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territorio con le denominazioni di origine, ecc.) e con incentivi (premi di espianto ecc.) al fine di
“pilotare” il mercato del vino verso una maggiore competitività a livello nazionale ed
internazionale. Tale opera ha dato e sta dando i suoi frutti, riproponendo la cultura del vino italiano
sui più grandi mercati internazionali e contribuendo in maniera decisiva alla straordinaria
reputazione del made in ltaly nel mondo. La globalizzazione ed il confronto con le altre realtà
produttive sono le sfide della nostra agricoltura per il nuovo millennio ed il comparto vitivinicolo si
trova ad affrontarle in uno stato invidiabile di salute, in cui è ormai chiaro che la strada da
percorrere si chiama “qualità totale” e non c’è possibilità di successo per chi vuoI scendere a
compromesso con il passato.
Sui mercati internazionali, per quanto riguarda l’export, Francia e Italia combattono per il
primato: il nostro paese ha recuperato moltissimo sugli eterni rivali transalpini ed infatti le quantità
esportate sono oggi piuttosto livellate. Continuano però a prevalere i francesi se si considerano gli
introiti delle esportazioni, in quanto la Francia ha sempre puntato sull’export di vini di pregio e
“costosi” (si pensi allo Champagne, ai première crus bordolesi ed ai grandi vini della Borgogna)
mentre invece l’Italia si è adagiata per troppo tempo sull’export di vini sfusi. Purtroppo questo tipo
di esportazioni è ancora abbastanza diffuso, soprattutto per le grandi quantità ancora prodotte in
Italia, in modo particolare al sud; comunque a livello nazionale ci si sta orientando sempre di più
verso l’esportazione di vini pregiati e quindi tale gap nei confronti della Francia sembra in grado di
assottigliarsi in futuro.
Questa riconversione verso la qualità ha origini che oggi sembrano lontane nel tempo, ma
che in realtà si collocano nell’ultimo ventennio ed in particolare negli ultimi dieci anni. A metà
degli anni ottanta il vino italiano viveva sui mercati internazionali ma anche nazionali una fase di
crisi, stava diventando una bevanda indifferenziata e neutra con lo scopo da parte di chi la
produceva di ottenere un prodotto che, per prezzo e caratteristiche, poteva andare a competere con
le altre bevande (bibite gassate e birra soprattutto). C’erano e ci sono sempre stati, ovviamente,
produttori onesti che non si sono mai piegati a questa moda passeggera, ma in tale periodo sono
stati poco tutelati: insieme a produzioni di qualità venivano, come già detto, immesse sul mercato
grosse quantità di vino sfuso che hanno contribuito a farci perdere valore sul mercato, pur
aumentando le quantità di vino prodotte.
Il distacco con la Francia e con i suoi vini, che non si sono mai piegati alla logica della
quantità senza qualità, era a quel punto molto forte: per uscire da questa situazione serviva una
pesante scossa, in grado di indurre una inversione di tendenza.
Tale scossa arrivò nel 1986, ma in negativo: fu infatti questo l’anno dello scandalo dei vini
al metanolo, che causò vittime e trascinò nel baratro tutto il settore, comprese quelle aziende e quei
produttori onesti e capaci che niente avevano a che fare con questa tragica vicenda.
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Era in quel momento più che mai necessario ripulire l’immagine del vino italiano nei
confronti dell’opinione pubblica, nazionale ed internazionale, e ciò in parte fu fatto utilizzando per
la prima volta strumenti di marketing, quali l’informazione e la pubblicità. Notevole fu lo sforzo
finanziario, sia pubblico che privato, con investimenti di capitali e di energie umane, che inaugurò il
fenomeno della promozione collettiva, fino a quel momento poco applicato nel settore. Tale
massiva campagna promozionale giovò sia sul piano internazionale che nazionale, dove si ottenne
l’arresto della caduta a picco dei consumi e un lieve recupero dell’immagine.
Questi furono i risultati, e di certo non si poteva pretendere di più vista la situazione:
purtroppo tale scandalo fu il colpo di grazia inflitto ad un settore, quello vitivinicolo, in quel
momento in evidente difficoltà. Ovviamente per risalire da una così difficile situazione non bastava
un rinnovamento dell’immagine, si doveva innanzitutto operare una distinzione tra vini di pregio e
vini comuni. Ciò fu fatto con il DPR 164/92, che andava a regolamentare le nuove disposizioni per
le denominazioni d’origine, stabilendo finalmente una gerarchia di qualità che eliminava la
confusione che si era creata fino a quel momento. Tale normativa, insieme al cambiamento dello
scenario socio-economico, portò il vino verso standard qualitativi mai raggiunti prima.
