2
rivelarle gli uni agli altri, a metterle in comune, a passare da conoscenze private individuali ad
un progetto.
Il secondo capitolo è una chiara e precisa illustrazione sulla Progettazione Integrata
Territoriale, inquadrandola nella nuova programmazione per lo sviluppo del Mezzogiorno.
Vengono tracciati quelli che sono gli elementi di discontinuità tra Patto e PIT e vengono
descritti i servizi RAP per l'assistenza e l'avvio della Programmazione Territoriale.
Inoltre, vengono precisati le fasi per la formazione del progetto, dalla sua ideazione alla sua
identificazione, dalla sua preparazione al suo finanziamento, per arrivare alla sua
realizzazione e gestione.
Il terzo capitolo vuole invece essere una ricerca di quindici casi di Progetti Integrati
Territoriali nelle regioni dell’Obiettivo 1, Alto Basento e Metapontino per la regione
Basilicata, Locride e Serre Calabresi per la regione Calabria, Campi Flegrei, Certosa di
Padula, Città di Caserta e Pietralcina per la regione Campania, area metropolitana di Bari,
territorio salentino Leccese per la regione Puglia, Consorzio 21 di Cagliari e Barigadu-
Ghilarzese-Grighine-Marmilla per la regione Sardegna, e Nebrodi, Palermo e Valle del Torto
e dei Feudi per la regione Sicilia.
Gli studi di caso sono stati condotti utilizzando una struttura comune, con un’articolazione in
quattro parti: contesto, processo istituzionale del PIT, caratteristiche del Progetto ed
attuazione, valutazioni di sintesi.
Il quarto ed ultimo capitolo vuole, invece, essere un esempio concreto di Progetto Integrato
Territoriale, quello del Pit Alto Basento, già indicato nel precedente capitolo, ma qui meglio
analizzato sotto il suo profilo strutturale. La scelta di tale Pit non è lasciata al caso, ma
accuratamente valutata da una personale analisi del mio territorio di origine: la Basilicata.
Ho ritenuto, infatti, molto interessante la forte motivazione alla valorizzazione delle risorse
naturali, culturali e produttive locali che il PIT Alto Basento ha identificato nella sua “Idea-
Forza”.
3
Con la scelta della sua idea-strategica d'importazione nell'area della Grancia dell'esperienza
francese del Parco “Puy du Fou”, si è dato vita ad un Parco tematico articolato nel
“Cinespettacolo della Grancia”.
In un'atmosfera spettacolare vengono ripercorse le vicende umane e storiche di una comunità,
attraverso la storia del personaggio chiave: Carmine Crocco, simbolo del brigantaggio lucano.
Le conclusioni alle quali si perviene lungo questa analisi di uno specifico “sentiero di
sviluppo”, quello dei PIT, inducono ad un'ulteriore riflessione sulla necessità di mettere a
sistema tutte le energie di un territorio per accompagnare un qualsiasi processo di sviluppo, e
quando quest'ultimo si configura come fenomeno turistico (l'esempio del parco della
Grancia), la condivisione e la collaborazione del percorso è l'unica strada per il successo.
4
Capitolo Primo
Teorie e politiche di sviluppo dell’economia italiana
"dal miracolo economico alla moneta unica"
1.1 Sviluppi e squilibri nel dualismo italiano
1
Il veloce sviluppo economico che ebbe luogo fra il 1955 e il 1963 fu contrassegnato da
elementi profondamente contraddittori, tanto da apparire come uno sviluppo bifronte.
2
In quegli anni, l’economia riuscì a conseguire simultaneamente tre obiettivi : investimenti
produttivi assai elevati, stabilità monetaria, equilibrio nella bilancia dei pagamenti.
Il medesimo periodo fu però anche contrassegnato da gravi elementi negativi: un flusso
crescente di immigrazioni, il già indicato <<dualismo>> della struttura industriale, la povertà
del Mezzogiorno, la struttura squilibrata dei consumi privati, le carenze dei servizi pubblici, la
cogestione delle grandi città.
