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Nella mia esperienza, svicolando tra ossessioni di simmetria,
formalismi e sindromi da aggettivazione compulsiva, ho cercato di
raggiungere questo scopo, e per farlo mi è stato indispensabile
richiamare alla mente e alla scrittura i saperi capitalizzati in questi
anni; nozioni, teorie e formulazioni assimilate durante gli studi si sono
tramutate in strumenti analitici irrinunciabili.
Assecondando una personale debolezza per la teoria
pubblicitaria, allora, ho cercato di mettere in opera le categorie
interpretative delle scienze delle comunicazione, quelle stesse che più
volte, in questi anni, mi hanno rivelato l'esistenza di universi di senso
non sempre accessibili per i laici della materia.
Anche per questa ragione ho scelto la sinestesia come ambito
retorico di riferimento, nell'intenzione di mettere in risalto, insieme al
carattere specifico dell'oggetto di ricerca, questa acquisita sensibilità
addizionale, questo sesto senso comunicativo che in combinazione con
gli altri ritengo essere il risultato più appagante della mia formazione.
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CAPITOLO PRIMO
IL VIDEOCLIP: LO SPOT PERFETTO.
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Premessa.
A differenza della gran parte degli altri scritti che si sono
occupati specificamente del videoclip musicale, questa trattazione non
assumerà come punto di partenza una precisa definizione del proprio
oggetto di studio, puntando invece a ricostruire i percorsi che hanno
reso questo prodotto interessante ai fini della nostra ricerca. Pertanto,
l'intento di rintracciare una nuova formula che renda pienamente le
attuali connotazioni del video sarà subordinato all'assunzione di un
nuovo approccio.
Intendiamo cioè sciogliere la ricerca di una definizione lungo
una prospettiva concettuale diversa dalla precedenti, tesa a superare la
dimensione un po' manichea entro la quale le analisi sul video sono
state condotte fino a questo momento, che ha visto contrapporsi due
precisi orientamenti: l'uno, prevalente nella prima fase degli studi sul
videoclip, improntato allo scetticismo nei confronti di un oggetto dalle
origini ibride e la cui vocazione commerciale non poteva che
comprometterne la qualità, nonché il destino; l'altro, più recente, che
alla luce delle evoluzioni estetiche e di un'affermazione non più
discutibile di questo prodotto ne recupera il valore artistico,
esplorandone le caratteristiche espressive.
Dei termini di questo dibattito tratteremo opportunamente più
avanti, ma ciò che ora si vuole sottolineare è la volontà di andare oltre
questa opposizione, proprio attraverso la chiave di lettura che entrambi
questi approcci, per motivi diversi, rigettano: quella promozionale.
Lontano dalla posizione di chi vede nelle sue intenzioni commerciali
uno svilimento della forma, questo lavoro si propone invece di
avvicinarsi al suo oggetto proprio secondo questa logica. Per questa
ragione appare prioritario rispetto a qualsiasi definizione fare il punto
sul contesto all'interno del quale il videoclip si colloca come mezzo
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promozionale, per comprendere al meglio la sua portata innovativa e la
sua forza pubblicitaria.
Questa strada non può essere intrapresa se non partendo da una
panoramica sulle condizioni del mercato che ha generato il prodotto
videoclip, e sull'evoluzione di questo rapporto nella direzione della
centralità che esso ha assunto nelle strategie commerciali dell'industria
discografica.
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I.1. La produzione discografica e la seconda dimensione della
musica.
Ricostruire nel dettaglio l'insieme degli elementi che hanno dato
luogo alla nascita del mercato discografico e dell'industria ad esso
collegata è un'operazione laboriosa, che includerebbe la disamina di un
arco di tempo molto vasto, praticamente un intero secolo. Pur senza
tralasciare l'importanza degli avvenimenti che hanno condotto questo
mercato alla sua attuale struttura, la nostra attenzione si concentrerà
sugli ultimi venticinque anni circa, a partire dal momento in cui
l'interazione tra musica e immagine si è quasi interamente sovrapposta
all'asse musica-tv, di cui il videoclip è l'espressione più diretta.
Come giustamente riportato da Gianni Sibilla
1
, lo sviluppo del
mercato discografico è diretta conseguenza dello sviluppo delle
tecnologie di produzione, riproduzione e diffusione mediale della
musica. Così, l'invenzione del fonografo ad opera di Thomas Edison
nel 1877, prima, e poi del 78 giri con i suoi immediati successori,
trasferiranno la musica all'interno di un contesto per l'appunto
industriale, rendendola prodotto nel senso commerciale del termine, e
quindi fruibile e riproducibile attraverso una griglia di condizionamenti
dettati dal contesto economico in cui essa si colloca.