Per rilanciare il vino italiano nel mondo serviva una bandiera, un simbolo, un trascinatore in
grado di veicolare l’enologia italiana nuovamente ai vertici delle classifiche mondiali: questa
bandiera è, ed è stata, per molti versi, il Sassicaia. Per capire cosa ha significato questo vino nel
panorama enologico italiano, occorre fare un salto indietro nel tempo, nella Toscana e nell’Italia
vitivinicola di alcune decine di anni fa.
La Tenuta San Guido fu acquistata e ribattezzata a metà degli anni trenta dal marchese
Mario Incisa della Rocchetta, ma a quei tempi non era niente di più che una semplice (ma ben
organizzata) azienda agricola. In seguito il marchese, mettendo a frutto la sua passione per il vino e
la sua preparazione tecnica (derivatagli da una laurea in Agraria conseguita a Pisa e dalla
frequentazione degli ambienti nobili nel bordolese), iniziò un proprio esperimento piantando nella
sua tenuta delle barbatelle di Cabernet Sauvignon e di Cabernet franc con i criteri della viticoltura
bordolese, scegliendo i migliori terreni, la giusta esposizione e giacitura. In cantina la vinificazione
era ancora imperfetta, i materiali lasciavano a desiderare, come anche la pulizia: nonostante queste
limitazioni, si scelse di affinare il vino in barriques, le piccole botti di rovere utilizzate per i grandi
vini di Bordeaux che mai fino ad allora erano entrate nel territorio italiano.
I giudizi fatti dai contadini locali su quel “curioso” vino furono inizialmente impietosi, ma il
marchese ne intuiva comunque le potenzialità; che certo non potevano venire fuori nel marzo
successivo alla vendemmia, ma avevano bisogno di adeguati periodi di affinamento sia in legno che
in bottiglia.
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Furono proprio le bottiglie dimenticate per qualche anno in cantina, e fatte assaggiare a
parenti ed amici, a far capire che l’esperimento meritava di essere continuato e perfezionato: così il
marchese ampliò i vigneti e migliorò le tecnologie in cantina ed il prodotto che ottenne, seppur
artigianale e fatto senza particolari precauzioni, fu un vino di eccezionale qualità. Tale vino rimase
però ad uso e consumo esclusivo della famiglia Incisa fino agli anni settanta, quando i cugini
Antinori incominciarono ad interessarsi al vino di Mario Incisa e, d’accordo con il figlio Nicolò,
mandarono un loro enologo alla cantina di Castiglioncello, dove si vinificava il Sassicaia.
Tale enologo altri non era che Giacomo Tachis, padre della moderna enologia, che proprio
della cura e del perfezionamento del Sassicaia fece il suo trampolino di lancio; da quel momento in
poi le tecnologie in cantina migliorarono molto e nel 1972 si arrivò al timido lancio del Sassicaia, su
di un mercato certamente diverso quello attuale.
Gli Antinori, abili venditori del prodotto vino, organizzati per la commercializzazione
nazionale ed internazionale, inserirono il “cru” di Bolgheri nella gamma dei propri prodotti; in Italia
i più importanti ristoranti non ne volevano sapere, a loro bastava avere come vini di punta i famosi
Chianti e Brunello di Montalcino, mentre all’estero il vino non trovò ostacoli alla
commercializzazione.
La svolta arrivò per mano di Hugh Johnson, un esperto mondiale di vino, che inserì lo
“sconosciuto” Sassicaia in una degustazione alla cieca che comprendeva i migliori cabernet del
mondo. La vittoria del vino toscano ed il successivo clamore suscitato dalla stessa, cambiò il
destino del vino di Bolgheri ed aiutò moltissimo la diffusione del prodotto. Da quel momento in poi
i premi ed i riconoscimenti si moltiplicarono, ed il Sassicaia diventò in poco tempo uno dei più noti
e famosi vini italiani all’estero.
In Italia, paradossalmente, il Sassicaia continuava ad essere considerato un esperimento e ci
volle più tempo perché si affermasse come già era successo all’estero, in particolare nel Regno
Unito e negli Stati Uniti. Mario Incisa, venuto a mancare nel 1983, fu ripagato di tutti i sacrifici fatti
per la creazione del suo vino, anche se non fece in tempo a rendersi conto di cosa significava il
Sassicaia per l’enologia italiana.
