ABSTRACT
Il presente progetto parte da un'analisi molto personale di pellicole cinematografiche
da me selezionate, che vanno dagli anni ‘50 ad oggi, e dalle quali emerge il rapporto
inscindibile che ha sempre unito l’uomo al cibo: un legame poliedrico ed ancestrale
che inevitabilmente è stato sempre influenzato dai vari eventi politici, sociali e
culturali alla base della società.
Passando in rassegna materiale audiovisivo e pubblicitario, ho posto la mia
attenzione anche sulle nuove malattie legate all’alimentazione, i disturbi del
comportamento alimentare (DCA) , che con il tempo sono diventati oggetto di studio
non solo da parte della medicina ma anche di registi coraggiosi, che hanno realizzato
pellicole di forte intensità per risvegliare l’opinione pubblica su un argomento molto
delicato ma di grande importanza: parliamo di patologie sempre più diffuse
soprattutto tra gli adolescenti e che, se non affrontate nei giusti tempi, possono
perfino condurre alla morte.
Questo minuzioso lavoro di ricerca mi ha fatta giungere a quello che poi è diventato
il focus della mia tesi, incentrata sulla filosofia di Slow Food che da circa trent’anni
lavora per diffondere in tutto il mondo un’ideologia salutista del cibo basata sul motto
“buono, pulito e giusto”.
Alla base dell’associazione ritroviamo meccanismi che richiamano alla logica
aziendale con un’equa distribuzione dei ruoli interni; viene dato molta importanza
all’ editoria con pubblicazioni di Guide e Almanacchi; è stata fondata l’ Università
degli Studi di Scienze Gastronomiche per forgiare nuove figure professionali, tra cui
quella del gastronomo, che possiede conoscenze e competenze nell’ambito agro-
alimentare per lavorare nella produzione, distribuzione e consumo di cibo,
diventando testimone di scelte corrette e utili con lo scopo di creare un futuro
sostenibile per il pianeta. Per quanto riguarda la comunicazione, in genere le
campagne di Slow Food sono basate su un linguaggio molto semplice ma efficace,
proprio per giungere ad un pubblico sempre più vasto e sfaccettato; in più vengono
investite molte energie su progetti che riguardano la valorizzazione dei territori
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dell’idea di una cultura conviviale del cibo, con lo scopo di debellare il culto dei fast
food, che stravolgono negativamente le abitudini alimentari.
Tutti questi elementi sono lo specchio del leader di Slow Food, Carlo Petrini, che
con il suo carisma e ottime strategie comunicative è riuscito a dare vita ad una vera e
propria rivoluzione alimentare.
Tra i programmi più interessanti presi in analisi nel presente lavoro c’è “Orto in
Condotta”, ideato per le scuole d’infanzia e primarie per sensibilizzare le nuove
generazioni all’ amore per il proprio territorio e per il cibo sano, cercando così di
sconfiggere l’idea del nutrimento come arma distruttiva ed insegnando ai più giovani
ad alimentarsi con genuinità rispettando i ritmi della “terra madre”, imparando che il
cibo è un dono prezioso e per questo motivo non deve diventare elemento di
annichilimento fisico e psicologico.
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INTRODUZIONE
Pieno di valori, il cibo intesse sia il metaforico che l’immaginario.
Gli alimenti sono “cibo culturale” , sostentamento sia per la mente che per il palato,
significante di quello che si è, della propria identità e promotore di questa stessa
identità.
Scegliendo cosa mangiare si decide che tipo di persona si è, ed il gruppo sociale a cui
si appartiene influenzerà le diverse scelte alimentari.
E non c’è autore, da Cinecittà ad Hollywood, che non abbia girato, nella sua storia,
una scena importante di fronte ad una tavola o ad un fornello.
Non è una banale coincidenza il fatto che una delle prime immagini cinematografiche
sia quella di un infante che mangia la sua pappa: è da “Le repas de bébé”, opera dei
fratelli Lumiére nel lontano 1895, che si stabilisce tra uomo, cibo e cinema un legame
naturale e, al tempo stesso, tortuoso, spontaneo e saldo.
