INTRODUZIONE
Il
settore
dell’occhialeria
sta
attraversando
in
questi
ultimi
anni
una
profonda
evoluzione:
le
importanti
modifiche
subite
dal
contesto
competitivo
e
gli
effetti
della
globalizzazione
(aumento
della
domanda,
aumento
dei
concorrenti,
possibilità
di
ridurre
drasticamente
i
costi
produttivi,
facilità
dello
scambio
di
informazioni,
etc),
dapprima
sui
meccanismi
di
produzione
e
poi
anche
sugli
attori
in
gioco,
stanno
ridisegnando
la
struttura
del
settore
e
i
confini
delle
imprese
che
vi
operano
al
suo
interno,
rendendo
necessari
anche
processi
di
riorganizzazione
a
diversi
livelli
della
supply
chain.
Originariamente
il
settore
si
è
sviluppato
in
forma
di
distretto
industriale,
aveva
il
suo
punto
di
riferimento
in
Italia
ed
era
uno
dei
settori
in
cui
il
nostro
Paese
godeva
di
un
forte
vantaggio
competitivo
rispetto
agli
altri
paesi
(forti
produttori
di
occhiali
erano
presenti
anche
i
Francia,
Germani
e
Giappone).
Oggi,
all’interno
del
distretto
dell’occhialeria,
resistono
poche
imprese,
quelle
che
sono
riuscite,
grazie
a
scelte
coraggiose
dei
loro
imprenditori,
ad
adeguare
struttura,
obiettivi,
prodotti
e
strategie
al
mutato
contesto
del
mercato
globale.
Il
mercato
è
dominato
da
grandi
aziende:
i
primi
6
produttori
coprono
quasi
il
60%
del
mercato.
Di
questi
4
sono
italiani
e,
nonostante
siano
nati
dal
distretto
e
si
siano
sviluppati
grazie
ad
esso,
oggi,
si
rivolgono
al
mondo
intero,
sia
nella
ricerca
di
materie
prime
e
nella
produzione
che
nella
vendita
dei
prodotti
finiti.
Quasi
tutte
queste
imprese
dispongono,
infatti,
di
impianti
produttivi
e
sedi
commerciali
anche
all’estero
e
quasi
tutte
mettono
in
atto
forme
organizzative
di
integrazione
verticale,
o
si
stanno
attrezzando
per
farlo.
Il
legame
Occhiale‐Fashion
System
è
andato
rafforzandosi
sempre
di
più
nel
corso
degli
anni
e
la
produzione
in
licenza
di
occhiali
griffati
è
la
modalità
produttiva
più
diffusa.
L’affermazione
dell’occhiale
come
accessorio
moda
ha
comportato
la
riduzione
del
ciclo
di
vita
del
prodotto,
richiedendo
una
costante
e
attiva
capacità
di
design
e
continui
investimenti
in
innovazione
e
comunicazione.
Il
tempo
di
risposta
al
mercato
è
divenuto,
così,
un
fattore
critico,
aumentando
l’importanza
dell’aspetto
distributivo:
fondamentale
10
si
è
rivelato
lo
stretto
rapporto
con
il
mercato
finale,
per
comprendere
al
meglio
e
rapidamente
i
cambiamenti
delle
tendenze
ed
i
gusti
dei
consumatori.
Le
grandi
imprese,
potendo
disporre
delle
risorse
necessarie,
hanno
accorciato
il
canale
distributivo
integrandosi
a
valle,
dotandosi
in
alcuni
casi
di
sistemi
distributivi
di
proprietà,
conseguendo
grossi
vantaggi
competitivi
ed
aumentando
i
propri
margini
di
guadagno
(bypassando
quasi
definitivamente
la
figura
del
grossista).
Gli
elementi
immateriali
del
prodotto
hanno
assunto
una
rilevanza
crescente,
il
controllo
della
distribuzione
e
del
consumatore
sono
diventati
critici,
la
presenza
sui
mercati
internazionali
e
la
scala
delle
operazioni
costituiscono
ormai
requisiti
essenziali.
Questi
processi
di
modifica
del
settore
hanno
determinato
importanti
cambiamenti,
a
livello
di
modelli
di
business,
di
modelli
organizzativi
e
di
composizione
dell’ambiente
economico,
determinando
la
scomparsa
di
molte
piccole
e
medie
imprese
non
competitive
e
in
alcuni
casi
mettendo
anche
a
repentaglio
la
sopravvivenza
stessa
di
alcuni
grandi
attori.
Il
lavoro
pone
l’accento
sui
meccanismi
che
hanno
determinato
l’attuale
struttura
dell’architettura
del
settore
dell’occhialeria
e
che
governano
l’interazione
tra
gli
attori
che
ne
prendono
parte.
L’obiettivo
è
quello
di
descrivere
le
strategie
di
appropriazione
del
valore
delle
imprese
del
settore,
attraverso
l’analisi
del
caso
Sàfilo.