Gli anni ottanta furono per Bolgheri anni di grandi cambiamenti: Nicolò Incisa prese in
mano l’azienda del padre e, con la consulenza tecnica di Tachis, guidò il Sassicaia verso orizzonti
qualitativi e commerciali mai raggiunti prima. La curiosità che tale vino suscitò nel bolgherese,
spinse alcuni produttori, compresi gli stessi Antinori, a giocare la carta dell’emulazione ed a tentare
di produrre anche loro un vino sullo stile del Sassicaia. Bolgheri diventò quindi, da luogo noto solo
per la produzione di rosato (il Rosè di Bolgheri prodotto da Antinori), una fucina di grandi rossi:
nacquero così i vari Grattamacco, Ornellaia, Guado al Tasso e via dicendo, che rimasero per molto
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tempo, anche agli occhi dei consumatori stranieri, vini “genericamente” italiani, come lo era il
Sassicaia del resto.
Bolgheri all’epoca non tutelava certamente questi “Vini da tavola”, dal momento che la
DOC creata nel 1983 riguardava principalmente i tradizionali bianchi e rosati. Nacque così una
famosa espressione in lingua inglese che ha rappresentato per molti anni e rappresenta ancora
adesso una importante categoria di vini toscani: i “Supertuscans”. La creazione di questo termine si
rese necessaria per raggruppare quei vini toscani innovativi, che esulavano in qualche modo dalle
classiche zone Doc regionali e che riportavano in etichetta la semplice dicitura “Vino da tavola” o,
talvolta, Igt. L’avvio si ebbe nel 1968 con il più famoso di questi, cioè il Sassicaia (ora DOC) dei
marchesi Incisa, seguito nel 1971 dal Tignanello di Antinori e nel 1978 dal Solaia sempre di
Antinori, che sono, non a caso, due creature enologiche di Tachis. Inclusi nella categoria sono
ovviamente tutti i vini di Bolgheri venuti fuori tra gli anni ottanta ed i primi anni novanta, ma
anche, successivamente, alcuni vini della zona del Chianti e del Montalcinese. Caratteristiche
comuni di questi vini sono, ad esempio, gli impianti vitati modificati al fine di ottenere una resa
minore, per una maggiore qualità, le cantine con moderne attrezzature, l’affinamento in barriques di
origine francese e l’uso di vitigni classici bordolesi quali il Cabernet Sauvignon, il Cabernet franc
ed il Merlot, anche se esistono Supertuscans ottenuti da uve Sangiovese, cioè da uno dei vitigni
classici toscani, o da altri vitigni autoctoni.
Sono proprio questi nuovi vini innovativi che all’inizio degli anni novanta si sono
contrapposti a quelli tradizionali come il Chianti o il Brunello di Montalcino, affascinando il mondo
enologico e determinando il rilancio della Toscana vitivinicola al vertice della produzione
mondiale. L’incredibile successo dei Supertuscans ha scatenato in molti imprenditori la voglia di
provare a fare qualcosa di nuovo e ciò ha portato alla moltiplicazione di questi vini, che ormai
nascevano in molte parti della Toscana, proprio perché di sicuro successo commerciale. Infatti,
dopo i produttori bolgheresi, i primi produttori ad essere coinvolti in questa rivoluzione sono stati
proprio quelli della zona del Chianti e di Montalcino, impazienti di inserire nella propria gamma di
vini, accanto ai prodotti tradizionali, anche una loro “firma d’autore” enologica.
L’eco che hanno avuto questi Supertuscans nel mondo può aver generato inizialmente in
qualche produttore un po’ di disaffezione verso i vini tradizionali; questa almeno è l’idea che si
sono fatti alcuni addetti al settore e della stampa specializzata, che non hanno mancato di diffondere
questa opinione.
In realtà, se anche così fosse stato, per un certo periodo di tempo, ciò non andò a scapito dei
vini tradizionali toscani: infatti il successo dei Supertuscans ha fatto capire ai produttori cosa sia
possibile ottenere, commercialmente parlando, se si punta tutto sulla qualità. Tale filosofia è
applicabile non solo ai vini da tavola o Igt derivanti da taglio bordolese, ma anche ai vari Chianti
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Classico, Brunello di Montalcino, Nobile di Montepulciano e via dicendo. Così, il successo dei
Supertuscan non ha affossato la produzione tradizionale, ma anzi, l’ha migliorata e l’ha innovata. E’
per questo motivo che il Brunello ed il Chianti hanno avuto un successo parallelo a quello dei
Supertuscans, senza venirne travolti. Lo dimostra il fatto che molti di questi vini innovativi sono a
base di Sangiovese o di altri vitigni autoctoni toscani: ciò non per disaffezione nei confronti delle
tradizioni, ma per sperimentare nuove tecniche di affinamento o per usare rese per ettaro diverse da
quelle imposte dai disciplinari DOC.
