origini sia per rendere giustizia a tutti gli altri primati, il cui studio risente di pregiudizi
secolari legati proprio alla nostra “pericolosa” somiglianza. Chiaramente lo studio del
comportamento animale è un campo di studi vastissimo, e le antropomorfe in particolare
sono un oggetto di studio particolarmente complesso che non a caso attira svariate
discipline, dall'etologia fino alla psicologia. Per tale motivo questa tesi si focalizzerà
solo su un aspetto particolare del loro comportamento, su una serie di abilità
significative sì della loro prossimità con noi esseri umani (e quindi interessanti per
quanto riguarda le nostre origini) ma anche importanti qualora si voglia capire qualcosa
della loro complessa psicologia: le modalità di utilizzo e trasmissione culturale di
strumenti.
Personalmente credo che nella Storia della Scienza convivano due anime distinte ma
intrinsecamente legate tra loro, ovvero due linguaggi e due modalità di affrontare le
questioni: da un lato c'è il racconto del dipanarsi degli studi, del succedersi delle
diatribe, insomma la narrazione di quell'impresa collettiva che è la Scienza, dall'altro
lato c'è la divulgazione, la traduzione, ma non la banalizzazione, per un lettore non
addetto ai lavori di tutto ciò che quell'impresa collettiva ha prodotto. In questo lavoro ho
cercato di mantenere, alternandoli, entrambi gli atteggiamenti, cercando di raccontare
sia il punto di partenza e il lungo percorso sia il punto di arrivo, senza dimenticare uno
degli aspetti più interessanti nello studiare lo sviluppo delle scienze: il cercare di capire
come nasca e cosa guidi la ricerca scientifica. Da ultimo, ho cercato di dare conto anche
del clima culturale più complessivo e della maniera in cui questo ha inevitabilmente
condizionato gli studi sulle scimmie antropomorfe nel secolo appena trascorso.
Per poter sviscerare appieno quest'ultimo punto, ovvero l'influsso del contesto culturale
che nello studio sulle antropomorfe ha avuto e ha tutt'ora un peso notevole e richiede
quindi un attenzione forse maggiore che in altri campi dell'impresa scientifica, si è reso
necessario un capitolo tutto dedicato a raccontare la parabola che le scimmie in
generale, ma anche tutti gli altri soggetti “ambigui” come gli uomini primitivi, hanno
percorso nell'immaginario collettivo prima ancora che scientifico. Il primo capitolo di
questa tesi, quindi, racconta in breve una storia che comincia alla fine del
diciassettesimo secolo e “finisce”, o meglio affronta un importante spartiacque, intorno
5
al 1960 con i primi studi di lunga durata svolti in natura sui nostri parenti prossimi
evolutivi. È proprio in questo periodo difatti che viene scoperta l'importanza che per le
scimmie antropomorfe ha l'utilizzo di strumenti, e da qui parte il racconto vero e proprio
dell'oggetto di questo lavoro. I capitoli successivi non seguono un ordine strettamente
cronologico, tuttavia raccontano due orientamenti di ricerca comparsi in pratica l'uno di
seguito all'altro.
Nel secondo capitolo verranno dapprima raccontati quei fatidici primi anni, cercando sia
di parlare degli uomini e delle donne che hanno compiuto le prime importanti scoperte
sia della maniera in cui due scuole di pensiero, quella giapponese e quella occidentale,
sono venute a contatto. Andando avanti col capitolo, però, la parte divulgativa prenderà
uno spazio sempre maggiore e la prospettiva diacronica verrà abbandonata a favore di
una trattazione più ordinata e comprensibile dei risultati raggiunti anche in anni
recentissimi. Dapprima verrà fatta un po' di chiarezza terminologica per quanto riguarda
strumenti e tecnologia, quindi si passerà a esaminare in dettaglio che cosa significa
parlare di questo genere di cose per quanto riguarda le scimmie antropomorfe, non solo
elencando i vari comportamenti ma analizzandone anche le implicazioni.