Tale
interesse
è
stato
mosso
principalmente
dai
seguenti
fattori:
• aver
svolto
un’esperienza
importante
all’interno
della
divisione
Marketing
&
Licensing
di
Sàfilo;
• aver
visto
in
prima
persona
una
riorganizzazione
aziendale
che
aveva
come
fine
quello
di
accrescere
la
competitività
dell’impresa,
la
sua
capacità
di
generare
valore
e
la
sua
posizione
di
prestigio
sul
mercato.
Sàfilo
nel
Dicembre
2009
ha
visto
l’avvicendamento
ai
vertici
della
società
della
famiglia
che
l’ha
fondata
e
guidata
per
più
di
75
anni.
Un
tale
epilogo
è
stato
dovuto
alla
situazione
di
indebitamento
in
cui
il
Gruppo
si
è
trovato
coinvolto
dopo
una
serie
di
11
investimenti
disastrosi,
sostenuti
per
l’acquisizione
di
alcune
catene
retail,
al
fine
di
contrastare
lo
strapotere
commerciale
di
Luxottica
e
guadagnarsi
una
posizione
di
rilievo
nei
confronti
degli
attori
della
filiera.
L’avvicendamento
ha
determinato
uno
stravolgimento
della
strategia
del
Gruppo
e
una
riorganizzazione
e
ripartizione
degli
assets
aziendali
tra
Sàfilo
e
la
nuova
proprietà.
La
nuova
proprietà
è
una
holding
finanziaria
che
concentra
la
maggior
parte
dei
propri
investimenti
nel
settore
della
distribuzione
di
occhiali
da
vista
e
da
sole,
controllando
direttamente
quasi
6.000
punti
vendita
in
tutto
il
mondo.
È
avvenuta
un’integrazione
a
monte
a
cui
il
settore
non
aveva
mai
assistito
prima:
proprio
questo
ha
aumentato
l’interesse
sulle
conseguenze
di
tale
operazione,
in
primis
per
l’azienda
stessa,
Sàfilo,
e
poi
per
l’intero
settore.
L’acquisizione
da
parte
di
un
dettagliante/distributore
di
un’azienda
produttrice
può
avere
importanti
ripercussioni
sulla
struttura
del
settore;
in
primo
luogo
perché
è
un
meccanismo
nuovo,
mai
riscontrato
in
precedenza,
in
secondo
luogo
perché
fornisce
al
produttore
un
canale
di
vendita
diretto
(anche
se
non
gestito
direttamente),
infine
perché
determina
modifiche
dei
rapporti
tra
gli
attori
e
nell’architettura
di
sistema.
Il
lavoro
è
strutturato
in
tre
sezioni.
La
prima
presenta
una
panoramica
su
alcuni
aspetti
teorici
che
l’analisi
del
caso
solleva.
L’organizzazione
secondo
la
forma
del
distretto
è
stata
alla
base
del
successo
di
molti
settori
dell’industria
italiana,
e
tra
questi
figura
l’occhialeria.
Il
modello
teorizzato
da
Marshall,
a
fronte
dei
numerosi
vantaggi
di
cui
gode,
nell’occhialeria
non
ha
saputo
reggere
all’impatto
del
mercato
globale,
ed
ora
si
trova
in
una
fase
di
ridefinizione
di
se
stesso,
delle
sue
caratteristiche
e
dei
suoi
obiettivi.
Ci
si
pone
la
questione
della
sua
attualità
e
si
allargano
gli
orizzonti
a
forme
più
proficue
ed
attuali
di
interazione
tra
imprese,
passando
in
rassegna
i
pensieri
di
alcuni
tra
gli
economisti
più
specializzati
sul
tema
distrettuale
(soprattutto
quelli
con
focus
sul
modello
italiano)
come
Marshall,
Porter,
Becattini,
Russo,
Curzio
e
Fortis.
La
ridefinizione
dei
rapporti
tra
imprese
pone
in
primo
piano
il
quesito
dicotomico
“make
or
buy”
e
finisce
con
l’impattare
sulla
struttura
del
settore.
Le
relazioni
12
interaziendali
sono
il
presupposto
della
sperimentazione,
della
co‐specializzazione
e
dell’innovazione,
fattori
che
influenzano
direttamente
l’architettura
di
un
settore.
Ripercorrendo
le
teorie
di
Teece
e
quelle
più
recenti
di
Jacobides,
si
cercherà
in
questa
parte
del
lavoro
di
evidenziare
gli
aspetti
fondamentali
che
definiscono
l’architettura
di
un
sistema
industriale
e
i
fattori
il
cui
cambiamento
può
stravolgerla.
Ampio
spazio
è
dato
all’approfondimento
delle
teorie
sull’appropriazione
del
valore
da
parte
delle
imprese,
con
un
focus
particolare
su
quella
elaborata
da
Brandenburger
e
definita
“Added
value
business
strategy”.