Ed, a proposito di DOC, si torna a parlare di Bolgheri: ormai siamo negli anni novanta, il
Sassicaia non è più una curiosità, ma un vino che ha scalato tutte le classifiche mondiali e nazionali,
un vino di eccellente qualità al quale si sono recentemente affiancati altri importanti vini, anch’essi
pluripremiati, del calibro dell’Ornellaia, del Masseto, del Guado al Tasso, del Grattamacco ecc. La
cosa in comune che hanno tutti è quella di essere prodotti nel comune di Castagneto e ciò comincia
a non passare più inosservato.
Finalmente nel 1994 si arriva ad una DOC in grado di tutelare veramente il territorio ed i
suoi vini: viene infatti revisionato il disciplinare del 1983, rivalutando la tipologia rosso, adesso
derivante da uve Cabernet Sauvignon, Merlot e Sangiovese. La maggior parte dei Supertuscans
bolgheresi vengono così inclusi nella DOC Bolgheri ed, ancora una volta, è il Sassicaia a fare
eccezione. Ovviamente in positivo, dal momento che viene inserito il Bolgheri Sassicaia, sottozona
della DOC Bolgheri, che si estende esclusivamente nella proprietà della Tenuta San Guido,
rappresentando un caso unico di tutela, accordata ad un solo vino prodotto da una sola azienda.
A rafforzare ulteriormente il territorio arriva un anno dopo il Consorzio di tutela dei vini
Bolgheri DOC, formato dai produttori di vino locali con l’intento di proteggere la produzione e
darsi un regolamento interno, visti anche i forti investimenti nella zona, che porteranno la DOC
Bolgheri a contare, nei primi anni del nuovo secolo, su quasi mille ettari iscritti all’albo dei vigneti,
quadruplicando gli investimenti viticoli in meno di dieci anni.
Ma il vero artefice della promozione del territorio è ed è stata la Strada del Vino Costa degli
Etruschi, istituita nell’anno della revisione al disciplinare e dotata di un Consorzio, comprendente
enti pubblici e soggetti privati, dal 1996. Presidente del Consorzio è stato fatto, non a caso, il
marchese Nicolò Incisa, quasi a sottolineare il fatto che senza il Sassicaia, per usare le parole
dell’attuale direttore della strada del vino Paolo Valdastri, “oggi saremmo ancora al Rosè di
Bolgheri ed al turismo balneare”.
Il Consorzio della strada del vino non si è però adagiato sugli allori, approfittando della
fama che il Sassicaia ed altri vini stavano dando a Bolgheri, ma ha cercato, con sempre nuove
iniziative, di far crescere il territorio nel suo insieme, integrando le varie attività. Anche in questo
7
caso si sono anticipati i tempi, visto che la Costa degli Etruschi è stata la prima “vera” strada del
vino italiana, precorrendo persino il disegno di legge in materia.
Ancora una volta la Toscana ha dato dimostrazione di essere una regione innovativa e
propositiva nel settore vitivinicolo, e ciò è stato recepito sia a livello internazionale (come si evince
dall’eco mediatico che ha avuto questa regione sulle riviste specializzate), sia a livello nazionale:
tale leadership nel settore non è però finalizzata al danneggiamento delle regioni “avversarie”, ma
anzi al rafforzamento delle stesse per un consolidamento generalizzato di tutta la viticoltura italiana,
finalizzato ad una maggiore competitività sul mercato internazionale.
Da ciò si capisce come l’emblema di tutti i vini di qualità, toscani e non, tradizionali e non,
non possa che essere il Bolgheri Sassicaia, proprio perché è stato il primo nel suo genere e perché,
in oltre trent’anni di presenza sul mercato ha saputo migliorarsi, pur rimanendo coerente con sé
stesso e con il territorio che rappresenta.
In questo studio cercheremo di capire cosa il Sassicaia ha rappresentato e rappresenta per
Bolgheri e per l’Italia vitivinicola, partendo dai dati e dalle elaborazioni del mercato vitivinicolo
italiano, passando per lo studio del marketing e della valorizzazione del vino e del territorio ed
infine analizzando il caso di studio, considerando gli strumenti di comunicazione e promozione
utilizzati dall’azienda di San Guido e, più in generale, dal Consorzio della strada del vino Costa
degli Etruschi, il principale artefice della valorizzazione territoriale e dei suoi prodotti.
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SEZIONE I - IL MERCATO DEL VINO
1. Il quadro internazionale
1
1.1. Evoluzione delle superfici vitate nel mondo e nella UE
Le superfici vitate mondiali ad uva da vino e da tavola, secondo dati Fao, sono salite nel
2000 a 7,5 milioni di ettari, confermando la tendenza già segnalata nel 1999. Infatti dopo una
diminuzione progressiva registrata dagli anni ‘70 fino al 1998, si è registrato negli gli ultimi due
anni un incremento, anche se con tassi di crescita molto limitati.