Il terzo capitolo tratterà invece dell'aspetto più affascinante della tecnologia esibita dalle
scimmie antropomorfe: come anche altri schemi comportamentali, questa viene
tramandata di generazione in generazione, dando luogo a varianti locali e
presumibilmente “evolvendo” nel tempo. Un piccolo viaggio tra i macachi giapponesi
dell'isoletta di Koshima servirà da antefatto, e dopo aver chiarito cosa si intende per
cultura in senso naturalistico apparirà spero più chiaro come questo termine si possa
usare con disinvoltura se riferito a degli animali. La parte più voluminosa del capitolo
sarà riservata anche in questo caso alla divulgazione, ovvero a spiegare quali
comportamenti esibiti dalle scimmie antropomorfe siano considerabili culturali e a
raccontare tramite alcuni esempi quali meccanismi siano in atto nella trasmissione dei
comportamenti. Alcune questioni rimarranno aperte, come è aperto il dibattito
scientifico odierno, e per correttezza renderò ben chiara quale sia la mia opinione in
merito, pur se va tenuto ben presente come non sia che una delle svariate possibili.
Come sarà ben chiaro lungo tutta la tesi, l'ombra lunga che questo ambito di studi
6
proietta va ben oltre il campo dell'etologia e sconfina abbondantemente sia nello studio
delle nostre origini sia nella determinazione del nostro posto nel mondo naturale. Da
sempre, nonostante le continue “rivoluzioni” che non solo la scienza ma anche i grandi
viaggiatori hanno portato nel pensiero occidentale, l'uomo ha ritagliato per sé stesso un
posto speciale nell'ordine delle cose, quando non se ne sia volutamente e
arrogantemente distaccato: è per questo motivo che lo studio delle scimmie, e
principalmente del loro comportamento e delle loro abilità cognitive, è stato tanto e
spesso “inconsciamente” ostacolato, proprio perché è uno dei maggiori candidati a far
vacillare e infine crollare quella muraglia che l'uomo ha eretto a segnare il confine tra
lui e gli altri animali. Studiando questi animali si è scoperto, man mano, che tante
caratteristiche che si ritenevano prettamente umane hanno in realtà solide radici nei
nostri parenti evolutivi, e che nessun fossato è stato saltato in tempi recenti da qualche
nostro antenato già umanoide; è successo semmai che qualche strada iniziata prima che
comparisse una qualsiasi specie che potremmo dire “umana” è stata poi percorsa fino a
raggiungere mete più lontane.
Non si tratta di ignorare le eccellenze umane a favore delle somiglianze con le scimmie
antropomorfe, ma di riconsiderare alcune capacità fino a qualche tempo fa ritenute
un'esclusiva della nostra specie e abbattere finalmente quella muraglia di confine; non
per crederci scimmie antropomorfe, ma per riprendere il nostro posto accanto a loro e in
mezzo a tutti gli altri esseri viventi. Un ramoscello come gli altri, e diverso dagli altri
nella misura in cui tutti lo sono tra loro, nello sconfinato e variegato cespuglio della
Vita.
7
CAP. 1 QUASI UMANI, PURTROPPO
1.1 Prologo
“Seduto a gambe incrociate alla fresca ombra di un albero di baobab, un giovane uomo
di qualche era ormai passata armeggia con un sasso e una noce. La stagione in cui è
facile cibarsi di frutta è appena passata, e sugli alberi è sempre più difficile trovare del
cibo che non richieda grandi sforzi per essere aperto, come queste noci dal guscio duro.
Inizialmente prova a battere il sasso sulla noce posata a terra, per poi spazientirsi e
batterli l'uno contro l'altro con rabbia; ancora nessun risultato. Quando già sta per
gettare la spugna ecco che l'uomo riprova a battere col sasso sulla noce, questa volta
appoggiandola su un altro sasso: finalmente, dopo qualche colpo ben assestato, la noce
si apre e rivela il suo energetico pasto; in quel preciso momento l'uomo impara a
sfruttare il mondo che lo circonda in un modo nuovo,più efficace, e aggiunge un nuovo
comportamento al suo repertorio: da ora in avanti sopravvivere sarà un po' meno
difficile.”