Un legame che, nel corso del tempo, darà vita a espressione realistiche, tragiche, a
situazioni comiche, stuzzicanti, bizzarre, strambe.
È chiaro come, fin dalle origini, il cinema ha mostrato gli atteggiamenti dell'uomo
alle prese con il cibo, con il mangiare, con la fame.
La tavola ed il gusto hanno raccontato l’Italia della povertà e della denutrizione:
hanno esaltato la cultura (non solo gastronomica) di un Paese in cui la cucina esprime
la sua capacità di essere luogo narrativo, dell’Italia genuina di un tempo e di quella
“da bere”, che ha distorto le tradizioni e la quotidianità familiare, trasformando lo
“slow” tradizionale in una gastronomia diventata una moda e un business all’ insegna
del fast food.
Il mio progetto di tesi nasce dalla fusione di queste due grandi passioni che hanno
caratterizzato la mia vita e che, nel loro legame indissolubile, hanno permesso di far
conoscere nel mondo due tra le più importanti tradizioni italiane.
Il mio “viaggio nel gusto” parte, nel primo capitolo, da un’analisi di alcune pellicole
realizzate tra gli anni ‘50 a ‘70, periodo in cui la fame del post guerra comincia a
scontrarsi con il “boom” sociale, economico, culturale, ed inevitabilmente,
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gastronomico: durante il secondo conflitto mondiale la ricerca di pane e di farina
rispondeva alle principali necessità di sopravvivere alla fame.
Attraverso lo schermo, la tessera per il pane, i sostituiti del caffè, il riso diventano
simboli di un’epoca, delineando una pagina di storia fatta di miseria e di
denutrizione.
L’eccitazione e l’ottimismo che si respira negli anni Cinquanta trova un’interessante
raffigurazione in alcuni film importanti, capaci di mettere in risalto le novità ma
anche le incoerenze del periodo.
L’Italia di quegli anni diventa specchio della cultura americana nel modo di vestire,
parlare, e anche di mangiare: latte, pop corn, yogurt , mostarda tentano di sostituire
gli alimenti della storia gastronomica nostrana. Un esempio su tutti è rappresentato
dal personaggi di Alberto Sordi nella pellicola “Un americano a Roma” (Steno,
1954): Nando è il simbolo per eccellenza dell’italiano affascinato dell’America, ma
intimamente legato alla sua identità nazionale e il conflitto che egli intraprende,
senza successo, con i “maccaroni”, coincide con la lotta contro il proprio essere
italiano, di cui la pasta diventa il simbolo.
Negli anni del boom c’è comunque ancora chi deve combattere con la fame: il
sottoproletariato. La sua storia infelice viene raccontata da Pier Paolo Pasolini
ne “La ricotta” (1963). Stracci, un povero costantemente avido di pane, viene
reclutato tra le comparse di un film, ma lui non pensa a nulla se non all’istante in cui
avrebbe messo le mani nel cestino della colazione, ma svariati eventi sul set
allontanano il momento, che infine si tramuterà in tragedia.
Gli anni Settanta rappresentano una rottura netta nei confronti del passato:
smarrimento, stanchezza e abbondanza contraddistinguono il rapporto degli italiani
con la vita e la storia, e quindi anche con il cibo.
La pellicola che più di tutte ha rappresentato questa fase è sicuramente “La grande
abbuffata” di Marco Ferrari, che nel 1973 realizza un gioiello del cinema
internazionale. Incurante di eccessi e di possibili censure, il regista non esiterà a
proporre sul grande schermo, attraverso i suoi personaggi, il male di vivere e
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l’impossibilità dell’ uomo di liberarsi da quella maschera che ognuno è costretto a
portare per sopravvivere in una società sempre più materialista, e dove l’unica via di
fuga è la morte, che Marcello, Michel, Ugo e Philippe raggiungeranno attraverso
l’abuso di cibo (Se non mangi non puoi morire), come a sottolineare che per placare il
dolore e l’insofferenza non c’ è bisogno di cercare la soluzione chissà quanto lontano
ma che essa è a portata di mano, appunto nel cibo, quell’elemento che per eccellenza
rappresenta la vita, proprio nella funzione di sostentamento, e che invece, nelle scene
di questo film, incarna la morte simbolica e concreta dell’ uomo.