Il problema principale che si pone è quello di stabilire in che misura una politica economica
più avveduta avrebbe potuto separare gli aspetti positivi da quelli negativi, realizzando uno
sviluppo altrettanto veloce, libero però da dualismi e distorsioni.
1.1.1 Fattori propulsivi interni ed esterni dell’economia italiana
E’ una questione aperta se sia possibile individuare un fattore dominante al quale attribuire
l’avvio del processo di rapido sviluppo degli anni cinquanta.
Una corrente del pensiero propende per individuare il fattore dominante dello sviluppo
italiano nell’espansione veloce delle esportazioni, corrente che farebbe rientrare il caso
1
Graziani.A. (2005). “Lo sviluppo dell’economia italiana, Dalla ricostruzione alla moneta europea”, Bollati
Borginghieri, Torino,.
2
Barca. F. (1997). “Storia del capitalismo italiano”, Donzelli, Roma
5
italiano nel cosiddetto sviluppo guidato dalle esportazioni, osservando che la componente
esterna dell’economia italiana giocava un ruolo centrale all’interno dello sviluppo.
Analizzando quella che era l’economia italiana nei primi anni cinquanta, notiamo la necessità
nel ritrovarsi a sviluppare una corrente sostanziosa di esportazioni.
La struttura della produzione si ritrovava, quindi, a seguire l’orientamento che le imprimeva la
domanda proveniente dai paesi più europei in fase di avanzata industrializzazione. Bisognava
seguire, perciò, la domanda che proveniva dai paesi più avanzati, largamente orientata verso
consumi di massa e di lusso e anche l’economia italiana era costretta a fare largo spazio alla
produzione di beni e consumi di massa o addirittura di lusso; beni che risultavano, però, fuori
rispetto le esigenze di livelli modesti del reddito italiano. La produzione dell’industria italiana
assumeva così la struttura di un’economia opulenta
3
.
L’industria faceva il suo ingresso nella produzione di massa dei beni di consumo, quando
ancora il livello modesto del reddito medio mirava ad esigenze di produzione verso beni di
più immediata necessità.
La struttura di questa economia fece nascere l’esigenza di una suddivisione produttiva in due
settori distinti: Industrie esportatrici e industrie orientate prevalentemente verso il mercato
interno.
Richiamando l’attenzione sull’economia interna
4
italiana, dopo un’attenta analisi dei possibili
fattori, s’individua il fattore propulsivo nella presenza simultanea di condizioni favorevoli
sotto forma di bassi salari, e quindi profitti elevati, ampie possibilità di autofinanziamento,
bassa conflittualità operaia e un forte arretrato tecnologico, che consentì aumenti di
produttività molto rapidi. I disoccupati italiani, fornirono un vero e proprio <<esercito di
riserva, reclutabile in massa nel profondo della provincia italiana>>
5
.
3
Graziani A. (1969). “Lo sviluppo di un’economia aperta”, Esi,Napoli.
4
Castronovo V. (1975). “La storia economica, in Storia d’Italia” vol.4/I, Enaudi, Torino.
5
Castronovo V., op. cit.
6
1.1.2 Settore stagnante e settore dinamico dell’economia italiana: Sviluppo
dualistico
Esaminando la veloce espansione delle esportazioni si osserva come tale meccanismo sia
legato esclusivamente all’apertura di precisi settori.
Il settore orientato verso le esportazioni doveva necessariamente essere efficiente e
competitivo sul piano internazionale
In questo settore “dinamico” le imprese dovevano necessariamente adottare tecnologie
avanzate, caratterizzate da alti coefficienti di capitale per lavoratore, se ciò non fosse
avvenuto, esse non sarebbero state in grado di offrire prodotti qualitativamente adeguati a
quelle che erano le esigenze del mercato internazionale
6
.
All’estremo opposto, i settori che lavoravano per il mercato interno, non essendo sottoposti
alle pressioni della competitività, restavano limitate per quando riguarda la produttività,
l’efficienza e l’innovazione tecnologica.