La storiella, ovviamente inventata e non necessariamente realistica, serve a illustrare
uno dei punti chiave che è bene chiarire prima di tracciare la storia di come e quando si
siano scoperte le, per certi versi straordinarie, capacità tecnologiche dei primati1. Difatti,
una semplice sostituzione del termine “uomo” col termine “scimmia” rende già meno
probabile che qualcuno la prenda per plausibile, o quantomeno la rende più difficile da
accettare. Se poi la si continua, ad esempio, raccontando che:
“Nei giorni successivi, mentre gli altri uomini girovagano in cerca di qualche bacca o di
un piccolo mammifero da stanare, l'uomo si dedica con impegno all'apertura delle noci,
che perfeziona man mano. Attirati dal gran baccano, altri uomini assistono allo
1 Questa tesi si focalizza sui primati per una serie di motivi in parte già ricordati nell'introduzione,
tuttavia il comportamento di utilizzo di arnesi è (se pure un paragone sia complicato e meritevole di
ben più di questa nota) ampiamente attestato in svariati altri ordini e generi. Per un catalogo ancora
molto valido seppur datato a qualche decennio fa si veda Beck (1986), in bibliografia.
8
spettacolo e dopo qualche attimo di sgomento alcuni cominciano a provare a fare la
stessa cosa, dapprima i giovani della stessa età e poi, giorno dopo giorno, anche il resto
del gruppo. Non passa molto tempo che tutti o quasi padroneggiano il nuovo
comportamento, che negli anni a venire sarà esportato in nuovi gruppi dove si
modificherà un poco, dando luogo a modi diversi di affrontare il problema delle noci
che differenzieranno la specie in popolazioni di individui uguali per aspetto ma diversi
per comportamento: le prime culture.”
A questo punto, e specialmente alla parola “culture”, la sostituzione uomoscimmia non
sembra davvero più possibile. Eppure, cosa ci ostacola? Fino a che punto il concetto di
confine uomoscimmia (caso particolare del più ampio concetto di confine uomo
animale) è stato davvero superato dall'uomo, quantomeno da quello che cresce
all'interno della cultura occidentale e di tutte quelle che hanno risentito dell'incontro
scontro con essa? Prima di addentrarci sul terreno spinoso della consistenza di questo
confine, è bene ricordare brevemente come si è formato, chi lo ha eretto e chi ha dato i
primi colpi di martello e aperto i primi spiragli. Non va dimenticato in questo processo
nessuno dei due lati della barricata, poiché se da un lato la questione del posto che
l'uomo riveste nella natura è sempre stata spinosa, dall'altro quella del posto della
scimmia, e specialmente delle scimmie antropomorfe, ha risentito fortemente di questa
difficoltà di approccio. Inoltre, di pari passo con le difficoltà ad accettare un certo grado
sempre maggiore di prossimità tra l'uomo e le scimmie antropomorfe è andato dapprima
un certo ritardo nel considerare degne di nota le somiglianze comportamentali e le
capacità cognitive, tecnologiche e culturali, e in seguito una solida tendenza a
malinterpretarle, usando una parsimonia eccessiva e, evidentemente, sospetta. Proprio
nell'ottica di comprendere il perché di questa parsimonia si inquadra questo primo
capitolo, che servirà a dare al lettore qualche nozione fondamentale per capire le
difficoltà nelle quali si è dibattuta la primatologia nel periodo di cui si parlerà nei
prossimi capitoli, che va dagli anni dei primi studi sul campo di lunga durata dopo il
1960 a quelli più recenti. È bene ricordare che questa tesi tratterà soltanto delle capacità
tecnologiche e culturali, pertanto anche un'introduzione di questo tipo si deve situare in
9
tale prospettiva, fermo restando che dispone anche di un valore più generale .