La
seconda
parte
del
lavoro
descrive
l’industria
dell’occhialeria.
In
un
primo
capitolo
sono
passati
in
rassegna
la
struttura
dell’offerta,
i
suoi
principali
attori
e
la
struttura
della
domanda.
Si
è
ritenuto
opportuno
riportare
anche
i
trend
del
mercato
degli
ultimi
anni.
Una
visione
completa
degli
attori
in
gioco,
dei
rapporti
che
intercorrono
tra
essi,
della
domanda
e
della
sua
segmentazione
sono
la
base
necessaria
per
cercare
di
comprendere
quali
possano
essere
i
cambiamenti
in
atto
e
per
poter
ipotizzare
gli
sviluppi
futuri.
Un
secondo
capitolo
espone
e
descrive
i
principali
modelli
di
business
messi
in
atto
dalle
aziende
del
settore,
partendo
dall’individuazione
di
alcune
variabili
chiave
per
la
loro
individuazione
(proprietà
o
meno
degli
impianti
produttivi,
implementazione
di
una
strategia
commerciale
wholesale
o
retail,
composizione
del
portafoglio
brand).
Particolare
rilievo
verrà
dato
al
rapporto
di
licensing,
essendo
uno
dei
modelli
di
business
più
diffusi
e
affermati
nel
settore
(dopo
l’ingresso
avvenuto
tra
gli
anni
’80
e
’90
delle
griffe
dell’alta
moda
nel
settore
della
produzione
di
occhiali
in
seguito
alle
strategie
di
brand
extension
attuate),
e
alle
implicazioni
che
questo
ha
nei
meccanismi
di
creazione
di
una
collezione.
La
terza
parte
si
focalizza
sul
Gruppo
Sàfilo.
Dopo
averne
raccontato
la
storia,
descritto
il
profilo
istituzionale,
evidenziato
le
peculiarità
del
rapporto
con
HAL
(la
holding
detentrice
della
quota
di
maggioranza)
ed
esposta
l’offerta,
nel
quinto
capitolo
è
trattata
la
strategia
dell’azienda.
L’analisi
a
livello
strategico
espone
sia
l’indirizzo
a
livello
corporate
che
la
business
strategy
adottata;
sono
poi
descritte
la
filiera
di
fornitura
e
di
produzione
e
le
fasi
di
innovazione.
Un
paragrafo
di
sintesi
evidenzia
le
interdipendenze
13
tra
i
diversi
gradi
strategici
e
tra
gli
aspetti
organizzativi
e
gestionali
della
filiera
e
dell’innovazione;
evidenziando
gli
aspetti
critici
e
fondamentali
della
vita
aziendale
di
Sàfilo.
Le
conclusioni
espongono
una
sintesi
sui
meccanismi
di
creazione
e
appropriazione
del
valore
messi
in
atto
dagli
attori,
rispondendo
alle
domande,
poste
anche
da
Jacobides,
«who
knows
what,
who
does
what
and
who
gets
what?».
Nella
seconda
parte
cercano
di
esporre
i
driver
utilizzati
da
Sàfilo
nell’appropriazione
di
valore
all’interno
dell’architettura
di
settore
e
di
tracciarne
possibili
sviluppi
futuri.
Il
lavoro
di
analisi
del
caso
è
stato
svolto
potendo
usufruire
di
molte
informazioni
raccolte
internamente,
durante
il
periodo
trascorso
in
azienda.
Il
fatto
di
aver
vissuto
direttamente
la
fase
di
transizione
verso
una
nuova
gestione
del
gruppo
ha,
da
una
parte,
stimolato
il
mio
interesse
ad
approfondire
il
tema
dell’architettura
del
settore
e
della
sua
evoluzione,
dall’altra
mi
ha
permesso
di
cogliere
chiaramente
l’evoluzione
in
atto,
sia
a
livello
di
impresa
che
di
mercato.
Per
la
redazione
dei
contenuti
relativi
a
Sàfilo
sono
stati
utilizzati
sia
fonti
istituzionali,
quali
il
sito
web
e
l’archivio,
sia
dati
interni.
Inoltre
sono
state
fondamentali
alcune
interviste
svolte
alle
seguenti
figure
aziendali:
- Massimo
Lisot
‐
Head
of
Business
Development
- Claudio
Innocente
‐
Engineering
and
Manufacturing
Director
- Massimo
Zuccarelli
‐
Head
of
Product
Development
- Alessandro
Zamuner
‐
International
Distribution
Director
- Manuel
Gasparin
‐
Italy
Wholesale
Director
- Stelvio
Maccianti
‐
Product
Technical
Developement
Director
Inoltre,
supporto
e
sostegno
quotidiano
alla
raccolta
di
informazioni
e
all’osservazione
delle
dinamiche
aziendali
è
stato
fornito
da
tutti
colleghi.
Un
ringraziamento
particolare
va
al
dott.