In questo settore ”stagnante” troviamo le attività tradizionali dell’economia italiana; le
industrie tessili, alimentari, delle costruzioni e del commercio al dettaglio.
Mentre il settore dinamico veniva continuamente sollecitato dall’espansione della domanda
estera, il settore stagnante si limitava a rispondere alle esigenze della domanda interna che
non richiedeva l’efficienza.
I settori esportatori, tenuti a livelli elevati di competitività, creavano in realtà occupazione
limitata. Il perdurare della disoccupazione rendeva debole l’azione sindacale, conteneva la
pressione salariale e si eliminava la pressione sui prezzi, sia dal lato della domanda, che dei
costi.
A sua volta la stabilità monetaria favoriva le esportazioni, facilitando così l’equilibrio della
bilancia dei pagamenti.
6
Graziani, A.(2005) “Lo sviluppo dell’economia italiana, Dalla ricostruzione alla moneta europea”. Bollati
Borginghieri, Torino.
7
Lo sviluppo di tali industrie, con le connesse economie di scala, faceva declinare i prezzi
relativi dei loro prodotti, in termini precisi, cadevano i prezzi di autoveicoli, televisori, e
simili, mentre crescevano i prezzi dei generi alimentari più necessari. Oltre al meccanismo dei
prezzi, anche la redistribuzione del reddito contribuiva ad accrescere la domanda dei beni di
lusso. Si produceva così la tipica <<distorsione dei consumi>> in virtù della quale l’economia
italiana vedeva sviluppare velocemente i consumi dei generi di lusso, a scapito di consumi
essenziali. Al tempo stesso, la necessità per l’industria esportatrice di tenere alti livelli di
produttività e di efficienza ritardava l’industrializzazione del Mezzogiorno, aprendo così la
strada alle grandi correnti migratorie.
Forti guadagni di produttività e bassi aumenti di occupazione sono le caratteristiche dei settori
dinamici dell’industria italiana, esattamente il contrario, invece, nei settori stagnanti.
Il fatto che i settori più dinamici dell’industria assorbissero lavoratori in misura modesta, e
che la maggioranza di chi abbandonava l’agricoltura fosse costretta a trovare occupazione nei
settori meno dinamici, determinava una posizione di debolezza del sindacato dei lavoratori.
Tale debolezza è sottolineata dal fatto che non vi furono, nel corso degli anni cinquanta,
scioperi di carattere nazionale aventi contenuto strettamente economico. Alla fine del 1960 la
situazione, però si capovolgerà come vedremo avanti..
E’ da evidenziare anche, come nei settori dinamici si ha un crescente di profitti e una
progressiva redistribuzione del reddito a favore dell’impresa.
Il sistema del dualismo industriale mostrava di possedere, oltre la capacità di autoperpetuarsi,
anche il requisito della stabilità monetaria e dell’equilibrio dei conti con l’estero.
1.1.3 Nord, sud e sviluppo: aspetti del dualismo italiano
Nell’affrontare il problema del nodo del dualismo italiano nel secondo dopoguerra, la parola
d’ordine della politica d’intervento nel mezzogiorno è stata fin dall’inizio quella della
modernizzazione, una parola d’ordine che esprimeva la responsabilità di allentare i vincoli e
8
di porre le premesse dello sviluppo economico italiano.
Nel caso italiano la modernizzazione doveva fare i conti con il problema del dualismo,
relativamente poco importante sembra il fatto che, alla fine degli anni sessanta, il problema
del divario interno Nord-Sud sia ancora sostanziale; infatti, nonostante il perdurare delle
distanze, quegli anni segnalano una dinamica dell’economia e della società meridionale
relativamente più forte di quella registrata nel centro nord. In altri termini pareva essersi
innescato un meccanismo di sviluppo che faceva presagire un progressivo affievolirsi del
problema interno e comunque un suo facile controllo.
Il filo conduttore della strategia della modernizzazione è rappresentato da una ben precisa
sequenza: sviluppo del mercato – sviluppo economico. Lo sviluppo del mercato è indicata
come la chiave economica dello sviluppo e questa corrispondenza individua la logica dei
disegni di intervento nei primi anni del secondo dopoguerra.