A titolo di breve sommario, in questo capitolo si partirà dalla comparsa delle scimmie
antropomorfe nel dibattito scientifico per arrivare agli esperimenti di Wolfgang Köhler,
uno dei primi nel 900 a intuire le grandi potenzialità di questi animali e a volerne testare
approfonditamente gli eventuali limiti. In mezzo a questi due punti di partenza e d'arrivo
vi è una dinamica storica complessa, comprendente ad esempio la scoperta dei primi
ominidi fossili e l'impatto che ebbero sull'immaginario collettivo degli studiosi
dell'epoca, che verrà qui riassunta per sommi capi con l'intento di rendere conto al
lettore di quello che era lo “stato dell'arte” partendo dal quale i primi ricercatori e le
prime ricercatrici sul campo si trovarono a lavorare e allo stesso tempo del clima
culturale nel quale le loro scoperte si trovarono a dover essere accolte.
1.2 Comparsa, ascesa e declino delle antropomorfe in Europa
È durante la prima metà del XVII secolo che i confusi e pittoreschi racconti che i
marinai narravano su uomini selvaggi simili a bestie che si diceva abitassero le foreste
remote cominciano a prendere forma concreta, sbarcando fisicamente sulle coste
europee e in particolare in Inghilterra e in Olanda, due nazioni che non a caso avevano
frequenti commerci con le Indie Orientali e con l'Africa. I primi esemplari furono
perlopiù individui giovani (e quindi più resistenti a un lungo viaggio per mare oltre che
più facili da catturare) e facevano parte di due generi soltanto, ovvero oranghi e
scimpanzé2 (di entrambe le specie, scimpanzé comuni e bonobo), e vennero considerati
per lungo tempo appartenenti a una sola specie. L'impatto che creature del genere
devono aver avuto in chi le vedeva la prima volta deve essere stato notevole, se i
fantasiosi resoconti delle abilità di questi animali arrivavano a comprendere ad esempio
la capacità di parlare che, si raccontava, non esercitavano solo per pigrizia in quanto
2
Il gorilla, se pur già avvistato da viaggiatori come Andrew Battel, verrà descritto e denominato
ufficialmente come Troglodytes gorilla solo nel 1847 (oggi il nome è cambiato e sono inoltre
conosciute due specie di gorilla: Gorilla gorilla e Gorilla beringei). Il gibbone farà invece la sua
comparsa negli avvistamenti tra il 1766 e il 1768.
10
non volevano che fosse chiesto loro di lavorare3; animali così simili all'uomo dovevano
assomigliargli anche nelle abitudini e nelle capacità, o perlomeno questo è quello che
devono aver inconsciamente creduto i primi che vi si imbattevano, specie se estranei al
mondo degli scienziati naturali o addirittura semplici e ingenui marinai. Invero, alcune
di queste antropomorfe dimostrarono effettivamente capacità inconsuete quantomeno
per degli animali, tanto che anche precedentemente alle prime descrizioni scientifiche
suscitarono un clamore e un interesse notevoli.
Finalmente, nel 1641 viene pubblicata la prima descrizione da parte di uno scienziato, il
medico olandese Nicolaas Tulp, di quello che oggi si ritiene fosse stato uno scimpanzé o
un bonobo proveniente dal serraglio dello statolder Frederic Henry, principe d'Orange.
Un medico olandese di ritorno dalle Indie Orientali aveva riferito che il nome dato dalla
popolazione indigena all'antropomorfa locale (ovvero l'orango, e non lo scimpanzé che
invece abita l'Africa tropicale; questo confusione tra le specie di scimmie antropomorfe
sarebbe stata comune per qualche decennio ancora) era “ourangoutang”, traducibile
come “uomo dei boschi”, e in seguito Tulp fu il primo in Europa a usare questo nome
per indicare generalmente le antropomorfe. L'esame condotto da Tulp e le conclusioni a
cui arrivò furono probabilmente viziati da una serie di elementi contingenti, ovvero il
fatto che l'esemplare fosse molto giovane e quindi più simile a un uomo di quanto non lo
sia uno adulto4 e i resoconti fantasiosi di cui si è già detto, ma anche da qualche svista
come l'aver omesso che l'ourangoutang non possedesse un'andatura del tutto eretta. Per
questo, forse, arrivò a dire che tra uomo e ourangoutang le differenze fossero minime, e
ad assegnarli il nome scientifico di Satyrus indicus credendo di trovare in questa figura
forse troppo umana per essere un animale comune addirittura il mitologico satiro,
tralaltro già descritto come reale più di un millennio prima da Plinio il Vecchio. Questa
scelta, che può apparire curiosa per un uomo di scienza agli occhi del lettore
3 L'idea secondo cui l'ourangoutang (che in questo caso era proprio l'orango asiatico) non parlerebbe
per pigrizia è contenuto nel resoconto fatto da Jakob de Bondt nel 1658 e riportato da Barsanti (2005)
p. 71.