Analizzando i dati dell’ultimo trentennio, il dato più significativo è senz’altro il passaggio
dai 9,1 milioni di ettari degli anni settanta ai 7,5 milioni di ettari degli anni novanta (media
decennale).
Figura 1
Evoluzione delle superfici vitate nel mondo e nella UE
(ettari)
0
2.000.000
4.000.000
6.000.000
8.000.000
10.000.000
1970 1973 1976 1979 1982 1985 1988 1991 1994 1997 2000
Mondo
UE
Fonte: Elaborazioni Ismea su dati Fao.
1
La fonte per le statistiche a livello internazionale e nazionale è “La filiera del vino e delle uve da tavola in Sicilia” a
cura di Ismea (2001)
9
Tale tendenza ha coinvolto soprattutto l’Unione Europea, la cui quota sulle superfici
mondiali vitate è passata dal 51% degli anni settanta al 47% degli anni novanta, a causa delle già
citate misure comunitarie volte a contenere il potenziale produttivo (blocco dei nuovi impianti e
premi sulle estirpazioni). In valore assoluto le superfici di questa area sono passate da 4,7 milioni di
ettari a 3,5 milioni di ettari: il Paese leader è la Spagna (circa 1.150.000 ettari) seguita da Francia e
Italia appaiate (oltre 900.000 ettari).
Di contro si è avuto un aumento delle superfici vitate nei continenti asiatico ed americano:
dei primi è salito il contributo viticolo a livello mondiale dal 15% al 18%, grazie al forte contributo
della Cina, anche se buona parte di questi vigneti sono destinate alla produzione di uva da tavola.
Significativo è invece l’incremento di quota dei vigneti americani, passata nel frattempo dal 9%
all’11%: la spinta verso l’alto, in questi ultimi sette anni, è stata sicuramente data dall’Argentina,
Paese che dopo anni di stabilità sembra essere in piena fase espansiva anche grazie agli investimenti
fatti da aziende cilene e nord americane, in cerca di nuovi terreni da impiantare; tale situazione è
però precedente al recente tracollo economico. La superficie vitata argentina si attesta nel 2000
intorno ai 206 mila ettari.
Altro Paese di punta della viticoltura sudamericana è il Cile, che sta conducendo, da qualche
anno a questa parte, un’importante opera di riconversione degli impianti. Viene abbandonata la
coltivazione dei vitigni autoctoni, perché di scarso interesse commerciale, ed introdotta quella dei
quattro vitigni più diffusi ed economicamente significativi a livello mondiale: il Merlot, il Cabernet,
lo Chardonnay e il Sauvignon. Secondo stime del Ministero dell’Agricoltura cileno, la viticoltura da
vino copre oltre la metà dell’intera superficie vitata che nel 2000, in base ai dati Fao, si attesta a 138
mila ettari.
L’America Centro-settentrionale è rappresentata in modo preponderante dagli Stati Uniti
(89% del totale), che hanno avuto una netta crescita del proprio patrimonio viticolo tra gli anni
settanta e gli anni ottanta, passando da 299 mila ettari a 374 mila ettari, ed una crescita più
contenuta nell’ultimo decennio, superando nel 2000 i 404 mila ettari.
L’aumento delle superfici vitate si registra anche nei Paesi dell’Oceania, continente a
vocazione vinicola di recente formazione, grazie soprattutto al traino dovuto all’espansione dei
vigneti nelle terre australiane. Per questo Paese si prevede, infatti, che per il 2004-2005 le superfici
vitate raddoppieranno rispetto ai 72 mila ettari censiti nel 1997, superando quindi i 140 mila ettari.
Più della metà degli impianti sono rappresentati da vitigni a bacca rossa, con previsione di un
ulteriore incremento di questi, che stanno via via sostituendo i vigneti coltivati ad uve bianche di
basso profilo qualitativo.
10
1.2. Evoluzione della produzione di vino
Le tendenze viste in precedenza per le superfici vitate variano di poco se si passa ad
analizzare la produzione di uva e vino. La produzione di vino ha avuto infatti lo stesso andamento
flessivo descritto per le superfici, passando da una media di 31,9 milioni di tonnellate relativa al
decennio 1971-80 ai 26,7 milioni di tonnellate relative all’ultimo decennio 1991-2000 (Tab.1 e
Fig.2).
Ancora una volta la responsabile di tale andamento è l’Unione Europea che, pur
mantenendo il suo ruolo di leader mondiale con oltre il 60% dell’intera produzione, ha ridotto
marcatamente la produzione, soprattutto nell’ultimo decennio. E’ diminuito nel complesso il peso
dell’Europa sul totale a seguito della flessione produttiva nelle Repubbliche ex sovietiche mentre è
cresciuta, seppur di poco, la quota del continente americano (passata nel frattempo dal 15% al
17%).