Una classica parabola di questo legame è rappresentata dal modello di Lewis
7
e dalla
formalizzazione proposta da Fei e Ranis
8
(1961). Essi infatti, analizzano come possa avvenire
l’espansione del mercato fino ad approdare al sentiero di sviluppo autopropulsivo che dissolve
i fattori dualistici in partenza. Il meccanismo di sviluppo così innescato si autoalimenta fino
alla completa omogeneizzazione del mercato del lavoro e quindi fino al raggiungimento dello
scambio completo della forza lavoro produttiva sul mercato a prezzi di equilibrio. E’ questo il
passaggio essenziale del modello con offerta limitata di lavoro al modello di equilibrio di
piena occupazione.
Da questo momento in poi, come dice Lewis, finisce la fase dello sviluppo e inizia la fase
della crescita.
Questo detto ci porta ad affermare che il modello di Lewis è una stilizzata rappresentazione di
un progetto d’intervento su una realtà arretrata, nella quale domina la comunità, che consenta
al sistema, divenuto progressivamente società, di superare l’arretratezza per arrivare a
7
Lewis, A.W.,(1970). “Teoria dello sviluppo economico”, Feltrinelli, Milano.
8
Fei J.,C.H., Ranis, G., (1964).”Development of the Labour Surplus Economy:Theory and Policy, Homewood”.
9
confrontarsi con il problema tipico della società avanzata: quello della crescita.
La diversità tra sviluppo e crescita sta individuata nel fatto che le leggi della crescita sono
tutte interne ai meccanismi automatici e sovrani di funzionamento di un mercato la cui
assistenza è presupposta; dunque un mercato-istituzione che diversamente dalla fase dello
sviluppo domina tutta la dinamica dell’economia.
L’economia dello sviluppo invece, non può partire da questo presupposto e quindi prova ad
individuare un sistema su come costruire questa essenziale istituzione mancante.
Con sviluppo del mercato l’economista, dunque, intende il prevalere di un assetto istituzionale
che promuove fino a renderli dominanti, i rapporti impersonali tra operatori di un sistema
omogeneo che partecipa nella stessa razionalità e si confronta con gli stessi segnali nel
definire azioni e decisioni economiche, e quando persiste un residuo di transazioni
caratterizzate dai rapporti personali non bloccano o condizionano il sistema.
Il problema resta nell’individuare se effettivamente anche da un processo di sviluppo messo in
moto scaturisce poi in parallelo lo sviluppo di un mercato efficiente.
Schematizzando il modello tradizionale prevede un diffondersi dello sviluppo purché gli
incentivi per gli operatori e i prezzi relativi siano quelli appropriati, la propagazione
avverrebbe dal centro sviluppato a quello arretrato in modo tale da eliminare, in un processo
cumulativo ed evolutivo, i differenziali di potenziale.
In opposizione ad un ottimistico automatismo si contrappone la teoria dipendentistica, che
vede come esito probabile del rapporto tra area avanzata e arretrata non già un superamento
delle differenze, determinato dalla propagazione dei meccanismi che dominano l’agire e i
processi economici delle realtà avanzate, bensì il rafforzarsi di meccanismi perversi che
mantengono e alimentano l’arretratezza e di fatto impediscono un pieno decollo del mercato
nella realtà arretrata e rafforzano invece la centralità e la dominanza di ben precisi interessi
fortemente condizionati rispetto a qualsiasi sviluppo.
Analizzando il caso italiano, il contatto italiano tra le due aree del paese nel secondo
10
dopoguerra innesca sei reali processi di mutamento della società meridionale nella direzione
della modernizzazione. Questo fenomeno non avviene certamente in modo spontaneo, al
contrario è identificata una strategia d’intervento che si propone come obbiettivo lo sviluppo
del mercato e la trasformazione del Mezzogiorno da comunità a società.
