la
pubblicità non fa, e non farà, che penetrare sempre più nei nostri spazi, virtuali o reali che
siano, fino a farci vivere in quella che Naomi Klein definisce una vita sponsorizzata
4
.
Non fu necessario molto tempo prima che le grandi aziende si rendessero conto di quanto
fosse ampio, se non addirittura illimitato, lo spettro delle possibilità di espansione derivato
dalla vendita di un messaggio-marchio rispetto a un prodotto; d'altronde se il marchio non
era più prodotto poteva divenire qualsiasi cosa.
Emblema del branding in questo senso può essere considerato il Virgin Group di
Richard Branson, che a partire dagli anni Settanta ha costruito un impero di consociati che è
andato a coprire oltre quattrocento aree di interesse all'interno del settore
dell'intrattenimento: musica, libri, viaggi, palestre, alberghi, bevande... il messaggio Virgin
si è audacemente declinato a ciascun prodotto e servizio offerto, facendo del branding il
proprio Vangelo.
Negli anni Novanta il branding, consapevole del proprio potenziale espansionistico,
era pronto a fare il passo successivo: veicolare il suo messaggio al di fuori della
rappresentazione e tramutarlo in realtà vissuta; è in questo periodo infatti che spopolò la
3
Ibid., p. 32.
4
Ibid., p. 33.
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strategia della sponsorizzazione. Tuttavia l'azienda non si limitava a portare il proprio
marchio oltre le etichette dei prodotti o al di fuori degli scaffali dei negozi per apporlo sulla
cultura esterna, essa mirava piuttosto a far sì che fosse la cultura stessa ad attribuire,
legittimare e aggiungere valore al marchio. Per fare questo il brand si servì di, e fagocitò
avidamente, qualsiasi spunto socio-culturale potesse divenire poi una estensione del suo
messaggio, fino a relegare spesso la cultura ospite al ruolo di semplice comparsa, per rendere
protagonista dell'esperienza lo sponsor.
Il risultato? Lo svilimento della cultura, l'intaccamento del suo significato e il
progressivo assottigliamento del confine tra sponsor aziendale e cultura sponsorizzata. Le
aziende che inizialmente si erano mosse alla ricerca di scenari autentici, cause importanti ed
eventi pubblici che potessero pervadere semanticamente i propri marchi, finirono così per
usurpare l'evento stesso, spesso nascoste e giustificate dietro una maschera di filantropia.
Parlando della sponsorizzazione risulta necessario però, al fine di evitare di fare di tutta
l’erba un fascio, tenere conto delle sapienti parole di Naomi Klein, giornalista e scrittrice
studiosa del tema, che a riguardo afferma: «Il branding diventa un problema quando l'ago
della bilancia pende marcatamente a favore dello sponsor, spogliando la cultura ospite del
suo valore intrinseco e considerandola poco più che un veicolo promozionale. È possibile
tuttavia un rapporto più equilibrato, in cui sia lo sponsor sia il prodotto sponsorizzato
mantengano il rispettivo potere entro confini ben definiti e protetti.»
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Ritornando all'espansionismo del branding, esso non si limitò solamente a pervadere
eventi e cause prestigiose, in poco tempo invase qualsiasi spazio urbano potesse prestarsi a
pubblicità tridimensionale; a partire dalle città più importanti, per giungere poi in qualsiasi
altro centro abitato, si è assistito all'occupazione di autobus, tram, taxi ed edifici, fino ad
arrivare alla brandizzazione di interi quartieri e città.
Dalle strade la pubblicità entrò nelle case e nelle scuole, nelle biblioteche e nelle
università, e ancora, nei palazzetti sportivi e nei teatri attraverso il branding dei media, della
musica, il branding dello sport, il branding di qualsiasi altra sfera pubblica o privata si
potesse brandizzare. Si può affermare che il marchio, come una piovra dai mille tentacoli sia
5
Ibid., p. 60.
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penetrato negli spazi tangibili e virtuali dell’uomo, nei suoi paesaggi e tra le sue parole, per
inchiostrare la totalità con il suo messaggio.