Tabella 1
Produzione mondiale dal 1971 al 2000: medie decennali
1971-1980 1981-1990 1991-2000
Media Quota Media Quota Media Quota
Africa 1.217.574 3,8% 968.436 3,1% 902.654 3,4%
America 4.891.729 15,4% 4.935.206 15,7% 4.423.337 16,6%
Asia 142.092 0,4% 368.402 1,2% 589.647 2,2%
Oceania 363.626 1,1% 457.690 1,5% 653.589 2,4%
Europa 25.243.274 79,2% 24.701.892 78,6% 20.137.131 75,4%
Ue 19.874.507 62,4% 19.622.339 62,4% 16.872.257 63,2%
Totale mondiale 31.858.295 100,0% 31.431.626 100,0% 26.706.357 100,0%
Fonte: Elaborazioni Ismea su dati Fao.
Scendendo nel dettaglio dei Paesi, è confermato il ruolo leader di Francia e Italia, che
insieme coprono circa il 44% della produzione mondiale. Anche per questi Paesi si segnala una
tendenza flessiva relativa agli ultimi tre decenni, che ha portato la Francia dai 7 milioni di tonnellate
negli anni settanta ai 5,7 milioni degli ultimi 10 anni, mentre nello stesso periodo di tempo l’Italia è
passata dai 7,2 milioni di tonnellate ai 5,9 milioni. Appartiene sempre all’Unione Europea il terzo
Paese produttore, la Spagna, il cui volume di vino si è sempre assestato mediamente sopra i 3
milioni di tonnellate, raggiungendo un picco di 3,4 milioni di tonnellate negli anni ottanta.
Il continente americano è il secondo grande produttore di vino dopo l’Europa, o meglio dopo
l’Unione Europea visto la non eccessiva incidenza dei Paesi non inclusi nella Ue; la produzione
media americana si è assestata sui 4,4 milioni di tonnellate nell’ultimo decennio, dopo aver superato
i 4,9 milioni negli anni ottanta. In quegli anni era l’Argentina il primo Paese vinicolo americano,
con oltre 2 milioni di tonnellate prodotte, ma negli anni novanta ha ceduto il posto agli Stati Uniti;
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altro produttore particolarmente importante è il Cile, dove nell’ultimo decennio si è registrato uno
sviluppo significativo del settore.
Chiudono questa classifica l’Africa con il 3%, l’Asia e l’Oceania con il 2%: di questi
continenti vale la pena riportare solo i dati relativi alle produzioni dei due stati più significativi nel
panorama viticolo mondiale, il Sud Africa e l’Australia. Il Sud Africa è passato da una media
produttiva di 546 mila tonnellate di vino negli anni settanta ad una di 776 mila negli anni novanta,
mentre i volumi prodotti in Australia sono aumentati passando da 331 mila a 588 mila tonnellate,
con un incremento dell’86% negli ultimi trent’anni.
Figura 2
0
5.000.000
10.000.000
15.000.000
20.000.000
25.000.000
30.000.000
35.000.000
1971-1980 1981-1990 1991-2000
Produzione mondiale dal 1971 al 2000: medie decennali
(tonnellate)
Asia
Oceania
Africa
America
Resto dell'Europa
Ue
1.3. Consumi di vino nel mondo
Dai dati Oiv del 1999 (Tab.2), emerge una netta differenziazione dei consumi pro capite di
vino per area geografica. Il consumo mondiale di vino ha ripreso a crescere, seppure lentamente,
invertendo una tendenza che durava ormai dai primi anni ‘80. Tale crescita è però il frutto di due
opposte tendenze: da una parte ci sono i Paesi tradizionalmente consumatori di vino (Francia e Italia
in primis, ma anche Portogallo, Spagna ed altri Paesi europei), che continuano a tenere la leadership
quanto a volumi totali consumati, anche se appare indicativo che il primato sia passato dal 1997 al
12
Lussemburgo (attualmente il maggior consumatore, con quasi 63 litri), mentre dall’altra ci sono i
Paesi emergenti, nei quali il consumo di vino è in aumento, anche se in qualche caso il vino
costituisce ancora oggi una curiosità commerciale: tra questi non si possono non ricordare
l’Australia, il Sud Africa, la Cina e il Giappone.