La modernizzazione ha quindi l’idea di promuovere il mercato e di dissolvere il regime dei
rapporti allora dominanti nelle campagne, la riforma agraria è un primo esempio di questo
tentativo che pur nella sua moderazione esso è abbastanza drastico da far emergere come
plausibile un nuovo meccanismo di equilibrio sociale nel Mezzogiorno che passa per una
ridifinizione sostanzialmente di separazione tra le due aree del paese.
E’ da sottolineare che la matrice economista della modernizzazione non poteva non affidare
significativamente la promozione di questa strategia a un meccanismo di dipendenza
economica con caratteri però diversi da quelli postulati dalla teoria indipendentista sopra
citata. Infatti, nel tradizionale schema di Lewis la dipendenza economica è proprio indotto
dalla strategia di sviluppo. Essa è un “incidente” necessario ma transitorio in misura del
successo che la strategia stessa riscuote. Se dunque la gestione del rapporto Nord-Sud
mediante una politica di sviluppo ha la potenzialità di promuovere l’espansione del mercato
con le sue caratteristiche di relazioni standardizzate e impersonali, è anche vero che la
dipendenza che occorre programmare per il tempo necessario al decollo dell’area arretrata, è a
sua volta uno spazio di potenziale persistenza e predominio delle relazioni clientelari a
carattere interpersonale.
Per una certa fase i due aspetti possono convivere, rinviando nel tempo al realizzarsi di eventi
esterni l’eventualità di uno scontro finale che risolve la contraddizione.
Schematizzando abbiamo quindi che il dualismo, in presenza di politiche di sviluppo, apre il
sistema a un rapporto di dipendenza a vari livelli che può essere terreno per un uso
inefficiente delle risorse. Questo rischio imminente è inversamente proporzionale all’intensità
e all’efficacia delle politiche di sviluppo. Infatti, flussi di risorse che hanno risultati effettivi
11
sulla struttura dell’economia consentono di sviluppare le tipiche istituzioni di mercato e
quindi il procedere dello sviluppo dei mercati, non elimina la possibilità che permanga o
addirittura cresca uno spazio in cui agiscono le logiche dello scambio su base personale e
clientelare specie se si realizza uno sviluppo rilevante nel settore pubblico.
La possibilità che si perpetui o si sviluppi questo aspetto disfunzionante, che alla fine può
dimostrarsi dominante, è legata ovviamente a eventuali circostanze ed è correlata ai periodi di
crisi del sistema economico. Infatti, sembra plausibile che la capacità di sostenere politiche di
sviluppo coincida con i periodi più forte di crescita economica per la disponibilità maggiore
delle risorse e per una minore resistenza a questa linea di condotta adottata.
Lo sviluppo economico ha un effetto importante su un aspetto strutturale delle economie
arretrate allentando, fino ad eliminarlo, l’eccesso strutturale d’offerta sul mercato del lavoro.
In altri termini, a causa dei vincoli all’offerta e della non perfetta sostituibilità dei fattori, un
economia in via di sviluppo presenta come tratto sistematico un razionamento sul mercato del
lavoro che non può essere certo ricondotto a un livello eccessivo del salario reale di equilibrio
in senso neoclassico. Ora, mentre un’efficacia politica di intervento, incidendo sul vincolo
dell’offerta, va nel senso di ridurre il razionamento sul mercato, l’arresto del processo di
sviluppo conferma e rafforza questo tratto sistematico.
La persistenza del razionamento sul mercato del lavoro ha a sua volta conseguenze rilevanti
soprattutto nel sistema dualistico.
Quando l’eccesso di forza lavoro diviene strutturale a livello nazionale si fanno più forti le
pressioni per destinare risorse finalizzate al controllo della pressione sociale che ne deriva.
Ciò rappresenta un errore indotto dal privilegiare un’ottica di breve periodo e che pone le basi
della possibile degenerazione del rapporto di dipendenza instaurato con le politiche di
sviluppo.