4
Il fenomeno, ovvero che la specie umana conservi dei tratti infantili caratteristici di altre specie
imparentate, è detto neotenia, e si pensa possa addirittura aver giocato un ruolo nell'evoluzione del
genere Homo permettendo, ad esempio, di prolungare per un periodo di tempo maggiore la crescita
encefalica e parimenti rendere gli infanti dipendenti dalla madre per un periodo maggiore di tempo.
11
contemporaneo, poggiava su un nutrito immaginario popolare che già in epoca
medievale pullulava di raffigurazioni fantasiose e grottesche di uomini selvaggi simili a
scimmie5, dotati spesso di turpi abitudini sessuali (come peraltro il satiro della
leggenda).
Qualche decennio dopo, nel 1699, è il turno di un altro medico, l'inglese Edward Tyson,
di compendiare le notizie sull'ourangoutang con una meticolosa dissezione di un
esemplare adolescente, probabilmente un bonobo, giunto a Londra con una nave
proveniente dall'Africa nel 1698 e morto quasi subito a causa di un infezione. Più
accurato dell'esame di Tulp, quello di Tyson mise a paragone svariate caratteristiche
morfologiche dell'ourangoutang con quelle dell'uomo e di altre specie di scimmie
conosciute all'epoca e individuò 48 dettagli anatomici dell'ourangoutang che
assomigliavano più ai corrispondenti umani e 34 che invece ricordavano maggiormente i
corrispondenti scimmieschi, tanto che Tyson chiamò l'ourangoutang “pigmeo”, una
mitologica razza di nani che autori antichi e medievali volevano abitanti dell'Africa.
Tyson contribuiva così a consolidare l'immagine dell'ourangoutang come forma di vita
intermedia, e che dava tralaltro un fondo di verità ad alcune leggende6, tra l'uomo e gli
altri animali. Dove però riconosceva vicinanze notevoli dal punto di vista anatomico,
Tyson precisava (sulla scorta di Descartes, autore che ebbe molta influenza sul pensiero
occidentale anche in questo ambito) che come tutte le creature viventi eccettuato l'uomo
l'ourangoutang non possedeva un'anima razionale, ed era quindi una specie di “automa
naturale” guidato a comportamenti meccanici da impulsi e risposte istintive. L'anima
razionale quindi, e non qualche tipo di differenza fisica, distingueva l'uomo dagli altri
animali e in questa maniera veniva sottolineata anche l'importanza che rivestiva per
questi autori la volontà divina nel decretare cosa fosse la natura umana.
Sia Tyson che Tulp, con il loro operato, diedero nuovo materiale a una tradizione già
5 È bene ricordare che, se pure delle antropomorfe non si avessero notizia (eccettuato qualche racconto
di fugaci avvistamenti nei quali venivano perlopiù scambiate per esseri umani mostruosi), erano
ampiamente conosciuti vari tipi di scimmie, tra cui ad esempio macachi di varie specie, babbuini e
molti altri primati del vicino oriente o dell'Africa settentrionale.
6 Tyson aggiunse inoltre che pure i cinocefali, le sfingi, i satiri e le altre creature ritenute dagli autori
antichi ulteriori specie di umani erano in realtà scimmie o pigmei come quelli che aveva dissezionato
(Corbay, 2008) p. 63.