Tabella 2
Consumi pro capite di vino nel mondo (litri)
1995 1996 1997 1998 1999
Europa
Lussemburgo 55,20 50,40 63,50 62,10 62,80
Francia 63,00 60,00 59,03 58,14 58,70
Italia 62,00 59,37 53,60 55,27 54,15
Portogallo 57,41 58,46 52,49 50,60 49,90
Svizzera 41,50 41,17 41,20 40,89 40,55
Spagna 36,90 37,71 37,17 37,69 39,40
Austria 32,00 32,00 37,80 37,80 37,80
Ungheria 30,00 30,00 30,00 30,20 30,20
Danimarca 25,24 26,80 28,21 29,43 29,30
Germania - 22,90 23,10 23,00 23,00
Regno Unito 13,00 12,50 12,90 13,10 14,20
America
Argentina 42,32 40,51 40,51 38,15 38,39
Uruguay 30,70 30,30 31,00 32,30 32,30
Cile 15,00 15,80 13,10 18,30 19,00
U.S.A. 8,30 7,60 8,20 7,65 7,91
Canada 6,88 7,08 - 7,04 7,04
Altri Paesi
Australia 18,30 18,10 19,00 19,70 19,80
Nuova Zelanda 8,70 9,90 10,40 10,10 10,10
Sud Africa 9,63 9,30 9,09 8,56 8,56
Giappone 1,29 1,39 2,20 2,50 2,50
Cina - - 0,19 0,26 0,26
Secondo valutazioni dell’Oiv, la flessione dei consumi di vino nei Paesi tradizionalmente
consumatori si è arrestata, dopo quasi un ventennio di costante discesa, mantenendo comunque i
volumi su livelli considerevoli (e soprattutto tale lenta ripresa si è accompagnata ad una attenzione
sempre crescente verso la qualità), mentre nei Paesi emergenti continuano a registrarsi tassi di
crescita consistenti, ma per quantitativi ancora ridotti in termini assoluti.
13
1.4. Gli scambi internazionali
Gli ultimi trent’anni, se per le produzioni vinicole hanno segnato una costante riduzione, per
gli scambi internazionali hanno rappresentato invece un periodo di intenso sviluppo. Si è passati
infatti da un mercato, identificato nel complesso delle esportazioni mondiali, di 4,1 milioni di
tonnellate del decennio 1971-1980 ai 5,5 milioni di tonnellate calcolati come media dal 1991 al
1999, con una crescita del 34%. A dettare l’andamento degli scambi internazionali sono stati e
restano essenzialmente tre Paesi: Italia, Francia e Spagna, che insieme si sono contesi più del 60%
delle esportazioni mondiali dell’ultimo trentennio (Tab.3).
Al vertice della graduatoria dei Paesi fornitori è stata quasi sempre l’Italia che solo in alcuni
anni ha lasciato la leadership alla Francia. Altro discorso se consideriamo le esportazioni non dal
punto di vista quantitativo ma degli introiti. In questo caso infatti la Francia è sempre stata leader
indiscussa, seguita a notevole distanza da Italia e Spagna. La differenza fondamentale tra il valore
delle esportazioni francesi da una parte, ed italiane e spagnole dall’altra, è che la Francia ha puntato
sempre sull’export di vini di pregio e confezionati (si pensi ad esempio allo Champagne), mentre
Italia e Spagna si sono adagiate per troppo tempo sull’export di vini sfusi.
Tabella 3
Esportazioni dei principali Paesi fornitori (tonnellate)
1971/1980 1981/1990 1991/1999
Ue
Italia 1.216.830 1.434.441 1.420.417
Francia 682.463 1.153.923 1.301.349
Spagna 460.111 517.122 786.363
Portogallo 179.599 148.075 203.220
Nuovo mondo
Australia 6.283 19.040 202.402
Cile 9.197 18.229 175.273
U.S.A. 9.191 45.399 163.306
Argentina 20.800 22.559 100.198
Sud Africa 11.121 10.251 72.731
Media mondo 4.070.360 4.261.867 5.505.739
Fonte: Elaborazioni Ismea su dati Fao
Questa sorta di egemonia da parte dei tre Paesi UE non ha comunque impedito a nuovi
competitors di affacciarsi sui mercati internazionali. E’ il caso dei Paesi del “Nuovo Mondo”, tra i
quali al primo posto abbiamo l’Australia che è passata dalle 6 mila tonnellate degli anni settanta alle
202 mila degli anni novanta (esportando soprattutto in Europa, in particolare nel Regno Unito e in
Germania), passando dallo 0,2% al 3,7% sul totale mondiale.