Due sono i canali che queste pressioni attivano: in primo luogo, in presenza di un sistema di
Stato sociale, esso alimenta un automatico flusso di risorse verso il Sud dove, appunto, si
12
concentra quella parte della popolazione che con servizi e provvidenze il sistema di garanzia
pubblico deve salvaguardare.
Un secondo aspetto, particolarmente rilevante e più discrezionale, è il ruolo crescente che
assume il settore pubblico sul mercato del lavoro. In presenza delle difficoltà di assorbimento
nel settore privato, le risorse pubbliche oltre che al sostegno dei redditi vengono via via
finalizzate anche a un’espansione dell’occupazione nella PA centrale e locale delle aree
depresse. Un’espansione in linea con le tendenze prevalenti nel resto del paese significa
comunque una crescita progressiva della quota dei lavoratori dei settori produttivi privati.
Entrambi questi processi portano allo spiazzamento definitivo delle politiche di sviluppo; a
parità di risorse destinabili alle aree depresse, queste sono dirette al sostegno dei redditi e
quindi della domanda locale piuttosto che alla promozione dell’offerta e del mutamento
strutturale. Nella misura in cui ciò accade, la dipendenza dell’area arretrata diviene sempre
meno reversibile e da fisiologica si qualifica sempre più come patologica.
Innanzi tutto, vi è l’illusione che il sostegno della domanda sia la migliore opportunità di
crescita fornita all’iniziativa locale. In realtà, un generico sostegno della domanda non crea la
propria offerta, esso alimenta semmai, le importazioni dal nord e tende a spiazzare la capacità
produttiva locale.
Le conseguenze che la strategia “domandista-assistenziale” ha surrogato nella politica di
sviluppo sono devastanti, soprattutto per gli esiti che ha sulla costruzione dell’istituzione del
mercato nell’area arretrata. Da un lato il mercato con le sue transazioni standardizzate penetra
sempre più la società con un ambito ben preciso, interessando cioè, soprattutto gli scambi ai
quali partecipano come consumatori gli operatori locali. E’ invece sui mercati dei fattori che,
con l’arretratezza dello sviluppo e al progredire dell’assistenza , si verifica un sostanziale
declino della modernizzazione ed è soprattutto su questo terreno che si sviluppano le relazioni
interpersonali.
I termini astratti di razionamento e discriminazione dei prezzi sul mercato del lavoro si
13
concretizzano in meccanismi fondamentali di sviluppo di transazioni corrotte e clienterali, di
costruzioni di monopoli personali, di potere politico che domina l’economia predicando
l’etica dell’assistenza, di vie preferenziali a sostegno di settori protetti che si traducono in
ulteriori condizionamenti allo sviluppo produttivo.
E’ giusto porre in evidenza che il completo superamento del dualismo può avvenire solo a
condizione che permangono per tutto il tempo necessario le possibilità di crescita del settore
avanzato dell’economia.
Ogni evento che metta in crisi queste possibilità si riflette sulle sorti del dualismo stesso
rendendo allettante intraprendere la via della degenerazione del rapporto di indipendenza tra
Nord e Sud.
Il prezzo che si paga è che l'uso delle risorse viene progressivamente distorto, aumentando la
componente di puro sostegno assistenziale e delegando al caso e alla fortuna l'ipotesi di una
ripresa dello sviluppo. La gestione dell’economia è politica dei tassi e del cambio, le politiche
strutturali scompaiono nei fatti, sopravvivono nominalmente in funzione assistenziale di
quelle imprese che dovrebbero invece navigare audacemente sul mercato. Nel lungo periodo
questo schema diviene difficilmente sostenibile per il peso che il suo finanziamento pone sulle
spalle dei contribuenti e per il circolo vizioso in cui rischia di precipitare il sistema produttivo.
1.2 Depressioni e trasformazioni industriali: dal decentramento produttivo
alla programmazione economica
Il decennio che analizziamo ora, è attraversato da profondi conflitti sociali che si manifestano
in lotte sindacali accese culminate nelle due grandi offensive: quelle del 1963 e del 1969.