Nel secondo capitolo il mio “viaggio nel sapore” si focalizzerà sull’analisi del
trentennio che va dagli anni ’70 ai ’90, dove si assiste alla contraddizione che il cibo
continua a delineare nella sua duplicità: da un lato si sviluppa il culto del corpo,
dell’ apparire, della necessità di essere “perfetti” , accompagnato dall’uso di alimenti
integrali e dall’avvento di palestre e beauty farm, dall’altro si diffonderà una nuova
ideologia del nutrimento, dall’America arriveranno i fast food, che permetteranno
agli italiani di conoscere un nuovo modo di mangiare che risulterà essere, per molti
aspetti, distruttivo.
Anche in questo caso in cinema non resterà a guardare questo cambiamento, infatti
verranno realizzate pellicole che sottolineeranno questa metamorfosi: e mentre Luca
Verdone in “Sette chili in sette giorni” ci presenterà in chiave ironica il sacrificio di
persone che faranno di tutto per poter dimagrire, affidandosi perfino a due ciarlatani,
dall’ altra la comicità di Paolo Villaggio nel film “Fantozzi contro tutti” farà riflettere
sull’inutilità di aggiungere altro stress alla vita dettato da canoni estetici, che non
avevano mai avuto, fino a quegli anni, un peso così rilevante nella vita delle persone
ma che contribuiranno ad accentuare l’ alienazione dell’ uomo di quel tempo.
Ho considerato doveroso dedicare un’ ampia parentesi allo studio della pellicola di
Gabriel Axel “Il pranzo di Babette”, perché il regista con cura e delicatezza ci
presenta una lettura religiosa del cibo, che ha il potere di eliminare la distinzione tra
l’appetito del corpo e della mente, facendolo ritornare ad essere elemento cardine
della convivialità.
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Altri cambiamenti significativi avvengono negli anni Novanta, contrassegnati da
complicazioni e confusioni nella vita sociale e, ovviamente, anche nel rapporto con la
tavola. Il terrore di mangiare è logorante quanto quello di non farlo: il rifiuto di
nutrirsi si scontra con l’abbandonarsi senza freni al desiderio della gola.
È proprio questo passaggio che mi conduce direttamente al terzo capitolo di questo
lavoro, in cui analizzo (sempre attraverso strumenti audiovisivi ed il web) il cibo
come arma di “distruzione”.
La fine degli anni ‘80 sono stati caratterizzati dal boom dei fast food, della
standardizzazione del gusto, i McD diventano ambasciatori dell'impero americano,
flagello delle tradizioni culinarie di tutto il globo: e mentre si assisteva anche in
Italia all’ascesa della diabolica multinazionale del panino, contemporaneamente si
diffondeva il culto dell’ apparire più dell’essere, il narcisismo reale e virtuale , la
necessità di riuscire ad imitare gli stereotipi pubblicizzati dalla televisione, dai
giornali, ed in seguito dal web.
Proprio prendendo spunto da tutti questi elementi, Morgan Spurlok realizzerà un
docu-film nel quale si sottoporrà, in prima persona, ad un vero e proprio esperimento
di distruzione del proprio corpo attraverso un’alimentazione basata per un mese solo
ed esclusivamente sul cibo spazzatura del McD, per arrivare a dimostrare come
bisogna evitare l’ abuso di tali alimenti e cercare di trovare appagamento in
un’ alimentazione decisamente molto più genuina basata su carne, frutta, verdura.