Alessio
Puleo,
Senior
Brand
Manager
per
il
Gruppo
Gucci,
e
al
suo
team
(Filippo
Bano
e
Elisa
Gazzin)
per
aver
contribuito
costantemente
e
attivamente
all’indirizzamento
e
allo
svolgimento
dell’analisi
relativa
all’azienda.
14
15
1.
LE
FONTI
DEL
VANTAGGIO
COMPETITIVO
NELL’INDUSTRIA
DELL’OCCHIALERIA
1.1
Introduzione
L’occhialeria
è
da
sempre
un
settore
in
cui
il
nostro
paese
ha
primeggiato,
a
tal
punto
che
Porter
già
nel
1985
lo
inserisce
tra
i
cinquanta
sottosettori
in
cui
l’Italia
ha
conseguito
un
forte
e
stabile
vantaggio
concorrenziale
rispetto
agli
altri
paesi.
Ancora
oggi
questa
affermazione
è
vera:
se
andiamo
ad
osservare
la
tabella
n°
2
al
capitolo
2
di
questo
lavoro
possiamo
osservare
come
i
player
italiani
dell’occhialeria
occupino
posizioni
rilevanti
nel
mercato
mondiale
a
livello
di
volumi
generati
(sono
stati
considerati
i
fatturati
2010).
È
necessario,
però,
chiarire
cosa
si
intende
per
competitive
advantage.
Il
vantaggio
concorrenziale
secondo
Porter
deriva
dalla
scoperta
continua
di
nuovi
e
migliori
modi
di
competere
all’interno
del
segmento
industriale
di
appartenenza
da
parte
delle
singole
imprese
(Porter,
1990):
deriva
cioè
dall’innovazione.
La
concorrenza
è,
infatti,
la
risultante
di
diversi
fattori
di
stimolo
per
l’impresa:
dalla
minaccia
di
nuovi
entranti,
alla
minaccia
di
prodotti
sostitutivi,
dal
potere
dei
fornitori
a
quello
dei
consumatori,
dal
comportamento
delle
aziende
del
settore
alla
rivalità
tra
queste.
L’innovazione
è
un
fattore
di
stimolo
della
concorrenza
poiché
opera
da
meccanismo
di
difesa
e
congiuntamente
di
attacco
dell’impresa
che
l’adotta,
difesa
e
attacco
dalle
e
alle
altre
imprese
operanti
nel
medesimo
settore.
Finché
dura
l’innovazione,
la
concorrenza
rimarrà
accesa,
e
finché
dura
la
concorrenza
l’innovazione
non
si
arresterà.
Il
passaggio
logico
dal
vantaggio
concorrenziale
di
una
data
impresa
a
quello
del
segmento
industriale
di
una
data
nazione
può
essere
spiegato
da
alcuni
fattori
socio‐
economici.
Tra
i
più
rilevanti
si
possono
schematicamente
indicare
(Becattini,
1998):
‐ la
dotazione
nazionale
di
fattori
(infrastrutture
fisiche,
dotazione
di
lavoro
specializzato,
etc);
16
‐ la
natura
della
domanda
interna
(domanda
esigente,
attenta
a
determinati
particolari
di
prodotto,
tecnicamente
preparata,
disponibile
e
in
grado
di
recepire
le
innovazioni,
etc);
‐ i
collegamenti
verticali
e
orizzontali
con
segmenti
industriali
vicini;
‐ il
contesto
culturale.
Questo
determina,
inoltre,
la
specificità
del
settore
in
cui
è
possibile
acquisire
un
vantaggio
concorrenziale,
dal
momento
che
è
assai
improbabile
che
tutte
le
condizioni
elencate
in
precedenza
si
verifichino
in
contesti
più
macro.
Tali
condizioni
erano
presenti
in
numerosi
segmenti
industriali
italiani
nel
dopoguerra:
da
quello
dei
beni
di
consumo
durevoli
(abbigliamento,
calzature,
pelletteria,
montature
per
occhiali,
bambole),
a
quello
delle
relative
materie
prime
(tessuti
di
lana,
seta,
cuoio,
pelli),
a
quello
della
produzione
delle
macchine
specializzate
per
tali
beni
(Becattini,
1998).
Tutti
questi
settori
inoltre
presentavano
un
numero
elevato
di
aziende
appartenenti
alla
stessa
filiera
produttiva,
o
a
filiere
collegate,
e
che,
allo
stesso
tempo,
erano
contigue
territorialmente
e
utilizzavano
tale
loro
peculiarità
come
mezzo
di
relazione
e
di
scambio.
Col
tempo
queste
interazioni
hanno
dato
luogo
ad
un
comportamento
organizzato
ed
efficiente,
così
efficiente
da
risultare
competitivo,
nonostante
le
zone
in
questione
fossero
ristrette
e
concentrate
e
non
risultassero
essere
particolarmente
attraenti
per
effettuare
investimenti
industriali
(dal
momento
che
non
erano
molto
accessibili
e
dotate
di
infrastrutture)
e
al
loro
interno
operassero
aziende
di
settori
considerati
maturi
dal
pensiero
industriale
prevalente.