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L’altro caso particolare è quello del Cile, che partendo dalle 9 mila tonnellate negli anni
settanta è arrivato a 175 mila negli anni novanta, riuscendo a scavalcare gli USA per quanto
riguarda gli export (3,2% contro 3,0%). L’export assume per il Cile un ruolo fondamentale visto lo
scarso consumo interno e una struttura produttiva che permette costi di produzione non elevati e
quindi contenuti prezzi di vendita del vino di buona qualità: le aziende che esportano sono infatti in
numero piuttosto limitato e ciò consente di realizzare importanti economie di scala; il Cile esporta
soprattutto in USA e in Europa (Regno Unito e Paesi scandinavi). Anche USA e Argentina hanno
rafforzato molto in questi ultimi 20 anni il loro ruolo nelle esportazioni; le esportazioni argentine
sono rivolte soprattutto verso USA e Europa, ma anche verso l’America latina mentre l’UE è ancora
il miglior cliente del vino statunitense.
Le dinamiche dei Paesi importatori
Negli ultimi trent’anni l’assetto delle importazioni non è variata di molto: nelle prime
posizioni della graduatoria mondiale, infatti, troviamo ancora la Germania, il Regno Unito, la
Francia e gli Stati Uniti. Complessivamente la loro quota, rispetto quella totale mondiale, ha subito
oscillazioni comprese tra il 43%, valore minimo fatto registrare nel 1998, e il 59%, valore massimo
raggiunto nel 1991.
La Germania è sempre stata il principale cliente per i Paesi produttori, superata dalla Francia
solo agli inizi degli anni settanta; il trend positivo delle importazioni tedesche ha raggiunto il livello
massimo nel 1983 con 1.140.000 tonnellate, poi c’è stata un’inversione di tendenza che ha portato
gli acquisti di vino estero a scendere sotto il milione di tonnellate, per poi raggiungere nel 1999 il
record avvicinandosi a 1,2 milioni di tonnellate, corrispondenti ad una quota del 20% circa sul
totale mondiale.
Pur essendo il primo importatore del mondo come quantità, nel corso degli anni la classifica
relativa al valore della spesa ha visto la Germania oscillare tra il primo ed il terzo posto; fino ai
primi anni ottanta, infatti, occupava il primo posto, successivamente è stata scavalcata per alcuni
anni da Stati Uniti e Regno Unito, ha poi riguadagnato il primato all’inizio degli anni novanta ed
infine è ridiscesa al terzo posto negli ultimi tre anni in esame.
A partire dalla fine degli anni ottanta, il secondo importatore in termini quantitativi è stato il
Regno Unito con 896 mila tonnellate di vino importato nel 1999 (il 15% del totale mondiale). Gli
acquisti di vino, cresciuti abbastanza regolarmente, riguardano prevalentemente vino di alta qualità,
visto che in termini monetari il Regno Unito è il primo importatore internazionale, con una quota
che ha raggiunto il 22% sul totale mondiale nel 1999.
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Il trend delle importazioni francesi nel trentennio 1970-2000 risulta invece essere negativo.
Negli anni settanta i volumi importati dalla Francia, pur manifestando significative oscillazioni, si
sono attestati mediamente attorno alle 803 mila tonnellate, mentre nel decennio successivo sono
scese a 573 mila tonnellate. Nel 1985 la Francia, da secondo importatore mondiale quale era, è
scesa al terzo posto e nel corso degli anni novanta gli acquisti hanno continuato a far registrare
ulteriori flessioni fino ad assestarsi attorno al valore medio delle 557 mila tonnellate. I prodotti
ricercati dai francesi sono per la maggior parte quelli che si collocano nella fascia alta dei prezzi e
gli acquisti vengono effettuati, vista la tradizione vinicola dei due Paesi, prevalentemente in Italia e
in Spagna.
Tra i mercati di maggior interesse emergono anche gli Stati Uniti, che sono il quarto Paese
per volumi importati (con una quota sul totale mondiale del 6,8%), ma terzi per il valore della spesa
sostenuta (15% della spesa totale). Gli Stati Uniti risultano i migliori clienti della Ue, nonostante il
crescente interesse per i vini dell’America latina e dell’Australia.
Nel corso degli anni si sono affacciati alla ribalta dei mercati vinicoli anche alcuni Paesi
dell’Asia: in questo continente infatti le importazioni sono progressivamente aumentate passando
dalle 6 mila tonnellate del 1970 alle 452 mila tonnellate del 1998, per poi scendere drasticamente
alle 299 mila del 1999, causa la crisi economica che ha coinvolto il Giappone, Paese trainante delle
importazioni asiatiche di vino.
Anche Cina, Hong Kong e Singapore sono mercati in via d’espansione, sebbene i volumi
importati risultino ancora molto limitati. La Cina soprattutto potrebbe diventare un importante
sbocco per i Paesi esportatori, sia in virtù del gran numero di abitanti, sia perché non ci sono
particolari vincoli religiosi al consumo di vino.