Gli aspetti che dominano questo quadro sono, da un lato la forza crescente delle
organizzazioni sindacali, dall’altro, l’avvicendarsi delle strategie padronali dirette a
combattere tale forza e a restaurare il potere patronale.
Il patronato si trovò così a dover affrontare un’avanzata sindacale che, in una prima fase
14
durata fino al 1963, si verifica in regime di emigrazione elevate e di alto livello di
occupazione e, in una fase successiva , in regime di disoccupazione crescente e di emigrazioni
in declino.
Sul piano politico, l’avanzata sindacale viene accompagnata da un graduale spostamento a
sinistra dell’asse politico del governo.
I provvedimenti presi o annunciati dai primi governi di centro-sinistra produssero effetti
negativi sulle aspettative degli imprenditori attraverso la nazionalizzazione dell’industria
produttrice di energia elettrica, l’introduzione di una nuova imposta cedolare sui dividendo
azionari e l’istituzione della Commissione nazionale per la programmazione economica.
1.2.1 Depressioni e trasformazioni industriali
La prima reazione del padronato alle conquiste operai del 1961-63 fu il tentativo di
recuperare, almeno in parte, quanto era stato perduto attraverso un aumento generalizzato dei
prezzi
9
.
Il patronato si trovava stretto tra due vincoli, da un lato, le rivendicazioni salariali avevano
impostato aumenti di costo, dall’altro, i mercati internazionali impedivano di aumentare i
prezzi di vendita.
Si affermò con estrema chiarezza che “gli imprenditori italiani, stretti fra salari crescenti e
prezzi esterni stabili, vedevano seriamente compromessa la propria posizione”.
10
In queste circostanze divenne scontato il sorgere di un disavanzo crescente della bilancia
commerciale che accompagnava l’inflazione interna e l’aumento della domanda globale. Non
restava così che una sola via di uscita: arrestare l’inflazione attraverso una manovra di
compensazione della domanda globale, facendo così seguire alla manovra dell’inflazione una
manovra di depressione
9
A. Graziani, op.cit.
10
Governatore Carli, (1960).”Relazioni annuali della Banca d’Italia”.
15
Alla stretta creditizia seguì una violenta caduta degli investimenti, tale caduta produsse un
calo di occupazione, diminuì la domanda di beni di consumo, e il meccanismo circolare della
depressione si mise in moto.
La bilancia dei pagamenti presentava un passivo che non era dovuto a eccessive importazioni
di merce ma unicamente a eccessive esportazioni di capitali finanziari.
Accadeva cioè che imprenditori e finanzieri italiani trovavano molto più conveniente
impiegare fondi per acquistare titoli esteri, in modo da fuggire al fisco e eventualmente
realizzare dei guadagni.
Ma nessun provvedimento amministrativo venne preso contro queste fughe di capitali, se non
successivamente
11
.
1.2.2 Manovra esterna di ristrutturazione industriale: “il decentramento
produttivo”
La situazione in cui il padronato italiano si trova a far fronte dopo il 1969 si presentava
particolarmente complessa. Da un lato appariva necessario proseguire nel consolidamento
della struttura industriale, dall’altro occorreva tenere conto di un mercato del lavoro che si era
presentato particolarmente conflittuale.
La strategia messa in atto dal patronato fu una vasta e complessa manovra di ristrutturazione
dell’apparato produttivo che questa volta venne attuata non solo all’interno della fabbrica, ma
soprattutto all’esterno della fabbrica, attraverso la pratica del decentramento produttivo
12
.
Per comprendere a pieno questa pratica è giusto analizzarne alcuni aspetti principali.
Nei settori dell’industria pesante, il problema principale è l’acquisizione di mezzi finanziari a
bassi costi e un’ulteriore via seguita dalle imprese nel tentativo di consolidare la propria
posizione fu quella della revisione della dislocazione territoriale degli investimenti.
11
Izzo, L.e altri, (1970).”Il controllo dell’economia nel periodo breve”, Angeli, Milano.
12
Brusco, Graziani .(1975).”Economie di scala e livello tecnologico nelle piccole imprese”.