Furono
perciò
oggetto
di
attenzione
e
studio
da
parte
di
accademici
nazionali
e
scuole
di
business
internazionali,
i
quali
notarono
che
il
potenziamento
della
produttività
e
la
forza
innovativa
del
lavoro
dipendevano
più
dalla
vicinanza
fisica
delle
imprese
che
dall’investimento
in
mezzi
di
produzione
e
dallo
sfruttamento
delle
condizioni
della
forza
lavoro.
Unanimemente
richiamarono
alla
memoria
il
pensiero
di
Marshall
e
il
concetto
17
delle
economie
esterne
alla
singola
impresa,
ma
interne
al
gruppo
settoriale
o
territoriale
d’imprese,
ritornando
così
indietro
di
un
secolo
al
fenomeno
dei
distretti
industriali.
1.2
Alcuni
cenni
teorici
sui
distretti
in
una
prospettiva
storica
Si
cercherà
ora
di
ripercorrere
la
genesi
storica
del
concetto
di
distretto
industriale,
con
un
focus
particolare
sulla
realtà
italiana.
Tale
concetto
fu
formulato
da
Alfred
Marshall,
il
quale
osservò
attentamente
la
realtà
industriale,
soprattutto
britannica,
del
secolo
scorso,
relativamente
alla
teoria
della
produzione,
con
un
indirizzo
d’indagine
assai
diverso
da
quello
utilizzato
dalla
maggior
parte
degli
altri
studiosi
contemporanei.
Marshall
contestava
la
visione
diffusa
della
supremazia
del
sistema
fabbrica
nei
confronti
dei
metodi
di
produzione
più
dispersi
sul
territorio
e
meno
integrati
e
giunge
ad
affermare
che,
almeno
per
certi
tipi
di
produzione,
esistono
due
metodi
di
produzione
egualmente
efficienti:
uno
basato
su
grandi
unità
produttive
integrate
verticalmente
e
un
altro
basato
sulla
concentrazione
di
molte
piccole
imprese
specializzate
nelle
diverse
fasi
dello
stesso
processo
produttivo
in
un
territorio
contiguo.
La
realtà
britannica
si
presentava,
infatti,
segmentata
in
tanti
comparti
settoriali,
incapaci
di
favorire
la
libera
circolazione
dei
fattori
capitali,
del
lavoro
e
delle
informazioni.
Secondo
Marshall
questo
derivava
dall’attenzione
che
veniva
posta
agli
strumenti
classici
della
produzione
(macchine,
impianti,
etc)
e
alle
routines
che
li
regolavano.
La
sua
ricerca
si
spostò,
invece,
sulle
potenzialità
dell’uomo,
sulle
sue
capacità
innovative,
su
beni
collettivi
come
il
capitale
sociale;
elementi
che
riteneva
in
grado
di
liberare
nuove
energie
per
il
sistema.
Da
questi
presupposti
nacque
e
si
sviluppò,
secondo
Marshall,
l’anomalia
distrettuale
(cioè
l’insieme
di
idee
che
si
sviluppa
attorno
al
concetto
di
distretto
industriale).
Durante
l’osservazione
delle
fabbriche,
Marshall
ha
scoperto,
oltre
alla
grande
impresa
integrata,
una
realtà
fatta
di
un
certo
numero
di
imprese
raccolte
in
una
stessa
zona
geografica.
La
sua
analisi
parte
dalla
localizzazione,
che
può
assumere
due
forme,
quella
di
città
manifatturiera
e
quella
di
distretto
industriale.
Questa
suddivisione
delle
attività
produttive
tra
città
e
distretto
è
spiegata
essenzialmente
da
ragioni
di
natura
economica:
l’alto
costo
della
rendita
urbana,
provocato
dall’aumento
dell’insediamento
urbano,
fa
sì,
18
infatti,
che
le
attività
produttive
che
richiedono
impianti
di
maggiori
dimensioni
si
spostino
in
luoghi,
a
più
bassa
densità,
dove
la
rendita
è
minore,
lasciando
alla
città
quelle
attività
che
possono
essere
svolte
in
uno
spazio
più
ristretto
(Caldari,
2010).
Molti
anni
dopo
la
morte
di
Marshall,
avvenuta
nel
1924,
a
partire
dagli
anni
’60
del
1900,
alcuni
studiosi
italiani,
incuriositi
da
una
strana
vitalità
e
da
un
elevato
aggiornamento
tecnologico
delle
piccole
imprese
della
Toscana,
riprese
in
considerazione
le
sue
osservazioni
e
provò
ad
applicarle
alla
realtà
che
avevano
osservato.