12
ben avviata in ambito filosofico e in via di affermazione in quello naturalistico che
voleva gli esseri viventi ordinati in una vera e propria scala naturae, nella quale ognuno
avesse il suo posto stabilito in una progressione crescente verso la maggiore
complessità. Questa idea, che resistette in varie forme per lungo tempo, si impose per la
prima volta nella comunità dei naturalisti con Charles Bonnet7 e in un certo senso alcune
sue implicazioni furono sempre sottintese, anche dopo la scomparsa della sua versione
più letterale dal dibattito, nei numerosi autori che partirono in seguito da una concezione
antropocentrica del mondo, in opposizione agli autori tesi invece a lavorare su un'ipotesi
di continuità, più o meno accentuata, tra esseri umani e mondo naturale. Fatte le debite
proporzioni, molta della scienza biologica successiva si può in ultima analisi ascrivere a
un confronto tra queste due fazioni. Inoltre, anche molti autori guidati da sincero spirito
naturalistico e determinati ad abbandonare concezioni predeterminate e fuorvianti come
quella di scala naturae non riuscirono a rinunciare davvero all'idea che l'uomo fosse
qualcosa di altro dal mondo naturale. Un buon esempio di questa dinamica ai suoi inizi è
costituito dalla divergenza tra i lavori di Linneo, Buffon e Blumenbach, i tre naturalisti
probabilmente più autorevoli del XVIII secolo, che, pur se tutti figli di un'epoca in cui
l'uomo doveva ad ogni modo essere considerato nella sua alterità nei confronti della
Natura, affrontarono la questione con approcci decisamente differenti.
A Linneo si deve la rivoluzione nella sistematica che dura ancora oggi ovvero la
creazione, poi solo perfezionata e ampliata, di uno standard per i taxa (Regno, Classe,
Ordine, Genere e Specie ognuna indicata da un nome in latino) che andava a sostituire la
lunga descrizione morfologica in uso precedentemente. Un'impostazione del genere
metteva in difficoltà l'immagine ormai tradizionale della scala poiché puntava più che
altro a ordinare i viventi in quello che secondo il naturalista svedese era l'ordine imposto
da Dio, e che assomigliava più che altro a una divisione in gruppi di simili (da cui i vari
taxa). Da questo punto di vista, e dati i resoconti di cui si è già detto e gli studi di cui si
disponeva all'epoca, l'impostazione di Linneo non poteva far altro che condurlo a
7
Il quale, curiosamente, credeva che non solo queste scimmie antropomorfe occupassero il gradino
subito inferiore a quello dell'uomo, ma che nella “rivoluzione” di là da venire si sarebbero trasformati
in esseri umani, contemporaneamente all'ascesa di questi ultimi al rango di creature celestiali
(Barsanti, 2005).
13
inserire le scimmie antropomorfe nello stesso gruppo degli uomini, per via di tutte
quelle somiglianze che fanno sì che non esista “un solo carattere che consenta di
distinguere l'uomo dalle scimmie antropomorfe”, e dato che “la scimmia più stupida
differisce così poco dall'uomo più sapiente che si deve ancora trovare il geodeta della
natura capace di tracciare tra loro una linea di divisione”8. Non solo quindi inserì il
genere Homo nell'ordine dei Primates, nella classe dei Mammalia e nel regno degli
Animalia, ma inserì nello stesso genere anche l'ourangoutang, col nome scientifico di
Homo sylvestris OurangOutang, oltre che svariate altre creature scimmiesche reali o
immaginarie (non però le scimmie comuni, che finirono in generi diversi se pur
compresi anch'essi nell'ordine dei primati). Linneo non si dimenticò dell'unicità umana,
ma ci tenne a precisare che essa è argomento di cui devono dibattere i teologi, non gli
scienziati i quali devono semmai riconoscere e studiare le caratteristiche che
suggeriscono l'appartenenza dell'uomo al mondo naturale.