Cercare così di riscoprire una genuinità che si sta perdendo dietro alla
globalizzazione del cibo, questo è il cardine su cui invece ruotano “Il pranzo di
Ferragosto” e “La cuoca del Presidente”, dove la ritrovata convivialità dei
protagonisti si sposa con la passione e la bontà di alimenti che portano con se ancora
il profumo delle loro terre d’origine.
Nel terzo capitolo ho dato ampio spazio a quelle malattie alimentari che con gli anni
si sono diffuse in primis tra gli adolescenti, ma che possono colpire individui di
qualsiasi età: anoressia, bulimia, fame nervosa, obesità, disturbi alimentari in cui il
cibo viene rifiutato, come del resto la stessa vita, o diventa uno posto dove rifugiarsi
di fronte all’inadeguatezza e al malessere.
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I personaggi di alcuni film del nuovo millennio presentano queste patologie: basta
citare “Briciole" (Ilaria Cirino, 2005), ispirato all'omonimo libro di Alessandra
Arachi, dove è ben descritto il dramma dell'annullamento dei desideri e della vita,
oltre a tutte le ossessioni legate al peso, alla bilancia, all’azione del vomito, ed al
dramma di una famiglia lacerata da una patologia in apparenza incomprensibile.
Per non parlare della diffusione a macchia d’olio di siti “pro-ana” :piattaforme web
con suggerimenti su come dimagrire rinunciando quasi completamente al nutrimento
e che dispensano consigli su come combattere la fame,correlati il più delle volte con
immagini di donne ridotte pelle e ossa che però vengono identificate come “nuove
icone” da seguire ed imitare, o dov’è possibile trovare forum in cui ci si scambia
consigli su come riuscire a non perdere di vista l’obiettivo del dimagrimento
malsano, spronandosi vicendevolmente anche semplicemente raccontando la propria
esperienza. Toccante è stata anche la visione del documentario “Ciò che mi nutre mi
distrugge”, in cui vengono presentate le storie di quattro ragazze affette da disturbi
alimentari durante il loro percorso di guarigione in un centro specializzato, in cui per
circa un’ anno verranno seguite da esperti in questo campo.
Mentre a cavallo del nuovo millennio dilaga lo smarrimento dell’identità individuale
e territoriale, in Italia c’è qualcuno che non resta a guardare la perdita sempre più
dilagante del vero valore del cibo,che sente la necessità di recuperare le tradizioni
gastronomiche inizialmente locali, per poi lentamente ma con forza allargare questo
ideale al mondo intero, realizzando con determinazione una vera e propria filosofia
che va completamente controcorrente rispetto a quella in auge nei nostri anni.
La risposta all’imbarbarimento della tavola inizia a dare i suoi frutti migliori, diventa
sempre più forte il bisogno di riappropriarsi di beni gastronomici dimenticati: il
desiderio di rispettare la stagionalità dei prodotti della terra, di consumare lentamente
cibo, porta alla nascita, nella città di Bra, dell’ associazione “Gli amici del Barolo”
nel 1983, primo nucleo di quello che diventerà nel 1986 la “Lega Arcigola” e che, di
lì a breve, prenderà il nome di Slow Food, grazie alla mente e alla volontà del suo
carismatico leader Carlo Petrini.
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Ed è a questa associazione internazionale, impegnata a ridare il giusto valore al cibo,
che ho dedicato il quarto capitolo della tesi: ripercorrerò le sue tappe più importanti,
la sua evoluzione, dalla nascita dei Presidi in tutto il mondo al progetto “Terra
Madre” fino a giungere al Salone internazionale del Gusto.
La mia attenzione sarà posta anche sull’ aspetto comunicativo delle sue campagne e
dei progetti di sensibilizzazione, sull’ impatto che il linguaggio utilizzato riesce ad
avere sui sostenitori e non solo, sulla volontà di portare avanti il “buono, pulito e
giusto” attraverso tutti gli strumenti possibili, esaltando l’importanza dell’educazione
alimentare, della biodiversità, della possibilità di salvare il pianeta praticando il
piacere.
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