Le
piccole
imprese
continuavano
a
diffondersi
in
zone
territorialmente
ristrette
e
poco
attraenti
per
gli
investimenti
e
in
settori
industriali
considerati
maturi
e
senza
prospettive
(tessile‐abbigliamento,
pelletteria,
calzature,
mobili,
etc).
La
spiegazione
fu
ricercata
nella
contiguità
fisica,
cioè
nelle
economie
esterne,
concetto
alla
base
della
teoria
distrettuale
marshalliana.
Dagli
anni
’90,
grazie
ai
contributi
di
Porter
e
dei
suoi
collaboratori,
è
stato
riaperta
secondo
nuovi
orizzonti
la
problematica
distrettuale.
Alcuni
studiosi
italiani
(Becattini,
Fortis,
Conti,
Menghinello
e
altri)
sfruttarono
la
forza
dei
due
illustri
studiosi
per
sostenere
le
loro
teorie
sui
distretti
e
dar
inizio
ad
una
serie
di
analisi
sulle
esportazioni
italiane,
legando
questi
temi
al
concetto
di
Made
in
Italy.
Quasi
contemporaneamente
l’ISTAT
ripartì
il
territorio
italiano
in
sistemi
locali
del
lavoro,
individuando
199
distretti
industriali
e
nacquero
un
Club
dei
Distretti
(con
lo
scopo
di
rappresentare
gli
interessi
dei
distretti
nei
confronti
delle
autorità
politiche)
e
un
Osservatorio
dei
Distretti.
Gli
studiosi
partirono
dall’analisi
di
un
distretto
industriale
in
azione
per
analizzare
il
contesto
italiano:
fu
scelto
quello
di
Prato.
Individuarono
una
popolazione
di
famiglie
d’imprese
che
interagivano
fra
loro
in
vari
modi
in
un’area
territoriale
ben
definita.
Tali
famiglie
potevano
essere
ripartite
in
tante
popolazioni
di
fase
(filature,
tessiture,
tintorie,
etc),
facenti
riferimento
ad
un’impresa
che
svolgeva
il
ruolo
di
interfaccia
col
mercato
esterno.
Inoltre,
erano
attuati
i
seguenti
comportamenti:
‐ suddivisione
dei
processi
produttivi
e
di
quelli
ad
essi
complementari
e
strumentali;
‐ formazione
di
nessi
dinamici
tra
bisogni
e
attività
produttive;
19
‐ sedimentazione
in
istituzioni,
formali
e
non,
materiali
e
non,
di
prassi
sociali
che
rispettano
la
competitività
e
la
convivenza
del
sistema
locale;
‐ integrazione
tra
sapere
contestuale,
tacito,
e
sapere
tecnico‐scientifico,
codificato
nel
processo
produttivo;
‐ creazione
di
sentimento
di
appartenenza
tra
gli
attori
del
processo
produttivo;
‐ mobilità
sociale
e
professionale
locale.
Tali
studi
sono
riusciti
a
dimostrare
la
consistenza
della
forma
distrettuale
anche
in
Italia,
secondo
i
principi
smithiani‐marshalliani
della
divisione
progressiva
del
lavoro
in
fasi
distinte,
in
impianti
distinti
e
operate
da
aziende
distinte.
Prima
di
definire
il
concetto
di
distretto
industriale,
è
interessante
evidenziarne
una
peculiarità
che
è
alla
base
della
sua
vitalità
e
della
sua
forza,
e
cioè
il
fatto
che
le
imprese
costituenti
un
distretto
vivano
rapporti
di
vivacissima
concorrenza
e
di
intelligente
cooperazione.
Concorrenza
dovuta
a
molti
fattori
tra
cui:
la
prossimità
geografica
delle
aziende
che
determina
l’impossibilità
di
costituire
monopoli
spaziali,
l’immediata
e
piena
percezione
delle
mosse
dei
concorrenti
e
la
relativa
rapidità
di
risposta
delle
aziende
a
tali
mosse
e
un
sentimento
di
invidia
ed
emulazione
dei
vicini
concorrenti.
La
cooperazione
invece
può
essere
consapevole
o
inconsapevole,
e
si
esprime
nella
condivisione
di
infrastrutture,
nella
cooperazione
di
acquisto
e
di
vendita,
nella
costituzione
di
centri
locali
di
formazione
professionale
o
di
forme
associative,
nel
rispetto
di
regole
o
convenzioni
comunemente
accettate.
Marshall
intende
il
distretto
come
una
popolazione
di
piccole
e
medie
imprese
indipendenti,
tendenzialmente
coincidenti
con
le
singole
unità
produttive
di
fase,
orientate
da
un
gruppo
di
imprenditori
puri.
Il
distretto,
secondo
Becattini
(1998),
è
un
ambiente
complesso,
dove
i
fenomeni
della
concorrenza
e
della
cooperazione
si
manifestano
in
forma
accentuata
e
interagiscono
tra
loro
in
modo
economicamente
virtuoso,
tale
cioè
da
accrescere
continuamente
il
livello
della
loro
produttività.