La classificazione linneiana portò inevitabilmente a proteste accorate, se pur nessuno
condannò o mise all'indice il lavoro del naturalista svedese, e a ferme prese di posizione
da parte di altri naturalisti. La reazione di Buffon, che pure ebbe grandi meriti come la
rivalutazione dei fossili quali testimonianze del passato da utilizzare nello studio della
Viventi o la postulazione di un'attualità delle forze geologiche (ovvero: le forze che
hanno plasmato il mondo sono tuttora all'opera, di contro alla geologia catastrofista che
voleva un mondo in quiete intervallato da eventi rivoluzionari), fu di difendere a spada
tratta la dignità lesa dell'essere umano, proclamando a gran voce che il Creatore “non
volle fare il corpo umano secondo un modello totalmente differente da quello
dell'animale [...] nello stesso tempo in cui gli conferiva una forma materiale simile a
quella della scimmia, Egli infuse il Suo divino alito in quel corpo animale”9. Può
sembrare che le due posizioni fossero in realtà simili (in entrambe sembra notarsi un
binomio corpo animalesco/anima divina), ma riflettono in realtà due approcci
completamente diversi; convinto funzionalista e perciò attento più alle caratteristiche
comportamentali come il linguaggio vocale, Buffon riteneva difatti che il divario
8 Entrambe le citazioni sono riportate in Barsanti (2005), p. 73.
9 Citazione riportata in Corbay (2008), p. 70.
14
cognitivo tra uomo e animali fosse tanto ampio da richiedere una catalogazione separata
della specie umana, per non degradarla. Il concetto di degradazione era un punto
importante della teoria buffoniana, che arrivò a postulare quello che alcuni considerano
un protoevoluzionismo fondato su derivazioni di alcune specie da altre; in realtà un
giudizio di questo genere è arduo da avvallare poiché Buffon credeva sì che alcuni
gruppi di specie fossero comparsi per degradazione da pochi ceppi principali, ma
escludeva da questo processo alcune specie “nobili”, tra cui ovviamente l'uomo.
Tuttavia, il suo impianto teorico sembra richiamare quantomeno in parte la già ricordata
scala naturae (anche se le scale proposte da Buffon sono molteplici e più che altro
discendenti), per quanto mantenesse anche l'impostazione “a gruppi” di Linneo; in un
certo senso la si può vedere come un adattamento del principio di base di quel vecchio
modello (ovvero che esistano diversi gradi di “nobiltà” in natura) a un mutato approccio
metodologico dal quale non si poteva più prescindere.
Un ulteriore avvallamento di questa supposta radicale alterità umana venne in seguito da
Blumenbach, inventore della craniologia comparata e quindi precursore di tutti quei
movimenti scientifici che dalla frenologia all'antropometria novecentesca ebbero il
merito (annegato, è bene ricordarlo, da un mare di difetti quali la sponda fornita a
grossolane idee razziste) di cercare una misura biologica anche per le facoltà cognitive;
nonostante questo approccio innovativo, e nonostante respingesse l'idea di “catena
dell'essere” preferendo cercare le affinità tra gruppi di esseri viventi simili, anche
Blumenbach convenne che l'uomo andava separato radicalmente dalle scimmie
antropomorfe. Come Buffon, anch'egli utilizzava un approccio classificatorio
maggiormente improntato a dare risalto alla morfologia funzionale, per il quale era
discriminante l'uso diverso che uomini e scimmie facevano (ad esempio) degli arti e non
la loro somiglianza anatomica, e per questo motivo classificò gli uomini in un ordine
diverso rispetto alle scimmie rifiutando l'invenzione linneiana dell'ordine dei primati.
Nuovamente come Buffon, inoltre, era determinato a “difendere i diritti del genere
umano e a contestarne la ridicola associazione con la vera scimmia, l'ourangoutang”10.
10 Citazione riportata da Corbay (2008) p. 72. Da notare che nonostante Blumenbach non credesse alla
possibilità di considerare parenti prossimi l'uomo e l'ourangoutang era fermamente convinto che al
suo interno il genere umano potesse variare, tant'è che credeva alla degenerazione (a suo onore va che
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