A questo punto sorge spontanea una domanda, o per meglio dire due: per quale
ragione nessuno intervenne a suo tempo per limitare il nascente espansionismo di marca?
Ma soprattutto perché al giorno d'oggi il cittadino, abitante di centri saturi di pubblicità, non
agisce per affrancare lo spazio urbano da tanto inquinamento?
Alla prima domanda possiamo rispondere tirando in causa tutta una serie di benefici, per lo
più economici, che la sponsorizzazione e il branding portavano alla società, ancora
inconsapevole dell'effettivo prezzo di tali vantaggi.
La sentenza alla seconda questione si presenta più semplice ma per questo risuona anche più
agghiacciante: assuefazione. Il cittadino oggi è tanto abituato all'onnipresenza di cartelloni,
insegne luminose, poster, spot, manifesti, ecc. al punto di darli per scontati; d'altronde l'uomo
del consumismo non potrebbe che ritrovarsi spiazzato e confuso di fronte all'improvvisa
assenza di pubblicità, egli resterebbe incredulo innanzi alla vista della propria città
iconograficamente spoglia e silenziosa. Ma in un contesto già saturo di messaggi
promozionali, agli occhi e alle orecchie di un abitante mediaticamente bombardato, quale
differenza potrebbe fare un manifesto di meno o un'insegna di più per le strade della città?
Riprendendo l'agghiacciante paragone tra insetticida e pubblicità di David Lubars, esso trova
seguito nelle dure parole di Kalle Lasn, fondatore della rivista Adbuster, che parlando
proprio di pubblicità scrive: «il dosaggio è aumentato in maniera talmente graduale che noi
non ci rendiamo conto della sua tossicità»
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.
Se il Culture Jamming è un fenomeno di cui poco si parla e poco si conosce è anche
per questo, ossia per il fatto che siamo tanto assuefatti dalla capillare presenza della
pubblicità da non metterla neppure in discussione; i suoi messaggi sono diventati nostri al
punto che il pensare divergente ci risulta pressoché impossibile.
L'esito, e al tempo stesso la causa, di questo stato di diffusa passività e assuefazione
è la fittizia convinzione secondo la quale la realtà, quella al di fuori di uno schermo, di un
centro commerciale o di un social network, risulti scialba e deludente, un po' come le nostre
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Lasn K., Cultur Jam. Manuale di resistenza del consumatore globale, Milano, Mondadori, 2005, p. 34
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città spogliate delle insegne e dei manifesti pubblicitari; una realtà che, confrontata con
quella proposta dai media, viene percepita decisamente non all’altezza.
Il concetto viene reso perfettamente dalle parole di Jack, il Drugo di Arancia meccanica, che,
dopo una estenuante seduta di lavaggio mentale, afferma: «le sembianze del mondo
diventano reali solo quando le vedo trasmesse su schermo»
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.
In altre parole, per la precisione quelle di Naomi Klein, questo processo mediatico ha portato
alla creazione di utopie commerciali
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, che altro non sono che le fondamenta del consumismo;
con voce seducente esse hanno eretto come palazzi della mente desideri e false necessità,
bisogni indotti che il consumatore mira a soddisfare senza porsi interrogativi, ma anzi,
attribuendo a tale soddisfazione la propria felicità e realizzazione.
Per tornare al punto di partenza e introdurre il concetto chiave della tesi, da quanto
detto fino ad ora potremmo asserire che: l’esigenza delle aziende di affermare l'identità del
proprio brand ha portato a suo tempo allo scoppio di una guerra silenziosa con lo spazio
pubblico e privato; guerra che tutt’oggi vede schierati da una parte gli interessi aziendali,
mentre dall'altra, in netto svantaggio numerico, conta i sabotatori pubblicitari che, a colpi di
creatività, combattono per la liberazione dello spazio urbano. È in questo scenario di
guerriglia cittadina che nasce e agisce il Culture Jamming.
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Ibid., p. 34.
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Klein N., No Logo. Economia globale e nuova contestazione, Milano, Baldini & Castoldi, 2001, p. 143.