Utilizzando
altre
sue
parole
(1991)
il
distretto
industriale
è
«un’entità
socioterritoriale
caratterizzata,
dalla
compresenza
attiva,
in
un’area
territoriale
circoscritta,
naturalisticamente
e
storicamente
determinata,
di
una
comunità
di
20
persone
e
di
una
popolazione
di
imprese
industriali».
Inoltre,
al
suo
interno
la
produzione
si
svolge
nel
quadro
di
un
processo
produttivo
sociale
in
cui
tutte
le
unità
partecipanti
hanno
un
ruolo
essenziale.
Secondo
Russo
(1994)
il
distretto
è
un
“luogo”
che
non
è
solo
spazio
geografico,
ma
è
definito
dalla
storia,
dalla
cultura,
dalle
tradizioni
di
un
gruppo
di
persone
che
vivono
in
un
certo
territorio.
I
distretti
industriali
sono,
perciò,
una
forma
di
sistema
locale
caratterizzata
da
particolari
relazioni
tra
il
sistema
produttivo
e
la
comunità
di
persone
che
di
quel
sistema
locale
fanno
parte.
La
comunità
di
persone
preesiste
al
distretto
industriale.
Per
Brusco
(1989),
il
distretto
è
il
luogo
che
mette
in
equilibrio
dinamico
le
ragioni
dell’efficienza
produttiva,
dell’equilibrio
sociale
e
della
produzione
di
conoscenza.
Curzio
e
Fortis
(2002)
descrivono
il
distretto
come
un
sottosistema
di
produzione
di
un
sistema
di
mercato,
caratterizzato
da
piccole
e
medie
imprese
concentrate
geograficamente,
con
un’organizzazione
network
decentralizzata
o
distribuita.
Secondo
un’ottica
più
socio‐economica
evidenziata
da
Amin
e
Thrift,
il
distretto
è
una
località
stabile
e
una
forma
organizzativa
del
processo
produttivo
sociale
capace
di
soddisfare
quel
bisogno
d’integrazione
sociale
che
la
crisi
delle
appartenenze
di
classe
ha
lasciato
drammaticamente
scoperto.
Comune
a
tutte
le
espressioni
di
distretto
industriale
è
l’assunto
che
tutte
le
imprese
che
lo
formano,
siano
grandi
o
piccole,
e
i
lavoratori
autonomi
specializzati
sono
interagenti
sullo
stesso
piano
e
dipendenti
dall’andamento,
non
solo
della
congiuntura
mondiale,
ma
anche
del
funzionamento
(economico,
sociale
e
politico)
dell’organismo
socio‐territoriale
di
cui
fanno
parte.
Inoltre
si
evince
che
le
caratteristiche
alla
base
del
distretto
sono:
• la
circolazione
intensa
di
conoscenze
produttive
e
commerciali
che
si
realizza
nelle
concentrazioni
produttive
sul
territorio;
• lo
sviluppo
di
piccole
innovazioni
tra
i
produttori
locali;
• la
specializzazione
delle
imprese
in
fasi
diverse
della
catena;
21
• l’attenzione
posta
dai
produttori
ai
bisogni
speciali
dell’utilizzatore
(sia
questo
consumatore
o
trasformatore);
• la
condivisione
e
l’affermazione
di
un
microclima
culturale
definito,
quello
che
Marshall
indica
con
«atmosfera
industriale».
Il
distretto
industriale
esprime
la
possibilità,
per
una
concentrazione
di
numerose
e
piccole
imprese
specializzate,
di
organizzare
la
produzione
in
modo
efficiente,
analogamente
a
quanto
avviene
all’interno
di
uno
stabilimento.
Ciò
è
reso
possibile
dai
flussi
di
economie
esterne
che
si
generano
localmente
fra
le
imprese
e
che
derivano
dall’insieme
di
conoscenze,
valori,
comportamenti
tipici
e
istituzioni
attraverso
i
quali
la
società
locale
agisce
sull’organizzazione
della
produzione
(Becattini,
2000).
Il
distretto
ha
trovato
legittimazione
dalla
crisi
del
fordismo
e
dall’affermazione
di
un
nuovo
modello
di
industrializzazione:
ad
un
processo
produttivo
che
si
realizzava
attraverso
l’integrazione
ed
il
coordinamento
interno,
il
distretto
ha
contrapposto
un
modello
di
integrazione
e
coordinamento
esterno
delle
singole
unità
produttive.
Affermava,
poi,
il
paradigma
di
una
nuova
realtà
sociale,
spostando
l’attenzione
dall’impresa,
all’ambiente
socio‐territoriale
in
cui
operava,
ambiente
fatto
di
relazioni
tra
individui,
di
accumulo
e
scambio
di
conoscenza,
di
socializzazione
e
di
lavoro
personale.
Quindi,
la
spiegazione
del
sorgere
di
questi
agglomerati
di
imprese
nel
territorio
può
essere
affrontata
in
due
battute.