Già negli anni Venti, questo mercato può dirsi consolidato:
negli Stati Uniti oltre 100 milioni di dischi vengono venduti, mentre
sempre in America, negli stessi anni nasce la prima stazione
radiofonica musicale regolare.
Da questo momento in poi, come ogni altro settore economico,
l'industria discografica conoscerà fasi di crescita alternate a fasi di
profonda crisi, ma già negli anni Trenta risulteranno consolidati i
1
SIBILLA G., I linguaggi della musica pop, Milano 2003.
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criteri di successo di questo mercato, quelli tuttora validi (vicino ad
altri): le vendite e l'airplay radiofonico.
Negli anni Cinquanta, arriverà poi la seconda svolta, forse la più
importante nel conferire alla musica il carattere di vera e propria
merce: la nascita del rock 'n' roll, e della musica pop in senso moderno.
È in questa fase che il mercato assume i connotati che ancora oggi lo
distinguono e si afferma lo strapotere di alcune grandi compagnie sulla
base della proprietà dei mezzi di produzione e distribuzione del disco.
Così quel carattere artigianale che ancora contraddistingueva
l'universo musicale negli anni di Tin Pan Alley si dissolve in un
contesto ormai del tutto industriale, in cui l'unità di misura non è più la
canzone ma il disco, con tutto ciò che questo comporta sotto il profilo
dell'organizzazione produttiva e della gestione economica. La logica si
rovescia, le esigenze della produzione discografica si impongono
anche e soprattutto sulle modalità di fruizione musicale; pur
mantenendo la sua importanza, la performance dal vivo non può che
subire le conseguenze di questa inversione dei processi: la radio,
infatti, sembra divenire la destinazione naturale dei prodotti musicali,
tanto da condizionarne il formato, nonché il canale pubblicitario più
importante.
Un mercato in espansione, dunque, che apre la strada a un
susseguirsi di innovazioni tecnologiche fondamentali per il settore, che
contribuiranno a consolidarne l'industrializzazione insieme all'assetto
inevitabilmente oligopolistico: le cosiddette major, le multinazionali
del disco, costituiscono dei veri e propri colossi economici che
controllano tra il 70 e l'80 per cento del mercato mondiale e non
mancano di influenzarne la quota residua attraverso le relazioni con le
indies, le etichette indipendenti. Non di rado accade infatti che major e
indies stringano accordi (distribuzione o promozione in cambio di una
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parte di diritti sulle vendite) fino ai casi di inglobamento da parte delle
major delle piccole etichette con i cataloghi più ricchi.
Sony, BMG, Warner, Universal, Capitol/EMI, le cosiddette
"cinque grandi sorelle", risultato di fusioni e acquisizioni durate un
secolo e che hanno coinvolto l'intero mercato mondiale rappresentano
oggi la struttura portante dell'industria discografica, ai margini della
quale operano le etichette indipendenti contrapponendo al carattere
commerciale della musica pop una vocazione autonomista,
stilisticamente pura e artisticamente libera (anche nei casi citati di
rapporti economici con le major).
Questo, dunque, il quadro complessivo. Ma c'è un dato che è
indispensabile esplicitare ai fini della nostra ricerca: le stesse
multinazionali del disco sono emanazioni di multinazionali più grandi,
generalmente della comunicazione o dell'editoria. È questo un aspetto
essenziale nella comprensione del loro modus operandi: anzitutto,
l'aggressività promozionale che le contraddistingue discende
direttamente dalla consolidata knowledge delle case madri. Non solo:
il DNA delle case discografiche è alla base di quello slancio
intermediale che vedrà le strategie pubblicitarie del settore spaziare
alla ricerca di nuovi strumenti.
D'altro canto, dal boom economico in poi la strada del business
musicale appare lastricata di occasioni di innovazione e sviluppo: sul
versante tecnico, i supporti si evolvono e si raffinano, nasce l'Hi-Fi ; su
quello commerciale, mentre si consolida il ruolo della radio come
canale privilegiato per la diffusione dei prodotti musicali, nuovi spazi
promozionali si aprono per le case discografiche, e con essi nuove
modalità di costruzione del prodotto: arriva l'icona pop, sull’onda
dell’affermazione prepotente e irreversibile del mezzo televisivo (non
potrebbe essere diversamente).
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Sulla nascita e i percorsi dell’icona pop torneremo diffusamente
più avanti. In questa sede rivolgeremo l’attenzione all’origine e
all’evoluzione del fruttuoso sodalizio tra musica e immagine, e ai
passaggi chiave attraverso i quali i contenuti musicali acquisiscono
uno spazio visuale, la seconda dimensione appunto.