Una
prima
evidenzia
come
alcune
modifiche
della
domanda
finale
e
intermedia
ed
il
cambiamento
tecnologico
intercorsi
dagli
anni
settanta
alla
metà
degli
anni
novanta
hanno
spinto
le
grandi
imprese
verso
la
riduzione
dell’integrazione
verticale
a
favore
di
un
decentramento
di
molte
loro
fasi
produttive
a
nuove
unità
produttive,
formalmente
autonome,
ma
operativamente
reparti
distaccati
dell’impresa
decentrante.
Una
seconda
ritiene
di
pari
importanza,
per
il
fondamento
dei
distretti
e
la
rifioritura
delle
piccole
dimensioni
d’impresa,
le
economie
di
agglomerazione
1
e
di
localizzazione
2
.
Queste
due
strategie
spiegherebbero
l’addensarsi
1
Per
economia
di
agglomerazione
si
intendono
tutti
quei
vantaggi
di
ordine
economico
che
le
imprese
ottengono
da
una
localizzazione
concentrata,
prossima
ad
altre
attività:
riduzione
di
costi
di
produzione
per
dimensioni
di
impianto
elevate,
presenza
di
servizi
avanzati
e
specialistici,
presenza
di
infrastrutture
e
capitale
sociale,
presenza
di
manodopera
qualificata
e
di
conoscenze
manageriali
specializzate,
presenza
di
un
mercato
dei
beni
intermedi
specializzato
(forniture)(Costantini,
2010).
22
di
piccole
imprese
in
determinate
aree
geografiche,
peraltro
nel
rispetto
della
teoria
marshalliana
secondo
cui
le
economie
esterne
sono
in
gran
parte
connesse
con
grandi
gruppi
d’industrie
fra
cui
esiste
una
correlazione
(Marshall,
1919).
Altri
teorici
ci
aggiungono,
anche,
la
tendenza
di
numerosi
lavoratori
dipendenti
a
mettere
a
frutto
le
conoscenze
produttive
e
il
loro
knowhow
per
tentare
la
via
del
piccolo
business
(Becattini,
1998),
nonostante
questa
sia
una
spiegazione
più
legata
alla
fioritura
della
piccola
impresa
che
delle
imprese
distrettuali.
Alla
base
del
successo
delle
imprese
distrettuali
ci
sono
svariati
elementi,
tra
cui
il
risparmio
nei
costi
legato
alle
piccole
dimensioni,
l’elevata
flessibilità
dell’organizzazione
produttiva,
l’aumento
della
varietà
dei
prodotti,
la
ricercatezza
del
prodotto
singolo,
la
continua
capacità
di
innovazione
e
di
upgrading
(Tattara,
2001).
Nell’occhialeria
italiana
si
nota
però
l’importanza
delle
grandi
imprese,
che
sono
state
importanti
protagoniste
e
attori
decisivi
del
processo
di
sviluppo
del
distretto:
le
piccole
imprese
che
oggi
animano
ancora
il
territorio
sono
nate
dalla
grande
fabbrica
o
accanto
ad
essa
e
con
essa
hanno
mantenuto
una
fitta
rete
di
rapporti
economici.
Il
ruolo
della
grande
impresa
nel
creare
competenze
e
conoscenza
nel
distretto
non
deve
essere,
quindi,
trascurato
(Brusco,
1989),
nonostante
i
cambiamenti
subiti
negli
ultimi
anni.
L’entrata
in
queste
aziende
di
importanti
gruppi
societari
nazionali
o
internazionali
ha
probabilmente
affievolito
il
legame
col
territorio
ma
ha
dato
nuova
linfa
e
stimolo
imprenditoriale
di
cui
anche
il
distretto
ha
risentito
positivamente.
Nel
Veneto,
in
particolare,
i
distretti
industriali
hanno
da
sempre
visto
l’azienda
medio‐
grande
ben
radicata.
Assumono
quindi
grande
importanza
i
rapporti
che
si
instaurano
nel
tempo
tra
le
grandi
e
le
piccole
imprese:
negli
ultimi
anni
le
interconnessioni
produttive
si
sono
infittite,
dai
rapporti
di
scambio,
al
decentramento
delle
fasi
del
processo
produttivo
(Brusco
e
Paba,
1997).
Inoltre
molto
spesso
le
grandi
imprese
hanno
sollecitato
la
formazione
del
distretto,
facendo
da
incubatrici
per
le
piccole
imprese.
2
Le
economie
di
localizzazione,
esterne
all'impresa,
ma
interne
al
settore,
rappresentano
i
vantaggi
derivanti
dalla
prossimità
localizzativa
di
aziende
operanti
nel
medesimo
settore.
Questi
vantaggi
si
esprimono
attraverso
delle
"connessioni":
connessione
di
produzione;
connessione
di
servizio;
connessione
di
mercato
(La
Nave,
2010).