Sebbene infatti oggi appaia scontato indicare la videomusica
come la forma espressiva più immediata di questo rapporto, essa non
ne costituisce il primo risultato, anzi. Nelle fasi di massima
espansione, quando il consolidamento del mercato spinge i suoi attori
alla ricerca di vie promozionali alternative e più potenti rispetto al solo
airplay radiofonico e alle esibizioni dal vivo, gli sforzi dell’industria
musicale si spostano dal prodotto a tutto ciò che lo circonda in termini
di pubblicità, e in questa logica la tv offre sicuramente possibilità
senza precedenti.
Questo avviene negli anni Cinquanta, quando il mito di Elvis si
costruisce sulle sue canzoni quanto sulla sua visibilità in senso fisico e
mediale e la star della musica diviene una sorta di patrimonio di tutti i
media, moltiplicando la sua presenza attraverso di essi, e questo stesso
intento sottende a tutte quelle formule promozionali basate
sull’audiovisivo che possiamo considerare a pieno titolo antesignane
del videoclip moderno. Nei quasi tre decenni tra l’esplosione del pop
in senso moderno e l’avvento del clip con il suo posizionamento al
centro delle strategie promozionali possiamo dunque rintracciare una
vera e propria linea evolutiva, un percorso fatto di sperimentazioni
commerciali e tecniche che sembra tendere a quella sintesi ideale tra
musica e immagine - almeno sotto il profilo promozionale - che è oggi
il video.
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Bruno Di Marino
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indica tre principali antenati del videoclip: i
soundie, diffusi negli Usa a cavallo tra gli anni Quaranta e gli anni
Cinquanta, erano film di tre minuti che mostravano performance
musicali attraverso il panorama soundie, un primordiale videojuke-box
collocato nei night. I brani erano abbinati a piccole storie che potevano
o meno essere associate ad essi; ma la fruizione, per le dimensioni del
supporto e per le imprecisioni della proiezione, risultava piuttosto
problematica. Gli scopitone, successivamente, furono una sorta di
recupero in technicolor dell’idea dei soundie, stavolta però in terra
francese; lanciati nel 1964 restarono in voga per qualche anno
diffondendosi prevalentemente in Europa. Infine, le esibizioni dei
cantanti per show televisivi degli anni Sessanta come la popolare
Ready Steady Go!, soprattutto in Gran Bretagna, favorirono il processo
di affermazione della musica come oggetto anche televisivo aprendo
così la strada al videoclip.
Infatti, l’inizio di questo formato risale proprio alla metà degli
anni Sessanta, e ha come luogo di nascita proprio il Regno Unito. Si
trattava di un periodo contraddistinto da una particolare vivacità
musicale, che non sempre trovava spazio nella programmazione
radiofonica. A Ready Steady Go! seguirono altri programmi come Top
of the Pops e Oh Boy che raccoglievano la crescente domanda di
musica in tv ed erano basati sullo stesso schema: ogni settimana alcune
tra le più famose pop band si esibivano con i loro successi. D’altra
parte, i grandi protagonisti della musica di allora come i Beatles o gli
Stones, raramente potevano partecipare alle trasmissioni; le case
discografiche trovarono allora una soluzione inviando alle tv delle
registrazioni video delle band da mostrare al posto delle esibizioni live.
Si trattava di video molto semplici, perlopiù riprese di performance
eseguite in playback, che tuttavia convincevano sia gli show televisivi
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DI MARINO B., Clip - vent’anni di musica in video: 1981-2001, Roma 2001.
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sia le case discografiche: con budget molto bassi avevano a loro
disposizione uno strumento promozionale di sicuro richiamo. Ciò
nondimeno, l’esistenza di questo nuovo mezzo restava legata al ruolo
di sostituto della presenza dal vivo delle band; la svolta decisiva venne
solo alcuni anni dopo, precisamente nel 1975, anno in cui i Queen
commissionarono al giovane regista Bruce Gowers la realizzazione del
promo clip per il loro singolo Bohemian Rhapsody. Nel video,
immagini live si alternano a effetti visivi realizzati prendendo
ispirazione dagli effetti vocali del brano, il tutto unito in un montaggio
dal ritmo serrato. Il pezzo entra in classifica al numero 30; dopo una
sola settimana di programmazione su Top of the Pops scala le
posizioni fino alla Top Five dove resterà per dodici settimane. Un
risultato che l’industria discografica non può trascurare.
L’era del videoclip è cominciata.